P.O.V.
Caitlin
Il sole di questo pallido mattino irrompe dalla finestra come una sveglia silenziosa, e nella sua alba illumina l'intera stanza, noi, ancora stretti in un ferreo abbraccio, come in particolar modo il suo viso. I miei occhi si perdono lungo il confine del suo volto e non vorrei mai privarmi di una smile visione. Della tranquillità che sembra regnare nella sua incoscienza, quando la sua guardia si abbassa ed i suoi occhi non seguono più, come segugi attenti, tutto ciò che capita loro attorno.
È quasi un gesto involontario il sollevare la mano per poter avere un contatto con la sua pelle. Una specie di bisogno primitivo di ottenere quel qualcosa che il suo abbraccio non colma o soddisfa, perché ho bisogno della sua presenza come l'aria ed è per questo motivo... che ho rinunciato all'incontro con Richard sabato sera, su due piedi.
Quasi fossero diapositive della pellicola di un nuovo film, le scene del nostro ravvicinato futuro mi erano corse davanti agli occhi e in quella vasca, stretta a lui, ho avuto paura che si realizzassero.
Sono la sua ragazza, lo conosco meglio di chiunque altro e non vorrei mai farlo soffrire, ne morirei.
Chiamerò nuovamente Richard e mi farò fissare un altro appuntamento, in un orario ben più consono. Non mi importa quello che può accadere. Spero solo di non sbagliare, perché dalla mia parte ho sì il timore di innescare una situazione che Michael non potrebbe condividere ma anche quasi l'assoluta certezza di starle andando incontro, come la peggiore delle stupide.
Non vorrei davvero commettere errori in questa mia prima storia realmente importante. Sembra quasi essere un dono del cielo la sua presenza al termine di giornate improponibili, e particolarmente pesanti. Un dono, fornito da questa città degli angeli.
Sorrido, sfiorandogli il volto, e mi lascio cullare dalla pienezza fornita dall'attimo che stiamo vivendo. Noi due in un letto, in una mattina di pieno inverno. La sua mente ancora immersa nei sogni e la mia che lo spia, come una gazzella può fissare, dietro un masso, la ferocia di un leone, con gambe tremanti e certa di non essere notata. O almeno così credeva. Mi accorgo solo avvicinandomi quanto basta a lasciargli un bacio sulle labbra che è sveglio, e cosciente da un pezzo. Aspetta la mia prossima mossa e io non gliene privo. Ostentando il mio sorriso, così che possa essere la prima cosa sulla quale potrà posare gli occhi una volta aperti, mi rendo ancora più vicina e poso le labbra sulle sue, in un timido quanto intenso stampo.
Sembra gradire il mio approccio, perché poco dopo esordisce con:
«Buongiorno, amore mio.»
Nel sentire quel soprannome il mio cuore fa una capriola, e mi riconosco come la stupida ragazzina che sono, vittima delle proprie reazioni involontarie.
«Buongiorno...»
Un nuovo bacio, e le sue braccia che mi si serrano con più forza intorno, impedendomi di muovermi. Strofino il mio corpo nudo contro il suo, solo per godere di un'ulteriore carezza e poi chiudo gli occhi, abbandonando la testa tra il suo collo e la spalla.
«Che cosa hai in programma, per oggi?» La mia voce risente del gentile mondo pieno di calore che la ospita, sfuggendomi dalle labbra con un mugolio.
«Domani è la vigilia di Natale...»
«Mh-mh.»
«Vorrei andare a comprare un abete.»
Sollevo la testa di scatto per fissarlo negli occhi. «Sul serio? E anche gli addobbi?»
«Se vorrai», commenta con un risolino, per poi osservarmi con serietà, in attesa.
«Mi piacerebbe molto, è una festa che amo.»
«Sì, lo ricordo...»
«Dici che potremmo prendere anche delle candele per la tavola? E anche una tovaglia rossa, così da abbinarci il servito?»
«Abbiamo inviato la Regina Elisabetta, per caso?»
Storco la bocca. «La Regina no, ma Jeremy e Seima sì. Proprio il giorno dopo Natale.»
«Mh... hai ragione, non vorremo certo fare brutta figura con i nostri ospiti. E tovaglia rossa sia, ma mi meriterò un premio se riuscirò a trovare tutto prima di rientrare a teatro.»
«In quel caso vedremo cosa pattuire», commento sulla sua bocca, ripristinando il suo sorriso. «Passi a teatro anche se domani è Vigilia?»
«Specie per un evento come questo. Non lo sai? Visto che è festa sono tutti a casa, e il teatro è completamente vuoto, a mia disposizione.»
«D'accordo, uomo dai mille silenzi, passa pure da teatro. Vorrà dire che io farò un salto in laboratorio per verificare come sta procedendo. Manca pure da mangiare, dovrò fare la spesa.»
«Un giorno pieno di impegni.»
«Al rientro, però, ti troverò a casa», faccio presente, mettendo in chiaro che cosa potrà realmente risollevarmi una volta di ritorno, ed ecco qui, proprio lui. Trafitto da molti silenzi, però, che lo esortano a nascondersi. «Di che cosa si tratta, Michael?»
«Come?»
«Sei preoccupato per qualcosa. Dimmi di cosa si tratta.»
«L'incontro di gruppo, stasera, con Padre Carl.»
«Stai mentendo.»
«Lo dici tu.»
«Michael...»
«Il nuovo copione. Il critico teatrale. Il pensiero che forse... il teatro non fa più per me.»
«Eri convinto di riuscirci, che cosa succede?»
«Vado ad alti e bassi», commenta, sorridendo in modo triste, quasi non potessi accorgermi del suo stato. «O meglio, la parte scoraggiata di quello che sto vivendo la conosci solo tu.»
«Fai bene a mostrarmela, sono qui apposta, per risollevarti l'umore e per aiutarti. Dimmi, che cosa posso fare?»
«Io e il personaggio siamo due mondi troppo distanti. Pip mi ha suggerito di riportare solo le sue battute ma non è quello che voglio fare.»
«Tu vuoi portarlo in vita.»
«Sì.»
Sorrido. «Forse so come aiutarti. Ma dovrai aspettare il mio ritorno e occorrerà del tempo, quindi facciamo prima della cena con Padre Carl, che ne pensi?»
«Mi stai prendendo in giro?»
«No, io ho la soluzione a tutto. Fidati di me, risolveremo l'enigma del tuo strano personaggio.»
«Ma davvero...»
«Proprio così. Ma anche io dovrò ricevere il mio guadagno, proprio come tu con l'abete.»
«Magari riusciamo a fare conto unico.»
«Magari.»
Finalmente è tornato il suo buon umore, e il principio di una danza a festa dentro le sue iridi. Ho ottenuto il mio piccolo primo premio, e non vedo l'ora di ricevere dell'altro guadagno.
«Forza, adesso. Dobbiamo andare», faccio presente, scivolando via dal suo abbraccio e sedendomi su una sponda del letto. Recuperando, con velocità, il maglione verde di fine lana, la maglia al di sotto, un paio di jeans e le scarpe, trascino tutto con me in bagno, pronta ad affrontare questa nuova giornata mentre sento, alle mie spalle, i borbottii soffocati del mio ragazzo.
Tento di arginare quel moto di felicità che inizia a salirmi nel petto, concentrandomi unicamente sul buon umore che sono capaci di trasmettermi le feste.
Esiste un posto al mondo che è solo nostro, dentro il quale ci sentiamo soli, e in qualche modo completi. Per Michael è il teatro, specie quando non vi sono spettatori. Mi ha rivelato che questo dipende dal potenziale, offerto in simili momenti, in grado di far tornare alla mente un ricordo di infanzia, e forse lo stesso vale per me, anche se il mio piccolo spazio privato non è né piccolo né tantomeno privato, vista la scelta nella quale, tutt'oggi, mi trovo.
Sono al mercato coperto della città, persa tra file e file di bancarelle ricche di frutti e di colori. Deve essere questa l'attrattiva che mi suscita un simile luogo, l'accozzaglia di colori puri o misti, accostati gli uni agli altri, come su di una tavolozza.
Spezie, profumi orientali e regionali, odori, risa e passi, un insieme di mani che indicano, cercano un qualcosa, occhi attenti, promozioni accalappianti scritte in rosso su cartoni spezzati.
Mi sento complice di un contesto e al tempo stesso isolata in un mondo privato, che non disturba.
Ricerco, incuriosita, le espressioni della gente e mi soffermo sul viso stanco di un commerciante seduto su di uno sgabello, al fianco della sua bancarella, ad occhi chiusi e testa appoggiata a un palo in legno, mentre quello che credo essere suo figlio dirige l'attività.
Dalla borsa estraggo la polaroid e scatto la foto, intrappolando l'istantanea e rendendola parte di una collezione di visi e scene, ricordi che tengo segretamente custoditi dentro un album.
Ci sono un sacco di foto, in quel mio vecchio e nero raccoglitore. Alcune persino degli anni dell'Irlanda ma sono altri volti a prevalere, specie di sconosciuti anche se Michael sta occupando diverse pagine, a sua insaputa. Molte volte sono riuscita a non farmi notare mentre scattavo. Altre, invece, mi aveva pienamente scoperta, ma non rimproverata. Non adora essere l'unico protagonista di quei ritagli bianchi, tanto che molte volte aveva tentato di coinvolgermi, riuscendo a unirsi a me in alcune di esse.
Amo tutto ciò che ha una storia. I paragrafi di giornali che riportano una notizia strana e sensazionale, spingendomi a ritagliarli. Le musiche struggenti di un'opera, quelle della radio dalla quale proviene la voce di un nuovo e affascinante cantautore. Le fotografie, le poesie, i libri, i ricordi, le rughe, i dialetti, tutto... tutto quello che mi fa sentire umana, e per questo esposta alla furia di iracondi venti emozionali. Non riesco a resistere, e ne riemergo sempre come una vittima affascinata e sconvolta dal vissuto affrontato, senza dubbio più felice, sempre pronta ad averne un bis. Anche se non è per queste ragioni che oggi mi trovo qui. Il frigo è vuoto, sì, ma la mia missione è a favore dell'uomo con cui divido metà del mio cuore, e che voglio aiutare con tutta me stessa.
Sarò in grado di riuscirci? Reggerò il confronto con il potente e insuperabile Isaac guru?
Nel caso non dovessi uscirne vincente, spero quantomeno di non apparire scontata, perché mi farebbe sentire una sciocca ragazza al confronto di un ragazzo in grado di conoscere tutto, me compresa.
Porgo i soldi al commerciante che mi è di fronte, afferrando la busta di ciò che ho ordinato così da tornare al mondo dell'arte, che al momento mi odia tanto quanto mi reclama, e fare finalmente quella chiamata a Richard, così da sistemare la questione.
Con questa busta in mano, e la mente piena di pensieri e propositi, sento quasi di aver recuperato la fiducia in me stessa e in ciò che posso fare. E non potevo desiderare niente di meglio.
P.O.V.
Michael
Nella semi illuminazione di questo teatro, lascio cadere lungo il fianco la mano che ospita il copione che, a suoni alterni, la mia voce ha tentato di recitare con trasporto. Tutto inutile, però, perché il risultato appare ancora artefatto, e migliaia di miglia lontano dalla vera recitazione che richiede questo palco.
Sospiro, e mi lascio cadere a terra, sollevando una gamba solo per poter appoggiare al ginocchio un mio gomito, così da far oscillare la mano con le pagine.
La recita è dannatamente vicina ma ormai ho promesso che l'avrei affrontata. Non cederò il mio posto a nessun altro, per quanto la Principessa Arte continui a nascondersi nella sua torre, protetta dai rovi, e al momento non mi tenda più nemmeno la mano, o la chioma, invitandomi a salire. Segregata nella sua prigionia, vive quasi con macabro amore il suo esilio nel punto più sperduto del mondo, lasciandomi solo a terra a combattere per una causa persa, facendo desistere la mia spada lessicale dal continuare a combattere.
Se solo non mi animasse alcun tipo di desiderio, e il mio orgoglio potesse essere messo da parte, allora starei già cedendo il compito a un altro, forse a Jeremy, che in fondo della compagnia è il meno incapace, o a Ben, nonostante la sua poca memoria.
Che cosa mi spinge ancora a combattere?, mi domando, sdraiandomi di schiena sul palco per tornare a fissare il caleidoscopio di luci appese. Se non sono più così bravo, se ho perso lo smalto di cui tanto mi vantavo, che cosa ci faccio ancora qui?
È vero... che Cat mi ha cambiato? Reso un uomo diverso, meno incline al dolore richiesto da una recita, meno... me stesso? Sono irrimediabilmente mutato?
Uno strano sentimento, colorato di preoccupanti tinte scure, sale nel mio animo per poter raggiungere il mio collo e soffocarmi, come un demone che per tutto il tempo è stato ospitato e non si dimostra più saziato. Le sue mani nere corrono tra le mie membra interiori e scivolano lungo i miei organi, provocandomi degli eccepibili brividi di freddo. I miei occhi si spalancano, non potendo dare ragioni valide alla natura di questo silenzioso mostro che sta prendendo sempre più il controllo.
È proprio a un passo dalla mia gola quando un suono, proveniente dall'entrata della sala, attira le mie orecchie e la mente, spingendo il corpo a rialzarsi in piedi. Ciò che vedono i miei occhi, però, è solo immenso buio.
Le file rosse che queste luci del palco illuminano, mostrano la tessitura delle loro sedute in una definizione molto alta, che si disgrega all'aumentare del buio. Dalla seconda fila in poi le poltrone sono avvolte dalla più completa notte, ed i miei occhi non riescono ad attraversarla, rimanendo come scie luminose di un faro in una sera di nebbia e tempesta, giù al porto.
«Mi spiace ma il teatro non è aperto oggi, devo chiederle di andarsene» pronuncio, in direzione del nulla più assoluto e non ottengo alcuna risposta.
Tento di affinare lo sguardo ma il risultato è il medesimo, e solo il leggero eco della mia voce mi ritorna contro.
Compio qualche passo, giungendo fino alla fine del palco per poter sfuggire alla distrazione fornita dalle luci a terra, con la speranza che questo possa servire. Adesso, metà della sala è visibile ma ancora non colgo la presenza di quest'ospite estraneo.
Mi volto, tentando di ritornare al mio lavoro quando il rumore alle mie spalle viene replicato, costringendomi nuovamente a girarmi.
Stavolta è diverso, sembrano una fila di passi.
Con la coda dell'occhio, retrocedendo, vedo l'ascia per rompere il vetro della pompa antincendio venire illuminata dalla luce verde, e a terra, delle quinte. Mi occorrerebbero pochi passi per raggiungerla e intimorire qualsiasi estraneo sia sopraggiunto senza invito e senza, per giunta, attirare l'attenzione dell'uomo al gabbiotto della hall.
Posso cavarmela, ho solo bisogno di nervi saldi. Sono giovane, allenato, ma soprattutto sono veloce, quindi qualsiasi persona mi troverò davanti riuscirò a batterla, anche solo con prontezza e ingegno.
Devo giusto capire di chi si tratta e dove sia, al momento. Se accovacciato dietro qualche seduta, in attesa di cogliermi alla sprovvista, o forse se, con astuzia, ha percorso i corridoi laterali alla platea e nascosti, così da raggiungermi, di spalle, dalle quinte. La seconda prospettiva sarebbe senza dubbio la peggiore, per cui mi preparo a tutto. La mente fornisce scenari e volti ma resta completamente spiazzata quando nota l'oggetto del suo interesse venire illuminato, solo in parte, dalle luci del palcoscenico.
I pensieri si attorcigliano e la gola, secca dall'adrenalina, non mi permette facilmente di deglutire, lasciando la mia bocca immobile e leggermente aperta a far scivolare un freddo ansito di ossigeno, così da garantire il respiro.
Perché tutto mi sarei aspettato tranne che una donna, dai capelli mediamente lunghi e biondi, vestita in un abito bianco che passeggia tra le sedute.
I miei occhi seguono i suoi movimenti mentre la mente è a malapena cosciente della nudità dei suoi piedi, dal momento che l'assenza di suono garantisce la privazione di tacchi e di qualsiasi altro tipo di suola.
La figura è avvolta da un alone di mistero e magia mentre continua a incedere, imperterrita, lungo il suo percorso trasversale.
Consapevole di non correre più alcun pericolo riesco a tornare a uno stato di lucidità, ma quando lo sguardo di lei si alza da terra, e si solleva verso il mio, quel mostro invisibile che poco prima mi aveva attaccato da seduto corre nuovamente come una serpe, ad avvilupparsi attorno al mio corpo. Prigioniero di quella stretta, vittima dell'immobilità, non posso che rimanere agganciato agli occhi di lei che sono del colore più oscuro del nero stesso, più cupi di una notte senza luna, in un tetro contrasto con il fulgido splendore della chioma, color del sole.
Quando la fila delle sedute termina, arrivata sul percorso laterale a essa, la femminile figura si mostra nella sua interezza con i suoi piedi scalzi, l'abito lungo fino ai polpacci bianco e immacolato, i capelli sciolti in delle onde, le mani sottili, la vita stretta, il seno quasi assente e uno sguardo fisso nel mio.
Vorrei chiederle chi è. Da dove viene. Se si è persa. Forse vive per strada e ha cercato rifugio in questo posto, credendolo vuoto.
Una senzatetto, anche se il suo portamento e la purezza delle vesti paiono evidenziare una provenienza del tutto diversa. Aristocratica, elegante, perché l'animo che la trascina è leggero e proviene dal regno delle fate.
I suoi occhi neri, dopo avermi percorso con interezza il corpo, tornano a trafiggersi nei miei e mi rendo conto che nemmeno la cattiveria li ospita quanto una vacua nullità che ha le sembianze di un vuoto cosmico, quel qualcosa che non posso raggiungere perché è l'assenza di pensiero, di emozione e di realtà.
Il mio demone, con le sue nere unghie, trascina i suoi artigli lungo il mio petto, setacciando alla ricerca di uno strato di carne viva che lo può soddisfare... ma nella sua fame riemerge a mani vuote, e la tortura di un simile tormento continua, permettendogli ancora di scavare ed ottenere qualcosa che non conosco.
Mi manca il fiato. Le gambe tremano leggermente nello sforzo di sorreggere una creatura simile e il copione continua a essere incollato alla mia mano, scalfito solo dalla rigidezza con cui torturo le sue pagine nella mia stretta, rovinandole.
La donna continua a osservarmi ma non pronuncia una sola parola, finendo per sedersi ad una poltrona a fianco del corridoio centrale, mostrandosi in piena vista, con una gamba posata sull'altra. La mano destra che arpiona il suo labbro inferiore mentre mi analizza, e il piede sinistro che dondola, nel vuoto fornito dal passaggio, immacolato e pallido come la sua pelle e l'abito.
Non vuole parlare ma continua a fissarmi con quell'espressione concentrata e assorta che mi dà i brividi. Vorrei emettere una frase eppure, quando apro appena le labbra per pronunciarla, ho come l'impressione che possa già conoscerla, e di conseguenza sia inutile.
Chi è, e perché si trova qua dentro? Una parte di me è infastidita dal suo modo di osservarmi, dalla rottura della magica solitudine che mi ero creato, mentre l'altra le vorrebbe chiedere di non allontanarsi. La contrapposizione vive dentro di me una guerra che non offre soluzioni e si conclude al suono dello scatto di una serratura, con conseguente vista del raggio di luce, proveniente dalla porta aperta sul corridoio.
In piedi, sulla soglia, l'uomo della reception, il caro e vecchio Tom, è solo una sagoma scura nella contrapposizione delle varie luci.
«Va tutto bene, Michael? Non ti ho sentito recitare per un po' e alla fine mi sei parso preoccupato. Ci sono problemi?»
Intimorito dall'estraneo, il demone scivola via dal mio corpo, scappando in direzione delle quinte, e finalmente riesco a tornare a parlare.
«Io...», allontano gli occhi da Tom per potermi concentrare sulla postazione della ragazza bionda, accomodatasi un attimo fa, ma la trovo vuota, privata della sua presenza.
Lo sconcerto si manifesta come una nube di polvere nella mia mente, all'interno della quale fanno a cazzotti molti pensieri, ma fortunatamente riesco a ricordarmi della presenza del giovane uomo, e continuare così ad argomentare la mia risposta.
«No. No, va tutto bene, Tom, grazie.»
Con un saluto coordinale, l'ultimo visitatore della sala se ne va via, lasciandomi nuovamente solo dentro la stanza.
Gli occhi tornano alla seduta ma la ragazza non vi ha fatto ritorno, eclissandosi momentaneamente dai miei pensieri.
L'avviso di un nuovo messaggio mi distrae da questi inspiegabili misteri, e una volta letto il nome di Oscar ritorno concentrato.
Ho una brutta novità da darti, scrive.
Mi prendo alcuni istanti prima di proseguire nel leggere.
Mi hai chiesto di tenerti informato per quanto riguarda Katrina e le notizie del suo lavoro. È rientrata in laboratorio da poco, ho cercato di non farle sapere la notizia.
Oscar è un giovane artista che la mia Cat ha preso sotto la sua ala, in modo da consentirgli gli anni di tirocinio necessari a completare i suoi studi. Vista la loro vicinanza, ho presto compreso che potesse essermi utile per le informazioni che Cat non ci tiene a fornirmi, e quelle che da sola non arriva a scoprire, come in questo caso.
Il lavoro per il quale ha fatto l'ultimo colloquio, quello per la Land Art Society, è stato affidato a Marina. Dovrebbe iniziare a lavorarci tra due mesi.
Una simile scoperta porta il sangue a ribollirmi nelle vene, e in un gesto inconscio butto giù questo ennesimo boccone amaro, come una medicina sgradita.
Grazie, Oscar, per avermene parlato.
Non c'è di che.
Ciò vuol dire che spetta a me, adesso, chiedere udienza per nuovo e sgradevole colloquio.
P.O.V.
Caitlin
L'impazienza mi fa tremare le mani e controllare un'infinità di volte che sia tutto pronto.
Quando il portone di casa si apre, poi, la mia bocca fa uscire un piccolo sussulto di sorpresa dalle labbra che si affianca ad un'espressione caratterizzata da occhi sgranati.
«Bentornato a casa» pronuncio a voce bassa, e le paranoie corrono a rifugiarsi in tutti gli angoli, scacciate via dalla luce che trasmette il suo ingresso.
Sorpreso di questo saluto, e di trovarmi in piedi a pochi passi, solleva la testa di scatto e mi sorride, nel suo solito fascino austero.
«Bentrovata», sussurra, e una parte di me si scioglie al suo tono di voce, le guance mi si arrossano. Finiranno mai queste reazioni? Divertito, se la ride, chiudendo il laccio attorno all'ombrello che ancora ospita alcune gocce della pioggia caduta. Seguo le sue mosse, di nuovo impaziente del momento in cui cesserà ogni sua azione.
«Scusa il ritardo, ero immerso nelle prove.»
Inclino la testa, divertita dal suo malcontento. «Il tuo personaggio ancora fugge via?»
«Non si lascia vincere.»
«Per questo, ti ho detto, che ti sarei stata utile io», gli ricordo, tendendo la mano affinché la afferri. Non esita a farlo, sollevando anche le sopracciglia, nel frattempo.
«Adesso? E Padre Carl?»
«Faremo in tempo.»
«D'accordo...»
Lo esorto a sedersi e poi, vedendogli acconsentire alla mossa per la quale intercedo, riesco ad oscurargli gli occhi con l'intreccio di una nera benda, conclusasi all'altezza della nuca.
Dopodiché mi siedo dinanzi a lui, per poter dare inizio a questa sfida.
«Come già sai ho avuto un periodo particolarmente difficile nella mia vita, dopo quello che è successo con Daigher...»
Occorrerà solo che percepisca il tono della mia voce, in questa prima fase, in modo da consentirgli di fidarsi.
La mia sfida personale, invece, sta nel prendere coraggio in profondi respiri che mi possano consentire di procedere per un discorso capace di proseguire, se libero a se stesso, a sbalzi, come su di un terreno mal livellato.
«La malattia che ho... non intacca solo il corpo ma anche la mente. Mi è occorso molto tempo per tornare a fidarmi e per piacermi, una volta per tutte. Questo sfogo che porto alla gamba, lo sai anche tu, lo considero un errore, una piaga particolarmente brutta, che arrosa la pelle e mi ricorda dei miei sbagli. È stato difficile accettarmi nuovamente dopo quelle settimane di febbre intensa, sudore e brividi, escoriazioni, dai quali sono uscita più distrutta di prima. La sessualità non era più un argomento facile a cui tornare, e un'artista con dei limiti non è affatto una buona artista. Sono serviti dei paletti, dei cardini ai quali aggrapparmi con forza per potermi tirare su e sono partita dalle basi.»
Quasi mi viene da sorridere, adesso, nel ricordarlo, eppure è incredibile come in quel tempo il mio mondo stesse lottando per risorgere e si sia lasciato ricostruire, riportandomi, con un approdo, verso una vita sicura, non autodistruttiva, per quanto tutti quei partner avuti fossero, già di per sé, peccati all'anima che macchiavo di colpa.
«Il sesso è un insieme di sensazioni, piaceri, odori.» L'origano passa al di sotto delle sue narici in modo che possa carpirne l'odore, solo per un'istante. Lo stesso accade per il rafano e il pepe di Cayenna.
«Volevo tornare a scoprire cosa fosse la complicità, e l'ho riscoperta tramite gli afrodisiaci.»
Passo sulle sue labbra una bacca di Goij, nella sua colorazione rossa scura, e Michael, inizialmente esitante, finisce ad assaporarla, passando dall'odore al gusto.
«Dopo la sessualità volevo riscoprire la gioia. Riscoprirmi bambina.»
Sorrido, vedendo il suo corpo rilassarsi e le braccia stendersi all'indietro per poter trovare sostegno dal pavimento.
«Ricordi? Quando ci siamo conosciuti ti ho chiesto quali fossero i tuoi suoni preferiti. C'è un motivo per il quale lo feci. Nella riscoperta dei sensi ho ritrovato me stessa, non appena sono potuta uscire nuovamente di casa. Il mondo si era mostrato ai miei occhi come la luce che colpisce Lazzaro, sollevatosi dal suo calvario. Ricordo il frastuono del mare, il verso dei gabbiani vicino alle scogliere e quello delle macine degli agricoltori vicini, mentre essiccavano e sbramavano il riso.»
Dalla mia mano destra, i cicchi di riso scivolano come una cascata, come sabbia all'interno di una clessidra, venendo raccolti dall'altra mano più in basso. Riemergono storie, momenti vissuti e qualche frammento di dialogo avvenuto con uno dei coltivatori.
Michael ascolta questi suoni e poi si lascia guidare quando la mia mano, afferrata la sua, esorta al tatto con le spezie allo stesso modo con cui, un tempo, il mio palmo si era scontrato con fili di erba alta e spighe di grano, in un senso di libertà che mi avevano riportata alla vita. Permettendomi di dipingere ancora, di respirare. Di riscoprirmi donna, perché è quello che sono. E sento, mi emoziono, provo piacere e dolore, provo rabbia, amore, in un estremismo che è fornito dagli anni e dal cuore che ospito al centro del petto.
«Per conoscere bisogna vivere. Per vivere bisogna provare, e quindi sperimentare. Scoprire cosa c'è al di sotto delle cose e arrivare a uno stadio ineccepibile ad altri. Non importa lo sforzo impiegato, ogni dolore non è niente per tornare a risentirsi umani. Di nuovo liberi.»
La mia mano lascia la sua, permettendole di continuare, se desidera, a sentire la conseguenziale escalation di sensazioni fornite dai chicchi sottili e da quelli più solidi, maturi. Morbidi o rigidi, lisci o ruvidi.
Michael si perde in questo mondo di sensazioni, e le mie ultime parole lo costringono a capire ciò che gli volevo dire. Lo stadio al quale deve arrivare se vuole veramente portare in vita il suo personaggio di scena. Niente di più e niente di meno, perché siamo meccanismi complessi e niente deve sfuggire del nostro animo.
Tolgo la fascia dalla sua testa ma, anche se scoperti, i suoi occhi continuano a rimanere chiusi e la sua bocca mantiene un piacevole sorriso che non ha niente di provocatorio o arrogante, quanto piuttosto di timido, sfuggente.
«Wow... non sono certo di voler lasciare questo mondo, adesso.»
Inclino lo sguardo per poterlo studiare come stamattina, mentre è perso in un luogo a me accessibile solo in parte.
Le chiavi me le forniscono i suoi occhi, non appena tornano su di me.
«Grazie.»
«Figurati.»
«Mi è piaciuta molto la tua lezione. Ha avuto un fascino orientale.»
«Hai gradito?»
«Non so se riuscirò a portare in scena tutto questo.»
«Tu provaci, e se lo farai non fallirai.»
I suoi denti afferrano il carnoso labbro inferiore, che tanto mi piace torturare, e le iridi continuano a fissarmi.
La mano è lesta nell'afferrare uno dei frutti che sono tra noi, sollevandolo.
«Gli afrodisiaci, eh?»
Tra le dita stringe la porzione di un fico che mostra il suo cuore rosso, e il centro giallastro. Arrossisco appena nel ricordo di quanto, in passato e persino per i greci, un simile frutto sia stato paragonato ai genitali femminili, e di conseguenza fosse stato consumato più dagli uomini, in una forma di peccato.
Le sue labbra vi si posano e una simile visione produce una palla di fuoco caldo nel mio bassoventre.
A quanto pare anche lui sa giocare a questo gioco, e ne conosce molto bene le leggi e i trucchi.
Sa dove mirare perché non passa in secondo piano, nel mio immaginario, il pensiero delle sue labbra tra le mie gambe, ma non possiamo. L'hiv vieta rapporti simili e questa provocazione è una masturbazione che non può avere il fine in uno sfogo. Rimarrà sempre questo desiderio insoddisfatto perché sono una donna, sì, ma non una donna come le altre. Sono difettosa e senza dubbio incompleta, in termini mentali quanto fisici.
«Smettila...», sussurro, anche se noto quanta poca voglia abbia, realmente, di concludere questo gioco al massacro. Non mi dona pietà, concludendo con un morso ed io sono costretta ad allontanare gli occhi da lui, in uno stato di dolore quanto di eccitazione.
«Come pensi che dovrei presentarmi, adesso, di fronte agli occhi di un prete? Hai idea dei pensieri che mi frullano in mente ora?»
Ne ho una visione ben chiara ma dovremmo farci i conti, perché quello che abbiamo potuto avere lo abbiamo avuto, in tutte le sue forme e ambiti.
«Dovremo prepararci.»
Provo ad alzarmi, dopo questa esortazione, ma la sua mano mi arresta e mi obbliga a rimanergli di fronte come una statua di pezza.
«Cat... guardami.»
Tremo nel tentare di farlo, mentre dal mio viso la sua mano scende lungo la mia gola, trasmettendomi brividi caldi, e questa eccitazione di dosso non se ne va, aumentando di testarda prepotenza dal momento che è lui a provocarla.
Ora le sue dita sono intorno al mio collo, in una presa che ricorda alcuni nostri momenti di passione, avvolti dalle rabbiose unghie delle lenzuola, ed io mi perdo dentro gli occhi marrone scuro più belli che abbia mai visto.
Quanto si può amare un uomo e fino a che punto si può spingere se stesse, per il suo bene? Dove conduce un amore simile e perché sembra ospitare la tachicardia di una paranoia? Non basta quello che abbiamo? Temo che finisca, che si spenga, perché non può durare per sempre, non è possibile.
Non è credibile il continuare a desiderare tanto un uomo fino alla fine dei propri anni. Chi vive un'emozione del genere? Mi sento persa, sono un chicco di riso che caduto dalla mano si è smarrito tra le assi del parquet e nel suo buio inospitale non è più stato ritrovato. Forse, con una lacrima, può nascere su lui una pianta, se la sua natura non lo rende tanto malato da condurre uno stelo all'infezione.
«Cat... io ti amo, così tanto. Farei qualunque cosa per renderti felice. Qualunque, lo sai?»
«Dovrà aspettare», commento, con un mezzo sorriso alquanto triste. «Padre Carl ci aspetta.»
«Dimmi che mi ami. Ripetimelo una sola volta e andremo dove vorrai.»
«Ti amo» e la verità dietro questa frase mi fa tremare, fino alle fondamenta, per la sua sincera portata.
«Quanto?»
Fino al punto di perdermi, dentro la cavità di questi infiniti assi. Passare la vita dimenticata in un limbo, per poter vivere nel suo solo ricordo.
«Fino a morire.»
«Ma io non voglio che tu muoia. Amami, amami tanto da vivere.»
La mia fronte si posa sulla sua e i miei occhi si chiudono, mentre stavolta è dalle sue mani che passano le spezie, fino a raggiungere le mie, arrese e ignare di un simile dono.
È così difficile aprirsi. Riuscire a non piangere in un momento simile. Esortata da lui però riesco a farlo e prometto, occhi negli occhi, che continuerò ad amarlo, tanto da vivere.
P.O.V.
Michael
Poche cose uniscono un gruppo di sostegno a una riunione di condominio, e quest'ultima a una fiera. Riassumerò le somiglianze in tre punti: gli appalusi di giubilo di fronte a una scontata realtà, la comunione di un tema comune che unisce e separa allo stesso tempo e il borbottio, confusionario, di voci che si sovrappongono alla voce guida primaria.
Vorrei fuggire via. Sollevarmi da questa mal assortita sedia in legno, afferrare la mano di Cat e uscire dalla stanza. I miei sospiri di protesta non muovono a pietà la mia accompagnatrice, però, che continua ad osservare il tutto come se fosse piacevolmente stupita di questa pagliacciata. Non so bene cosa dire, per cui anche Padre Carl dovrebbe imitare il mio silenzio, in modo da evitare l'enunciazione di un biblico elenco di frasi fatte, se si trova alla mia stessa deriva. Sul serio, appare tutto inutile. Un enorme perdita di tempo che mi è costata particolarmente cara, vista la piacevole situazione che si era creata in casa di lei, tra spezie e odori.
L'intransigenza è compagna di questa seduta, e nessuno si alza dalla riunione se il prete non esordisce con l'addio di una benedizione, che si augura ci porti pace.
Non dovrei veramente ostentare in questo modo l'intolleranza al cattolicesimo, così da avere garantito il battesimo della piccola e anche la possibilità di conquistare il cuore della mia Cat, eppure Padre Carl fa di tutto per suscitare il mio fastidio. Sul serio, non lo avrei mai detto. Sembrava di ascoltare qualche discorso di mio padre o un pomeriggio di vaneggi da parte di mia madre, e non è certo piacevole come ritorno al passato.
Desidererei essere su un'isola deserta, proprio così, a godermi il sole, la spiaggia e il mare, fissando il confine dell'oceano per stabilire il mio viaggio di ritorno.
Sarebbe veramente meraviglioso, peccato che si mostri irrealizzabile. Abbiamo una vita da dover tirare avanti e tanti sorrisi finti ancora da ostentare. Che gli anni ci diano la grazia di poter migliorare nello sfoggiarli, così da apparire forse, un giorno, convincenti.
Alcuni padrini e madrine sembrano essere stati conquistati dal nostro modo di fare, e sono felice di averli dalla nostra, ma sul serio, non mi riesce di concentrarmi, quindi pregherei persino perché un soffio di vento facesse cadere uno dei lumini all'interno dello spazio consacrato così da mostrarmi dal vivo l'anteprima del fuoco dell'inferno. Ho sempre amato vivere nei posti caldi, e se continuo in questo modo è probabile che possa finirci. Non sopporto più la lettura di tutte queste parole di fede, e mi contorco sulla sedia come un'anguilla.
«Amen», esordisce a un tratto il parrocchiano, portandoci a rispondere in coro al suo ultimo padre nostro.
Miranda ci aveva preso, con la sua pena dantesca.
«Amen.»
«Sono molto fiero di avervi nella nostra comunità. Benvenuti», ci dice Padre Carl con un sorriso gentile, nonostante la freddezza con cui poco prima enunciava la fede come un politico la legge.
«Vuoi dirmi che questa agonia è finita?» Sussurro all'orecchio di Cat mentre applaude, al pari delle persone riunite intorno al cerchio, con garbo e una conseguenziale fila di sorrisi che sembrano volermi provocare, nella loro falsità.
«Che ne dici di finirla? Se Padre Carl si accorge di quanto poco hai gradito tutto questo puoi scordartelo il battesimo della piccola.»
«D'accordo, allora, starò in silenzio. Non gli dirò nemmeno in un confessionale che mi hai spinto in tentazione, nel laboratorio della tua casa.»
«Vuoi piantarla?» Chiede, divertita, volgendo la testa verso di me mentre l'applauso si affievolisce. Dio... è possibile che possa essere ogni giorno più bella?
«Sono incontri veramente formativi, questi, non è vero?» A domandarcelo è una delle altre madrine, al fianco del padrino designato, stretto come è nel suo abito gessato.
«Certamente, molto» risponde gradevole Cat, suscitando un sorriso alla donna che potrebbe essere benissimo uscita da una rivista degli anni 50, rappresentativa della sottomissione femminile ai lavori domestici, e della facile credulità garantita dall'ignoranza obbligata.
«Che ne dici di andare a casa?»
«Dobbiamo ancora sentire della data per il battesimo, poi potremmo tornare.»
«D'accordo, allora.»
Lascio che Cat se ne occupi da sola, perché in fondo è la più brava tra noi due a mostrarsi cordiale e amichevole. Persino con le persone che non le piacciono, quali ad esempio Padre Carl, che per tutto il tempo della sua lettura non ha che cercato gli occhi degli altri per un consenso.
Li studio in lontananza quando, d'un tratto, la voce della donna anni 50 torna a me, come la più fastidiosa delle vespe, nei suoi ronzii di discorsi.
«Una canonica così bella e una struttura così ben tenuta. Si può dire che i soldi di quella ricca famiglia sono stati spesi bene, non è vero? Forse finiranno a incidere anche il loro nome in qualche targa sulle panche prossime all'altare, altro che qualche messa commemorativa.»
Aggrotto la fronte senza poter replicare alla complicità con cui questa donna sembra parlarmi. Quale messa e quale famiglia?
«Mi spiace, ma non sono a conoscenza di molti gossip di questa città. Per la verità, io e la mia ragazza non conosciamo molte persone.»
«Non saranno certo una delle famiglie più illustri, ma i Lance non passano certo in secondo piano per ciò che hanno fatto in favore di questa comunità!»
La mia mente si sofferma, unicamente, su quel cognome. «I Lance?»
«Certo, i Lance! Oh, cosa non ha passato quel pover uomo. Il rapporto con la moglie non è stato di certo dei più facili ma lui ha continuato a sostenere ogni sua causa a distanza, anche se una volta separati lei veniva in questa chiesa con il suo nuovo fidanzato.»
«Stiamo parlando di Dominic Lance? Il critico teatrale?»
«Allora lo conosce! Che vita travagliata che ha vissuto!» Non voglio credere alla causalità di ciò che sto per sentire. «Il matrimonio, il nipote, i mesi trascorsi dietro il teatro. Fortunatamente, il signor Lance non ha mai oscillato ed è riuscito a rimanere saldo! Un uomo davvero tutto d'un pezzo, come pochi.»
«Sì dice che non sia particolarmente clemente, con gli attori.»
«Oh, ma è vero! Quello che ha vissuto gli ha permesso di vivere la vita appieno, completamente, e di indagare tanto le emozioni umane e l'arte al tempo stesso, da disdegnare qualsiasi tipo di finzione. Non sia tanto preoccupato, non ne ha motivo. Quasi mi dimenticavo di chiederle... lei che lavoro fa?»
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