31- Il mistero della filastrocca
Alle volte occorrono delle pause enormi per riuscire a respirare. Attimi di puro ossigeno nei quali perdersi e chiedersi fino a che punto si è disposti a lottare, e fino a dove ci si può spingere.
L'animo umano è contorto ma ancora di più lo sono i suoi pensieri. Matasse. Fili elettrici. Enigmi irrisolvibili. Silenzi, più di tutti. Attimi di contatto tra ciò che sei e la tua anima.
«Sapevo che ti avrei trovato qui. Ti è sempre piaciuto questo posto» commenta la voce di Miranda, avanzando alle mie spalle.
«Avevo bisogno di riflettere.»
Questo parco ospita solo due piccoli laghi artificiali, e questo è il mio preferito. Oltre le chiome degli alberi si identificano ancora gli enormi grattacieli di Los Angeles, ma paiono più distanti, quasi schermati da una realtà che si è messa di mezzo.
«Che cosa hai pensato la prima volta che mi hai visto, Miranda?»
«Che tu fossi un ragazzo particolarmente testardo. Una testa calda, insomma, e per questo capace di grandi cose.»
«Dove altro mi vedi, oltre che nel mondo del teatro?»
«Stai pensando di rinunciare?»
«No... sto pensando a mio padre, a quello che disse riguardo all'arte.»
Al mio fianco, sento Miranda sorridere, complice com'è di una realtà fastidiosa quanto evidente. L'arte non sfama, non le persone prede dell'ambizione come me, o uomini con i piedi ancora legati a terra. Lo considero un lavoro ma può avere realmente un risvolto simile? Forse un impiego in una fabbrica o in una ditta sarebbe stato meglio. Salario garantito, rischi limitati, possibilità di scindere il proprio privato dall'ambito di competenza e nessuno sforzo nel reinventarsi.
«Non sei costretto a diventare un uomo come lui, Michael. Anzi, sono certa che non lo diventerai.»
«Perché dici questo?»
«Perché stai provando a emergere, figliolo. Stai mettendo in mostra il tuo cuore, forse grazie anche a Katrina. Non sarai mai pieno di così tante barriere o pregiudizi come fu lui, e potrai vivere la tua vita serenamente, come più desideri.»
Assorbo le parole di lei, divenute essenziali per non impazzire.
«Quali sono i tuoi sogni?» Continua imperterrita.
Con una risata soffocata tento di non impazzire.
«Beh, immagino di desiderare la stabilità, ormai. Ho quasi trent'anni ed una donna che amo. Vorrei la sicurezza di una famiglia e di un lavoro che mi soddisfa. Vorrei sentirmi realizzato, scoprire... che tutti i miei sforzi non sono stati vani.»
«E lo vuoi dimostrare, a chiunque ti sia vicino.»
Resto in silenzio, continuando a fissare la piatta trasparenza di questo lago immobile, vedendo scorrere davanti agli occhi immagini di domeniche passate con la mia famiglia, a caccia di nuove sensazioni e ricordi.
«Sei l'uomo più tenace che io conosca», mormora Miranda al mio fianco, e dopo alcuni secondi il suo corpo si solleva da questa panchina in marmo, rimanendo al mio fianco.
Sento la sua mano posarsi sulla mia spalla in una raccomandazione di prudenza, così come di forza. L'orgoglio e il timore della madre che ancora mi è rimasta in vita.
«Dimostra anche a Dominic Lance di che pasta sei fatto.»
P.O.V.
Caitlin
L'impazienza traspare dal ticchettio delle mie unghie contro la bianca porcellana, contenente nero liquido caldo. Fuori da questa vetrata il tempo minaccia tempesta ma non mi fa paura la pioggia, anche se dietro non ho l'ombrello. Quello che mi spaventa sono i lampi, nel loro luminoso ultimatum. Rimarrò il tempo necessario a spiegare la mia situazione e poi me ne tornerò a casa, poco ma sicuro.
Richard arriva trafelato proprio nel momento in cui i miei pensieri curvano direzionalità scontrandosi con l'idea di nuove tempere, e colori non ancora sperimentati, in grado di suscitare un armocromia simile a quella offerta dai prodotti del mercato.
Il suo sospiro è leggermente affrettato e il suo soprabito bagnato di alcune gocce temporalesche. Sembra sfoggiare un umore alquanto cupo ma forse è solo la sorpresa a farne da padrona.
«Katrina... non mi aspettavo questo tuo invito alla Vigilia. Stai bene? C'è qualche problema?»
«Non posso venire all'incontro di sabato. TI pregherei di spostare l'appuntamento, magari in un giorno lontano dalle feste.»
La sua preoccupazione scivola via, scomparendo con la stessa facilità di una menzogna.
«Non sono io a fare i programmi, Katrina. Si tratta di un cliente importante.»
«Allora mi spiace ma non lo riceverò dopo l'orario di cena.»
I suoi occhi si spalancano e sembrano davvero ospitare lo stupore. Avrò fatto una giusta mossa? Non riesco a pentirmene, conoscendo il mondo dell'arte e i consequenziali problemi che ne derivano.
«Non fai sul serio.»
«Quale grosso cliente può mai voler ricevere, a seguito della cena, una giovane artista, il giorno dopo Natale?»
Dar voce alle preoccupazioni rende il fatto ancora più inspiegabile e deplorevole. Ora sono certa di non voler affrontare un evento simile, e anche lo stare in presenza di Richard senza Michael, al momento, mi imbarazza.
«Non puoi fare sul serio.»
«Mi dispiace ma è così.»
«Non diventerai mai nessuno, in questo mondo, se non imparerai a buttare giù qualche boccone amaro! Devi farti le ossa, Katrina, cosa non capisci?»
Un brivido mi corre lungo la schiena nel vedere l'espressione furibonda con cui quest'uomo, assieme al quale ho condiviso poco più che un letto, mi fissa in un marcato senso di proprietà che gli fa credere di potermi trattare come una bambola.
«Devo farmi le ossa. Non un uomo» sibilo, e non appare nemmeno turbato da una simile insinuazione.
Dunque era questo il rischio che correvo.
Tornare a essere trattata da puttana era un'esperienza che non avrei mai voluto riprovare e invece eccola, proprio qui tra di noi.
«Non ti ho chiesto di prostituirti ma di essere gentile con un uomo che può aprirti molte porte. È così che funziona nella vita, chi non riesce chiede aiuto a chi è più forte, non lo sai?»
«Vuoi dirmi che è impossibile, a questo mondo, riuscire a fare qualcosa da soli, non è vero?» Il suo silenzio mi permette di recuperare la mia borsa con rabbia e sollevarmi in piedi. «Allora non diventerò mai un'artista, imparerò a fare altro perché non voglio dipendere da nessuno. Sono stata per troppo tempo sotto il controllo di altri.»
Nella foga, il telefono è caduto a terra, sotto al tavolo, per cui sono costretta a chinarmi mentre sento Richard alzarsi.
«Ti prego, non fare così. Vedi di calmarti, parliamone.»
La sua mano...
La sua mano si è sollevata e adesso mi sta accarezzando i capelli.
Torno dritta in un attimo con uno schiaffo e la scaccio via. Il cuore mi batte all'impazzata. La rabbia a malapena tenuta sotto controllo.
Fuggo in un attimo da quel soffocante bar, che si stava restringendo nelle pareti in modo da catturarmi, e poco dopo sono per strada, a respirare un'aria gelida, simile a una nube tossica composta da aghi.
Se è l'unica via, ciò che mi propone Richard, vorrà dire che sarò costretta a rinnovarmi. Non importa come. L'ho già fatto e forse la pittura finirà per essere un semplice passatempo nei pomeriggi di noia.
La porta del caffè si apre alle mie spalle e mi obbligo a non correre via, per sentire il finale di questa tortura. Richard non è mai stato un uomo capace di tenere il pugno chiuso per troppo tempo, deve aver già rinunciato a convincermi ma vuole riferirmi un'altra cosa, e prego affinché non possa farmi troppo male.
«Il posto per l'incarico dell'ultimo colloquio... è già stato assegnato, a una giovane ragazza della tua stessa scuola. Pensavo che dovessi saperlo.»
Chiudo gli occhi mentre sento i suoi passi marciare, al di sotto del ticchettio fornito dalla pioggia.
P.O.V.
Michael
Ho una lista mentale di cose da fare, ma questa su tutte non può aspettare.
La porta cigola leggermente quando la mia mano si posa sulla maniglia, riuscendo ad aprirla. La pioggia mi ha appena appesantito gli abiti, visto il tragitto fatto a piedi dalla fermata dell'autobus fino a questo posto. Con la macchina in riparazione ho avuto più tempo per pensare, prima di giungere qui.
Dal soffitto ospitante il lucernario, la luce filtra proprio come ricordavo, anche se stavolta ha un fascino più tetro, scolorito dalle nubi grigie che minacciano temporali. Un lampo dona qualche secondo di ulteriore visione dello spazio, nonostante le lampade elettriche accese a rischiarare ogni anfratto. Le figure in gesso incombono su piedistalli che bloccano i loro piedi dal compiere movimenti scattanti, e prendere vita, e tutto è esattamente come ricordavo nonostante siano passati anni dalla mia ultima visita.
Persino lei, nei suoi abiti austeri e nei suoi movimenti lenti, che evidenziano il raziocinio con il quale compie ogni più piccola impresa. Persino lei, non è cambiata per niente. Stessi capelli corti, stesso portamento, stesse spalle ampie ed anche gli stessi occhi con cui si volta nell'udire il rumore prodotto dalle mie suole, in un'espressione tanto fredda che si mostra naturale, unicamente in nostra presenza.
«Che sei venuto a fare?» Sibila in maniera lenta, tornando a lavorare a qualsiasi creazione stia prendendo vita su quel suo tavolo.
«Parlare.»
«Katrina ti ha già riferito quello che ci siamo dette?»
La domanda, per un attimo, mi disorienta. Faccio finta, però, che non sia così.
«Non sono qui per questo.»
«Onorata di averti qui, allora.»
Ormai ho imparato a fare i conti con il suo disaccordo.
Mentre il temporale infuria, recupero una delle sedie e, con lentezza, la trascino fino al tavolo dietro il quale sta in piedi lei, con le mani sporche d'argilla.
Gli occhi si soffermano su quell'azione il tempo che serve a ricordare Caitlin compierla, sul pavimento della nostra casa e sopra in telo che ha visto più di un'impresa pittorica e qualche altro tipo di ulteriore creazione. Una specie di reduce, per così dire. Ed è proprio per consentirgli di continuare a macchiarsi di idee che sono giunto fin qui.
Sorrido, per poter ammorbidire l'umore cupo che, come una maschera, deve essermi scivolato dalla fronte al mento, in poco meno di un attimo. Marina non ricambia, e mi fissa con il suo solito sospetto.
«Volevo ringraziarti, Marina, per tutto ciò che hai fatto.» Credevo che simili parole fossero difficili da pronunciare, e invece mi sorprende la naturalezza con le quali le esterno. Devo essere davvero uscito fuori di senno. «Hai protetto Katrina per molto tempo.»
«Finalmente sei venuto a saperlo?»
Tento di arginare la visione della mia soddisfazione, ma è impossibile da contenere. «Lo so da due anni, ormai. Dal ritorno del nostro viaggio.»
«Sorprendente. Devi averla raggirata per bene per farti dire, con notevole anticipo, della sua malattia.»
Nemmeno aspetta di vedere il possibile risultato di una mia reazione. Afferra con entrambe le mani il vaso che stava creando e lo sposta in uno dei forni, in modo che possa procedere alla cottura. Forse è cosciente di quanto stia provando a trattenermi e mi sorprendere l'essere così strettamente legati da una correlazione di intenti, che non credevo potesse affatto assomigliare alla complicità.
«Sai, io e te siamo molto simili» le faccio presente, e con sorpresa non colgo il ritorno di alcuna ironia.
«Non credo proprio.»
«Ragioniamo allo stesso modo. Parliamo nello stesso modo. Siamo testardi.»
Tornatami di fronte, le sue mani si appoggiano entrambe al tavolo, così da permetterle di chinarsi in avanti quanto basta per fissarmi negli occhi.
Non ho mai visto un'espressione simile e quasi potrebbe divertirmi, se non stesse per mettermi in trappola.
«Tu non mi conosci e nemmeno sai della vita che ho vissuto. Sono stata costretta a ragionare con uomini come voi, che credono di avere potere e controllo su tutto e tutti. Dei narcisisti, e dei superbi.»
«Mi hai interpretato bene, ma anche Katrina lo ha fatto, e nonostante quello che sono mi apprezza, e mi ama.»
Sorride tristemente, lasciandosi andare a un piccolo sbuffo. «Sì. Sì, questo ormai l'ho capito, e non lo metto in dubbio. Ha sempre avuto la propensione di innamorarsi della gente sbagliata, deve essere nel suo dna.»
«Quello che hai detto di me non mi rende un problema.»
«Uomini come te sono pericolosi. E, in certi casi, non possono nemmeno essere considerati uomini.»
«Che intendi?»
«Ancora non ti sei reso conto di quello che covi nell'animo? Eppure, alle volte traspare.»
«Hai un problema con gli uomini, Marina?»
La sua lingua schiocca contro il palato e le sue mani si sollevano dal tavolo, permettendole di sollevarsi di nuovo eretta.
«Anche questo è un pensiero comune delle persone come te. Credete che una femminista, una donna che si fa valere, detesti l'intero genere maschile, perché pone su una bilancia, con diversi pesi e misure, quelli che hanno un cazzo e quelle che non ce l'hanno. Non è vero?»
Resto disorientato, per alcuni secondi, dal modo afflitto con cui mi guarda. L'ho sempre ritenuta una guerriera combattiva, sempre pronta alla lotta, e adesso, invece, si manifesta ai miei occhi come un' avvelenata da un rancore che non so spiegarmi, e detentrice di un desiderio che non so comprendere.
Marina... che cosa vuole una donna come Marina? Che me ne vada via e sparisca dalla sua vita? Che smetta di amare Caitlin, perché potrei essere d'ostacolo alla sua felicità? Vuole semplicemente scacciarmi oppure... oppure ormai mi ha accettato, e vuole provare a dirmi qualcosa?
Ma cosa?
Quale è il mostro che covo dentro?
«Peccato che io non sia così. Che non abbia la stessa testardaggine di un uomo e che i nostri sessi non possano venire eguagliati. Non c'è mai alcun tipo di confronto tra noi, perché viene abolito da chi è troppo cieco per vedere e chi adora farsi sottomettere, per perversione o necessità.»
«Stai parlando di niente» le faccio notare, confuso dal suo attacco ingiustificato, anche se non lo è molto.
Per tanto tempo abbiamo dovuto fingere, di fronte a Caitlin, che tra di noi andasse tutto bene. Inevitabilmente, siamo stati costretti a parlarci, e adesso ci conosciamo più di un tempo. Sappiamo quello che l'altro potrebbe dire e non ci limitiamo affatto nell'emettere parole che, in passato, ci furono vietate.
«Sto parlando di te. Ma è ancora troppo presto perché tu comprenda.»
«Sono venuto qui per un'altra ragione.»
«E quale? Il tuo discorso era iniziato con dei ringraziamenti. Ho chiarito che non ne voglio.»
«Sono qui per Katrina. Per darle ciò che le spetta.»
«La felicità di un amore eterno?» Mi beffeggia, con una mezza risata, ma io nego, scuotendo il capo.
«Un lavoro.»
Il laboratorio precipita in un silenzio che ha rispetto unicamente del mondo esterno, e dei rumori che possono nascere al di fuori.
Non sembra esserci altro, per dei lunghi istanti.
«Che cosa vuoi dire?»
«Quanto rispetti la sua arte, Marina? Quanto credi che possa essere brava... a confronto tuo?»
La strategia che sto adottando assomiglia a quella che mi è stata rivolta da Pip, all'interno del nostro teatro. Spero che possa avere un migliore effetto. In quel caso sarebbe ancora più evidente la differenza tra me e Marina.
L'attesa della sua risposta ospita in sé una serie di emozioni che, finalmente, riesco a leggere anche nel suo sguardo.
Che cosa prova Marina? Confusione, questo è certo. Dell'egoismo innato. Affetto. Del rancore per la mia domanda. Resa, per ciò che è certo per entrambi.
«Katrina è molto brava. È la più brava del nostro intero corso, ed è più brava di me.»
«Allora perché hai ricevuto tu il posto? Non le spettava?»
«Il colloquio deve esserle andato male.»
«E un'artista, specie se pieno di tante barriere, può essere valutato da un semplice scambio di opinioni?»
La sua mente rielabora la mia domanda e i pensieri corrono in direzione di luoghi che mi sono estranei, e che non gradisco conoscere.
«So anche che hai ricevuto altre offerte di lavoro. Me lo ha detto Oscar. Ti ha sentito parlare al telefono con il tuo manager.»
«Che cosa vuoi, Michael?»
«Che tu te ne vada e lasci quel lavoro a Katrina, perché se lo merita.»
«Me lo stai chiedendo sul serio?»
«Non credi anche tu che possa essere ingiusto?»
I suoi pensieri fluttuano nell'aria, seguendo una fila di eventi che forse hanno visto le due amiche vicine, pronte ad offrirsi reciproco conforto, ma fino a dove arriva il più alto grado di amicizia? Quanto, una giovane ragazza, può realmente sacrificare per la sua amica migliore? Qualche pomeriggio, qualche giorno, o la prospettiva di un'intera vita?
La risposta può anche essere niente, se non fosse che quel riscatto, che spero avvenga per Caitilin, non sono il solo ad attenderlo.
«Ti lascio il tempo per pensare. Se vorrai di nuovo parlarmi sappi che io e Katrina abbiamo iniziato a vivere insieme. Mi trovi da lei, quindi.»
Abbandono il laboratorio lasciando Marina sola, nel suo silenzio fatto di scelte, e in compagnia di tuoni e lampi che illuminano le bianche statue.
Le chiavi all'interno della toppa compiono solo un
lento giro, prima che la porta si spalanchi lasciandomi entrare.
L'intera casa è al buio e forse è stato il temporale a costringere quel salto di corrente. Lo verifico premendo uno degli interruttori inseriti nella parete, con conseguente effetto nullo.
Avanzo in questa semioscurità, rischiarata solo dallo spicchio lunare posto in cielo, che si mostra come un quadro nella cornice data dall'infisso dell'enorme finestra in soggiorno, accorgendomi della porta dello studio di Cat rimasta aperta.
Vado incontro a una simile novità e, giunto di fronte al suo ingresso, rimango stupito nel trovare Cat seduta a terra, con le braccia a stringere le gambe piegate ed il viso rivolto verso l'enorme quadro rosso a tutta parete. Lo stesso che ci ha fatto conoscere.
Percependo un nodo stringersi attorno al mio cuore, prendo posto al suo fianco e fisso quella tela, con gli occhi di chi si appresta a vedere una cosa per la prima volta.
L'umore al di fuori, nel mondo, non poteva essere più perfetto. Rispecchia ciò che proviamo dentro e forse, in qualche modo, ciò che pensiamo. Non sono mai riuscito a interpretare il suo segreto artistico, anche se al momento sembra incredibilmente a portata di mano.
«Non ti ho mai raccontato della filastrocca che era celata all'interno del quadro.»
La sua voce rotta è un sussulto che smuove la mia anima. Nonostante sia più vicina che mai, fragile, contratta al mio fianco, tento di non renderla partecipe delle mie emozioni, pronto a sentire l'interpretazione delle sue.
«La reciterai per me?»
«In inglese non suona altrettanto bene come nel dialetto dell'Irlanda. Proverò a tradurtela, o meglio a raccontartela.»
Taccio ancora, pronto a sentirle raccontare uno dei misteri che non sono stati ancora spiegati.
«"In uno stagno, non molto profondo, viveva una rana, che passava i suoi pomeriggi a saltare da una foglia di loto all'altra. Il suo mondo era subacqueo e non vi era deformazione di corallo che non conoscesse, o colore di pesce che non seguisse con lo sguardo. Un giorno, dopo un salto particolarmente lungo, e tanto alto da poter toccare il confine del cielo, la rana atterrò al centro di un fiore di loto e si accorse di non essere sola.
Un cervo aveva il volto chino verso lo stagno, e beveva da quella limpida sorgente con una fierezza che riuscì a incantarla. Questa, non aveva mai visto essere più bello di lui, con il suo manto lucente del colore della cima delle montagne e le sue corna geometricamente perfette, in grado di proteggerlo come di dargli un aspetto austero, sicuro di sé. Da lui voleva trarre il suo coraggio, imparare a perdere il divertimento del gioco per tramutarsi in una seria eleganza di maturità. Per questo motivo, i due fecero presto amicizia, e passarono pomeriggi interi a discutere. Divenne un appuntamento fisso lo scambiarsi consigli e impressioni sul mondo marino e quello terreno, in modo da scoprire le diversità che li distinguevano, anche se non erano molte. Esisteva il concetto di preda e di cacciatore, sulla terra così come nello stagno, e anche se la rana era sempre riuscita a mettersi in salvo ogni giorno correva il rischio di essere attaccata da esseri più grandi di lei. Il cervo non parlava mai del suo aguzzino, rimanendo in un silenzio costretto.»
La figura del cervo, con le sue corna, in alto a destra nel quadro, si staglia sopra la mescolanza degli altri segni, dipinti con le dita, in un rosso rubino che ricorda il sangue. La rana, invece, nell'angolo opposto del quadro, è sintetizzata con pochi tratti che nemmeno ne permettono la distinzione, eppure riesco a immaginarmi chiaramente i suoi occhi, rivolti verso la fierezza dell'altra creatura.
«"Venne una notte, illuminata di molte luci in cui la rana, stesa sul suo fiore di loto, fissava le stelle, persa nei propri pensieri, con il cervo addormentato al suo fianco. Non si accorse di una luce più grande delle altre, proveniente da una lampada ad olio. Un uomo incappucciato, assieme al suo cane, setacciava la zona alla ricerca di un qualcosa che la rana non capì. Quando il proiettile fuoriuscì dalla canna del fucile, uccidendo il cervo, fu un attimo, uno solo, e poi l'acqua si bagnò di un rosso purpureo.
Allo stesso modo, nella vita, la follia della giovinezza, un giorno, incontrò il fascino della maturità e si lasciò soggiogare da essa, dalla bellezza che comportava, ma l'arrivo dei problemi distrusse presto l'idillio di quel sogno, illustrando la crudezza della vita".»
L'uomo incappucciato, il cane, quella scia di rosso sangue che unisce le quattro figure che sono macchiate di piccole gocce differenti, rappresentative dei sentimenti che portano.
Ho timore di legare questo quadro alla vita di lei, di comprendere, adesso, chi possa essere realmente quell'uomo incappucciato. Cat ormai, priva degli scudi che indossava, non mi mostra clemenza, e racconta fino in fondo la sua verità.
«Il mio piccolo stagno, quel minuscolo paese. La rana, quei miei pomeriggi di spensierata felicità. Il cervo, la magica mutazione data dall'adolescenza e dai misteri che portava. Il cane, la fedeltà di un affetto che non ti abbandona. L'uomo incappucciato... il dolore che ho vissuto, la violenza che mi è stata donata da altri.»
Ogni nostra memoria, ogni ricordo è inciso nella mia mente fin dal primo giorno.
La nostra posa di fronte a questa tela, l'interpretazione che avevo dato al mistero che sembra essere la chiave della sua stessa vita.
Mi aveva offerto le risposte fin dal primo momento, ma io non possedevo la chiave di lettura per interpretare.
«E che cos'è il ragno, Cat?»
«Il ragno...», commenta in un sorriso, fissando quella tela e il colore usato, a ricordo delle vene che contengono la sua malattia.
«Il ragno è colui che non si è assunto la colpa. La persona che non coglie la gravità degli errori commessi. Il vero assassino di tutta la storia.»
Ed io, quel ragno, non sono stato in grado di vederlo.
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