15- Fuggiamo lontano
Di solito ci si aspetta che la famiglia sia presente ad ogni evento importante della tua vita, ma quando ormai sei divenuto adulto e sei stato costretto a compierli da solo i tuoi doveri, e gli eventi ti hanno sottratto la compagnia dei tuoi affetti, la loro partecipazione non è tanto scontata. Motivo per il quale sono solo, adesso, in una giornata come questa.
L'esposizione della tesi con una commissione davanti che, attenta ad ogni mia parola, segue il filo dei miei pensieri e analizza il mio percorso universitario, al solo fine di prestarmi un voto sul quale il lavoro sputerà una salivazione amara di disgusto, e menefreghismo. Ad ogni modo, considero la mia uscita di scena gradevolmente alta, sufficiente a sfamare l'ego che per anni si era prostrato dinanzi a vecchi libri.
Concludo la mia presentazione con questa consapevolezza, quindi, spegnendo con il telecomando il proiettore e mi rivolgo a loro, vedendoli di colpo confabulare. Non mi fanno uscire, non si prendono una pausa. Sembra già tutto stabilito.
Il mio professore, ovvero il relatore, mi osserva con il dito indice premuto contro le labbra, senza rendersi partecipe del fervore del gruppo.
Non apre nemmeno una sorta di tacito dialogo con me. Il suo pensiero è silenzioso e distante come sempre. In qualche modo credo di averlo stimato, fin da subito, per questo dato effettivo, e in affettivo, oltre che per la lodevole intelligenza.
Alcuni istanti dopo, ecco però che l'uomo in giacca e cravatta, a capo della commissione, si alza in piedi per comunicare il mio voto... ed è a tre cifre, con tanto di bacio della commissione.
Avanzo in un attimo, stringendo a tutti loro la mano per poi ringraziare, come ultimo, il mio professore con una rispettosa stretta più lunga delle altre. Poi sono libero di lasciare il plesso, tenendo tra le mani la tesina con la copertina rigida, rossa, e le incisioni in oro.
Nessuno mi attende, fuori, nel cortile, ma io so bene verso dove andare, passando sotto una continua cascata di coriandoli e grida di festa.
Corro verso il mio scopo con le scarpe lucide e un sorriso dipinto in viso. Arrivo fino al suo laboratorio, apro la porta e, trovandola sola, corro verso di lei.
Il suo viso viene stretto dalle mie mani in un attimo, e le nostre bocche collimano, lasciandomi un calore insostituibile dentro il cuore.
Rido, divertito, una volta separato dal suo respiro e poi vi ritorno, stuzzicandola con baci dal contenuto altamente erotico, destabilizzante, fatto anche di morsi... eppure è tutto così leggero e brioso, perché è solo nostro.
«Sei molto elegante», commenta osservandomi per una frazione di secondo, prima che la conduca ancora una volta contro le mie labbra, senza dire una parola. Poi la stringo a me, obbligandola a intrecciarmi le gambe intorno e lei scoppia a ridere, mentre avanzo per appoggiarla sul tavolo. Resto stregato dalla sua risata, dalla luminosità dei suoi occhi, dalla poesia di questa scena.
Ha una macchia di colore su una guancia, e i polpastrelli sporchi di nera resina, tanto che li tiene sollevati per non macchiarmi, facendomi rendere conto solo ora che l'unico appiglio rimasto sono le sue gambe intorno.
In questa posizione, in questo attimo al seguito della sua deposizione sopra il rigido supporto, sto da Dio. Non smetterei di baciarla, ma mi chino per morderle la guancia priva di pittura, troppo rossa per non essere assaporata.
Tenta di allontanarmi in una risata, premendomi i suoi polsi addosso mentre le mani sono ancora piegate all'indietro, provando a schivare la mia camicia, ma è tutto vano. Abbandono da solo l'impresa, unicamente dopo aver udito la sua voce.
«Vuoi dirmi che succede?»
Avendola lasciata all'oscuro della vicenda, la sua confusione mi fa sorridere e rimanere in silenzio. Potrei risponderle, ma è così brava, da sola, a cercare indizi. Scorrere con gli occhi, soffermandosi in punti non necessariamente richiesti, incendiarmi come un ceppo di legno in un camino... fino al suo scorgere la rilegatura scarlatta della tesi, ancora in una mia mano, la sinistra.
«Ti sei laureato? Senza dirmi niente?»
Mi stringo nelle spalle, come a chiederle perdono. «Avevi la lezione...»
«Sarei venuta via.»
Sì, ne sono cosciente, l'avrebbe fatto. Ma questo era il mio percorso, il traguardo di un qualcosa che avevo realizzato da solo. Dovevo affrontarlo di conseguenza, e non sono affatto pentito.
Solo che quegli occhi arrabbiati, che ho di fronte, non riescono a non trasmettermi che dolcezza, e a lei arrivo a cedere, irrimediabilmente stregato dal suo candore.
«Mi farò perdonare, promesso.»
«Non vedo in che modo...»
«Ma io ho già un'idea» affermo, rendendola partecipe di un'intuizione nata nel pieno della scorsa notte, passata insonne. «Si avvicinano le pause universitarie e il giorno del Memorial Day, no? Tu hai la sospensione, ed io sono libero da qualsiasi obbligo facendo eccezione del teatro, quindi... che ne dici di trascorrere questo tempo insieme?»
«D'accordo, ma dovrai iniziare da adesso, con un pranzo. Che ne dici della tavola calda qui vicino?»
Mi mordo un labbro, tentando di intrappolare anche il divertimento. «Pensavo a un posto un po' più lontano.»
«D'accordo, allora c'è un ristorante fantastico che...»
«Cat?» La interrompo, vedendo le sue mani abbassarsi, lentamente.
«Che cosa c'è?»
«Che ne diresti di fare un viaggio insieme?»
La vedo spalancare gli occhi, assolutamente presa in contropiede.
Troppo presto? Troppo veloce? E per quale motivo? Voglio passare del tempo con lei, tanto vale farlo con i fiocchi.
«Non dici sul serio...»
«Mi sono appena laureato, Cat. Ovvio che dico sul serio. Quello che mi aspetta è lo svago ora, no?»
Apre appena a bocca, ma la richiude subito dopo, senza dire una sola parola. Nascondo il viso contro il suo collo, respirando il suo profumo, senza mostrarle così il buon umore che regna gioioso al fine di essere preso seriamente. Perché lo desidero davvero, voglio che faccia la valigia, che si fidi, e che venga via con me.
«E dove pensavi di andare?»
«Che ne dici dell'Italia?»
«Cosa?!»
La voce le si spezza e a quel punto sono proprio costretto a ridere. Fuggo via dal mio rifugio, tornando al suo viso e accarezzandolo con il palmo di una mano per poterle infondere il giusto coraggio, che spero possa detenere.
«Staremo via il tempo che ci serve per conoscerci. Che cosa ne pensi? Questa è la mia proposta: due settimane.»
«Non scherzi, fai sul serio.» E ne è quasi sorpresa, come se potesse non accettare un gesto simile.
«Sì, Cat, te l'ho detto. Non c'è niente di cui preoccuparsi, nemmeno i soldi saranno un problema. Vivremo all'avventura, sostenendoci reciprocamente nel viaggio, scoprendoci fino a cancellare tutti i segreti, inevitabilmente.»
«Sembra allettante...»
«Lo è. Te lo posso dimostrare. Fai la valigia oggi stesso e parti con me.»
«Torneremo diversi, rispetto a come siamo partiti» pronuncia a bassa voce, nell'istante in cui mi sono piegato verso il suo collo per lasciare una fila di baci.
«Servono a questo le vacanze, no? In qualche modo a cambiare, quindi perché non farlo insieme?»
Scosta il viso, allontanandosi dai miei baci per potermi fissare dentro l'iride e varcare la risposta a questa nuova sfida, stavolta proposta dalla vita.
Verrai Cat? Ti fiderai... di me?
Gongolo della mia riuscita, passata con un piede la soglia del suo appartamento a mani intrecciate e poste dietro la schiena, mentre continuo a far saettare gli occhi su ogni parte dell'arredo, che inevitabilmente la rappresenta.
Cat si mostra reticente solo per un attimo, agitandosi in movimenti scattanti che sembrano manifestare la sua crisi, vista l'informazione improvvisa.
Se solo sapesse che ho già prenotato l'aereo per noi due credo che mi urlerebbe addosso. Sono certo che non le debba piacere l'esercizio del controllo imposto alla sua vita, ma io ero certo che avesse detto di sì, così ho racimolato i miei risparmi, intrappolati in una scheda magnetica, alle due e mezza di notte, e ho cliccato su quel piccolo tasto blu in grado di accogliere la mia certezza.
Ed ecco che le poltrone del prossimo volo, quello delle sette e mezza, hanno riportato sopra il mio nome. Mancano quattro ore, e nel bagagliaio della macchina la mia valigia è già pronta, quindi spetta solo a lei velocizzare le tempistiche di questa follia.
«Non so nemmeno perché ti abbia detto di sì, non ho idea di dove stiamo andando! Insomma che tempo farà? Freddo, caldo? Che razza di clima c'è in Italia?»
Sarebbe davvero un peccato se sbagliasse tipo di vestiario, e fosse costretta a scoprire le gambe, o sciogliersi i capelli.
Sì, mi dico mentalmente, sarebbe un peccato, perché non proverrebbe da lei, quindi tanto vale che le dica la verità.
«Staremo in collina, non farà troppo freddo, credo che bastino delle maniche lunghe ma niente cappotti. Dà sempre sole nel corso delle settimane ma forse uno, per evenienza.»
«Facciamo che ne metto due perché di te non mi fido.»
Mi risponde, correndo dall'altro lato dell'appartamento, forse verso la sua stanza, e facendomi sorridere.
Perché so che non é la verità, solo semplice ripicca.
«Mi avevi detto di farlo» commento, allontanandomi dall'ingresso per dirigermi verso il luogo che avevo immaginato, dove infatti la trovo. Alle spalle, sul letto, una valigia aperta, e davanti le ante spalancate dell'armadio.
Tra le mani un reggiseno rosso, particolarmente ricamato.
«Mettilo pure in valigia, per me ti sta di incanto.»
Alle mie parole volta di scatto gli occhi, e chiude tra le mani le coppe del reggiseno, tentando di nascondermelo. Ma io l'ho visto e adesso non faccio altro che immaginarmela.
«Puoi scordartelo. Hai parlato in merito al conoscerci. Credevo fosse più dell'aspetto fisico.»
Sollevo l'angolo delle labbra, rimanendo con una spalla contro lo stipite della porta, a braccia intrecciate.
«Puoi giurarci... ma garantire che non accada altro è un'ulteriore storia.»
Le parlo senza scrupoli, per tutti i baci che mi ha dato, per la sua mente che non riesco a capire, per quel qualcosa che ancora mi nasconde.
So per certo che non è timida. Non sotto quell'aspetto, me lo ha fatto intendere, eppure in un qualche modo si ritrae e mi viene da pensare, con soddisfazione e sofferenza, che possa accadere solo con me.
A passi felpati si avvicina a mani vuote, ma con una seduzione che mi destabilizza il cuore, sfregandomi nel suo magnetico, e visivo, contatto.
«Vuoi me come regalo di laurea?»
La richiesta viene emessa a un centimetro dal mio viso, e la vicinanza mi permette di scorgere la separazione di quelle due labbra tanto deliziose e piene. Succose come frutti maturi, mie.
«Potrebbe non piacerti quello che scoprirai. Magari perderai interesse. Mi hai detto di non essere una persona incline al perdono. Mi domando se potrai essere comprensivo. Se proverai ancora attrazione, per una come me...»
«Non dovrei farlo?»
«A nessuno piacciono i giocattoli già scalfiti, e usati da altri.»
Aggrotto la fronte, avvertendo ad un tratto la debolezza tramite la quale ha pronunciato queste parole.
«Ti voglio, Cat. In qualsiasi modo. Testa, cuore... corpo. Può bastarti?»
«È anche troppo, ma per te...»
«Shh...» sussurro verso il suo collo, prima di sollevarmi quanto basta per riprendere a baciarla.
Una mano su un suo fianco, l'altra contro la sua guancia, la bocca pronta a intrappolare il suo fremito.
Se solo fosse così facile amarla, in un momento simile l'avrei già fatta sdraiare su questo letto con le testate in ferro e, nuda, l'avrei venerata togliendole ogni dubbio. Ma non è questa la vita. È solo la strada perpendicolarmente più breve, che potrebbe non farmi ottenere nemmeno metà dello scopo idealizzato.
Siamo bravi a parlare tra di noi, almeno quanto ci riesce bene baciarci, constato in questo attimo di estrema dolcezza.
I miei denti si chiudono sul suo labbro inferiore e lei geme, stringendomi più forte e artigliandomi la schiena.
Dio... quanto la voglio.
«Non vado da nessuna parte, Cat. Non senza di te» emetto, con la bocca ancora umida dal suo passionale passaggio e un cuore inferocito che vorrebbe ospitarla in sé, nella migliore delle accoglienze.
«Avanti, prepara la borsa. Tra poco dobbiamo andare.»
Pronuncio la frase allontanandomi quanto basta da lei, con il respiro appena interrotto e la confusione in testa. Poi mi volto, lasciandola sola a prepararsi e pregando che quel reggiseno rosso di pizzo possa finire tra i suoi indumenti necessari.
Non ha affatto preso bene la visione della mia valigia già presente nel bagagliaio e posta per fare spazio alla sua, stazionando su un lato, ma ad ogni modo non le ho offerto tempo per protestare.
Con una mano ho afferrato il manico della mia, dopo averla depositata sul pavimento in asfalto di questo parcheggio d'aeroporto, e l'ho incentivata a seguirmi, fino al gate d'ingresso.
Qualche frase di circostanza con l'hostess addetta ai biglietti di volo ed eccoci già seduti alla nostra postazione.
Le lascio il posto vicino al finestrino, ringraziando la fortuna di poter aver prenotato per tempo semplici sedute a due, che ci limitano al rapporto con gli altri.
«Sei davvero prepotente, lo sai? Avevi già organizzato tutto!»
Sapevo che l'avrei infastidita, ma non mi riesce che sorridere del suo broncio. In qualche modo è posto a significare che sto iniziando ad anticiparla, suo malgrado.
«Avresti potuto dire di no.»
«Infatti è stata una follia. Ci siamo preparati in quanto? Poco più di cinque ore?»
Mi sporgo verso di lei, accarezzandole il viso mentre lotta con la sicura della cintura, posta all'altezza dei fianchi.
«Cat... vuoi tranquillizzarti adesso? Siamo insieme, stiamo per partire per due settimane e sarà bellissimo. Non lo credi anche tu?»
Come un'animale mansueto, al mio tocco, sembra essersi calmata e addolcita, persino, mettendo chiarezza ad ogni tipo di dubbio.
Poi, lentamente, si allontana e bofonchia qualcosa che mi fa sorridere. Una specie di frase involontaria, mentre fissa fuori dal vetro la città al buio, e che sembra tanto essere tanto simile a "maledizione a quegli occhi così belli".
Non posso non sentirmi onorato, e fortunato nell'
averla qui con me.
Nella mia vita ho volato poche altre volte. Forse, verso una sola meta per la verità, ed ero affiancato dalla compagnia teatrale. Dovevamo mettere in scena uno spettacolo a undicimila chilometri di distanza, una passeggiata rispetto a quelli che ci attendono.
«Quanto tempo dobbiamo passare qua dentro?» Chiede, continuando a trafficare con la borsa che l'agente le aveva messo a soqquadro, perché non la smetteva di suonare all'imbarco.
«Dodici ore e quaranta minuti, circa. Arriveremo a Roma come prima meta.»
A queste parole spalanca gli occhi, per poi mascherare il suo concerto dietro un sorriso finto, tanto artificiale da essermi rivolto in una sfumatura di odio. Ma io lo ricambio, abbastanza divertito da quella specie di smorfia, e sto bene a sentire quella che è pronta a dirmi.
«Michael?»
«Dimmi, tesoro.»
Il nomignolo suscita ancora la sua sorpresa, solo per un attimo, ma fa finta di non darci peso, continuando imperterrita il suo sproloquio.
«Ti stai per caso vendicando della nostra uscita al cinema?»
«Non ti piace volare? Dal Donegal sei venuta a nuoto fino a me?»
Annuisce lentamente, piena di una costruita ironia.
«Ho preso una nave, la Cunard, e poi il resto me lo sono fatto in autostop o in treno.»
Stavolta è il mio compito essere sorpreso, lasciando alla mia espressione, a sua differenza, il naturale compito di modifica.
«Questa si che è una sorpresa. Un viaggio senza dubbio alternativo ma che cosa potevo aspettarmi? E quanto ci hai messo ad arrivare? Dieci giorni?»
«Quindici. Sette in nave e il resto in autostop.»
«Beh, se volevi potevamo prenderci anche mezzo mese per raggiungere Roma e poi passare due settimane in alto Italia, ma sinceramente mi scoccia trascorrere anche solo dodici ore su questa seduta senza vedere o fare niente.»
«Lo credo bene, tesoro, siamo in una scatola di latta a chissà quanti metri da terra.»
«La maggior parte è mare, amore, non ti preoccupare. Se precipitiamo ti offro gratuitamente lezioni di nuoto.»
Borbotta altre parole, distanziandosi da me ma stavolta non mi è dato di capirle.
Il viaggio non è iniziato nel migliore degli scenari anche se questa provocazione a tema fobie mi ha divertito parecchio.
Quando le ruote dell'areo si staccano da terra la mano di lei corre a intrecciarsi in una mia, in una presa che blocca la circolazione e mi fa sorridere.
Il tempo che serve all'aereo per prendere il volo, e poi ecco che Cat di nuovo si stacca, voltandosi stizzita verso il mondo esterno.
La osservo mentre guarda fuori, e mi chiedo se sia realmente concentrata sulle luci della città o sul nostro riflesso, chiaramente ritratto dal vetro grazie a queste lucide pallide interne.
Il modo con cui la guardo, con cui la ringrazio di aver accettato di essere qui, con me.
Passano le ore e nel silenzio di una stanchezza, cullata dal buio esterno della notte in alta quota, noto che la mia piccola gatta si è addormentata. Probabilmente in una posizione scomoda, vista l'apparenza, e lotto con me stesso per decidere cosa fare.
Sistemarle la testa, permettendole di raddrizzarsi e magari svegliarla, tornando a sentire i suoi lamenti di protesta, o lasciarla così per un po', magari regalandole un meritato torcicollo.
Mi piacerebbe continuare a litigare.
Con lei mi piace fare di tutto, anche protestare.
«È molto bella, sua moglie.»
La voce dell'uomo al mio fianco attira la mia attenzione, per quanto non capisca, all'immediato, che è a me che è rivolta.
I suoi capelli sono bianchi, ed il viso è spiegazzato da delle rughe, ma ha un'espressione buona, assurdamente cordiale.
«È vero, ma non è mia moglie» gli rispondo in un mezzo sorriso, a voce bassa per non svegliarla.
«Beh, dovrebbe diventarlo. Credo che proprio sia quella giusta. Anche io e la mia Polly litigavamo così, ma ci amavamo anche così tanto che, in fondo, mi stava bene tutto.»
«È qui con lei?» Domando, notando un uomo e una donna, più o meno della stessa età, seduti alle postazioni a fianco.
«No, sfortunatamente è morta. Sai, l'età.»
«Mi spiace molto.»
«E perché dovresti essere triste? Hai ancora tutta la tua vita davanti! Affiancato forse da una donna bella quanto buona.»
A quelle parole mi volto verso Caitlin, sorridendo del profilo dolce del suo viso.
«Pensa che sia quella giusta?»
«Io dico solo quello che vedo.»
La spiovenza delle sue labbra e la dolce curva del naso, disegnati in un unico tratto da un'artista assolutamente capace, arricchiscono di tenerezza l'abbandono della sua coscienza, portandomi a vederla sotto una luce totalmente nuova ma che, nonostante discorsi spinti, particolari in ogni loro sfumata caratteristica, si riesce comunque a vedere.
La sua innocenza, pur sempre macchiata di seduzione, ed è così particolare il connubio da renderla intangibile, perfetta.
Non aggiungo altro, perché non ce ne è assolutamente bisogno. Gli occhi del nostro spettatore si sono allontanati, mentre i miei sono rimasti sul suo viso, ed ecco che le mie mani si decidono verso la loro prossima mossa.
Con un sorriso le sollevo in direzione del suo viso, esercitando una piccola pressione al fianco del collo per poterle permettere di voltarsi, quanto basta. Un piccolo cambiamento che modifica la comodità della sua posa, adesso più stabile.
Sfioro anche uno dei suoi riccioli, scioltosi come sempre dall'acconciatura, e rimango appena qualche minuto a fissarla, prima di chiudere gli occhi anche io. Il braccio a sfiorare il suo, il profumo di gelsomino che non si esaurisce come un'illusione avuta, in una richiesta di aiuto.
Riapro appena le palpebre, per constatare la sua effettiva presenza, ed è solo la stanchezza ad allontanarmi da lei, senza però riuscire a portarmi via del tutto.
Il nostro infinito viaggio in aereo sta per concludersi nel modo più strano in cui avrei potuto immaginarlo: con la sua rabbia, fin troppo palese.
Un broncio è dipinto come smorfia sul suo visto mentre gli occhi rimangono catturati all'attenzione dell'hostess che, a suo avviso, nel corso di queste dodici ore mi ha fissato e chiesto informazioni perfino troppe volte, ma che al momento ci sta solo rendendo partecipi della termine del nostro viaggio, mentre il sole rischiara il nostro nuovo e piccolo spazio.
Il fuso orario di nove ore ci procurerà un bel jet lag, in grado di alterare ulteriormente l'umore.
Tento di non farci caso e quando l'aereo atterra mi procuro di afferrare il piccolo bagaglio a mano di lei dalla cappelliera ma prima di compiere quella mossa, però, vedo l'uomo della scorsa notte rivolgerci un sorriso cordiale, che ricambio senza alcuno scrupolo.
«Lo conosci?» Mi chiede Cat, rivolta verso di me e con il busto e la schiena verso il vetro del finestrino.
«Credeva che fossimo marito e moglie» le confesso, quindi, prestandole l'attenzione che questa rossa non richiede ma che ottiene, senza alcuno scrupolo.
La trovo che sbuffa spazientita, tornando a trafficare con la cintura proprio come all'andata.
«Che qualcuno mi abbia in gloria se divento tua moglie. Come potrei sopportare una persona tanto autoritaria e testarda?»
Non so bene se la domanda richieda una dovuta risposta, ma ad ogni modo taccio, perché l'ironia non mi cede che a un sorriso divertito, mentre mi chino in direzione delle sue mani che, agitate, lottano contro la presa del ferro, bloccato dallo scatto di un bottone.
Le sostituisco alle mie, obbligandola a un'improvvisa immobilità, ed ecco che finalmente è libera di alzarsi in piedi, o andare a tirare i capelli alla hostess, per quello che mi interessa.
Resto immobile qualche secondo, rendendomi conto quanto poco sia servito per calmarla, e vorrei tanto lasciarle un piccolo bacio, almeno quanto vorrei che se lo guadagnasse.
Non cedo a niente se non a una piccola carezza con lo sguardo prima di afferrare il bagaglio a mano.
Con questa mossa ho permesso la risalita della maglia, del tutto in volontaria, e la mostra degli addominali senza premura. Sento almeno due paia di occhi addosso ma mi concentro su quelli meno importanti ovvero quelli della hostess, rimasta in piedi ancora in attesa dello scendere di tutti i passeggeri, così da fare una ripicca a Cat.
Non è molto bella, ma la divisa la slancia, e anche se il viso non è particolarmente attraente passa in secondo piano nel confronto con il corpo, che sotto le vesti sono certo essere a scolpito da sport e dieta proteica.
Mi prolungo più del necessario nell'afferrare il bagaglio. Lo faccio di proposito per far arrabbiare Cat, ma non mi sarei aspettato la mossa successiva.
La bocca della mia accompagnatrice si posa sulla pelle lasciata scoperta dalla maglietta, in un erotismo che mi spingerebbe a chiudere gli occhi e invece, alla mia altezza, sorrido divertito, e costretto a mettere fine a questa indecenza fin troppo allettate.
Le porgo la borsa, tornando verso di lei che mi osserva con uno sguardo acceso, terribilmente attraente e cosciente dell'effetto che può procurare.
«Siamo pronti per scendere, maliziosa. Prego, dopo di te.»
No, non si fa pregare.
Scivola via dalla sua seduta oltrepassandomi, e permettendomi di rimanere a fissarla da dietro, forse in maniera del tutto volontaria.
Dio, è così contrastante!
La seguo a ruota, ottenendo il beneficio di analizzare il preciso attimo in cui oltrepassa la ragazza in divisa. Abbastanza matura da non essere arrossita di fronte allo spettacolo appena mostrato, ma ritenendosi comunque in imbarazzo, durante la nostra uscita di scena.
«Ci auguriamo che il volo sia stato piacevole. Saremo felici di riaverla a bordo» riesce però a comunicarmi, in una frase artificiosa che non deve essere stata generata oggi per la prima volta.
«Grazie, da parte di entrambi» rispondo volontariamente al plurale, per poi scendere e raggiungere Cat, mettendole un braccio sopra le spalle.
Sembra gradire quel contatto, tanto da sorridere continuando però a fissare a dritto così come mi costringo a fare io, trascinando con l'altra mano la mia valigia piccola, a confronto con la sua.
Arrivati in strada tendo la mano attirando l'attenzione di uno dei tassisti, che frena la macchina proprio dinanzi a noi, prendendoci i bagagli.
«Aò, buongiorno! Fatto ammodo il viaggio?»
Non ne conosco molto d'italiano o di italiani, ma ne so quanto basta per comprendere che quest'uomo, grassoccio e con un po' d'affanno, non si inchinerà di fronte ad alcuna parola della mia lingua madre, quindi dovrò compiere un grande sforzo durante la giornata.
Ma cosa importa, Cat sembra divertita dalla sua innata propensione all'affetto, tipico dei romani da quanto ne so. Molto ospitali.
«Da dove venite? Siete inglesi vero? Americani? Ve sareste dovuti addobbà con dei pantaloncini corti e dei calzettoni alti, e io che credevo che ve li tirassero in aeroporto.»
«Siamo diretti in via Urbana, grazie.» Provo a tagliare corto, e per fortuna l'uomo, sistemato a bordo, fa partire la marcia, ma continua con la curiosità.
«Ce siete mai stati qui? In Italia?»
«Che cosa chiede?» Domanda Cat vicino a un mio orecchio, e io le rispondo con un sussurro.
«Se siamo mai venuti qui.» Poi torno a lui, rendendolo partecipe delle mie poche avventure. «Solo una volta, a Napoli.»
Sbuffa in disappunto, cambiando marcia e pigiando sull'acceleratore.
«"Si Roma c'avesse er porto Napoli sarebbe 'n orto."»
Scoppio a ridere nel tradurre mentalmente, e con difficoltà, un simile dialetto, e la mia piccola Cat si fa nuovamente interessata di quanto ci informa il nostro gentile autista.
«Ma che sta dicendo?»
«Temo che stia difendendo la sua città.»
Il tempo di dirlo, che ecco gli vediamo allungare una mano, e afferrare il pendente stemma arancio e rosso di Roma, una specie di fascia con rappresentato un lupo e due bambini, che beneficiano del latte della madre animale.
Potrei sbagliarmi, ma avrei creduto che il loro blasone fosse uno scudo, sempre color porpora, con una croce in oro e il motto S.P.Q.R. Questo non riesco a spiegarmelo, ma forse si basa su un altro tipo di fede, probabilmente legato al loro "calcio".
Scoppio a ridere a quel gesto di pura devozione, pensando a quanto debba essere bello innamorarsi della propria città, e continuare a sostenerla. Nei suoi pregi quanto negli immancabili difetti.
Il buio della notte colora il cielo di una luce particolare, quasi poetica mentre si scontra con i tetti degli edifici e l'estremizzazione del Colosseo, nella sua imponente presenza scenica.
E lei, in tutto questo, completa il quadro come la firma a una poesia. In piedi su questo piccolo balcone, che è circondato da una recinzione in ferro battuto e storica, caratterialmente forgiata dal tempo. Cat se ne sta immobile, con le mani appoggiate al parapetto e il viso di profilo, fisso verso il Colosseo.
Una vista particolarmente attrattiva, ma io preferisco la mia, mentre rimango con la schiena appoggiata alla parete della nostra buia stanza, fissandola con attenzione per leggere in lei ciò che ancora non ho trovato, rimanendo stregato dalla sua eleganza.
Il vento le accarezza leggero gli abiti e in sottofondo, dalla strada, passa una banda di rumorosi musicisti, divertite risate di artisti, mentre le finestre delle case accanto e di fronte, dall'altro lato, rimangono accese mostrandoci scorci di vite, vissute in questo luogo immortale, intrappolato dalla magia.
«Non ho mai fatto una follia simile», le sento dire a voce bassa, continuando a fissare il mondo intorno. «Non sono mai partita in questo modo senza programmarlo, lasciandomi tutto alle spalle.»
La pensione non era costata molto visto i pochi vantaggi ma non ci serve niente che un letto, una coperta e questa vista. L'essere insieme, finalmente da soli, vicini come il mio animo richiedeva di essere.
«Sei pentita?» Chiedo solo, nel timore di una sua risposta affermativa mentre avanzo verso di lei, ma grazie al cielo, prima che le sue parole mi raggiungano, lo fa il suo sguardo,fissandomi con una commozione che mi arresta il cuore.
Non è mai stata tanto sincera, nuda in un modo simile.
«Affatto» mi dice, prima di tornare con gli occhi verso il resto. Verso i balconi che ospitano vasi di rampicanti piante, verso le tegole rosse di un rustico ricordo, le facciate arancio e giallo ocra, scolorite, stinte, rotte, ferite da crepe marroni e indistricabili come arterie di un corpo umano, che ospita la vita.
Compio un piccolo passo indietro, afferrando la coperta sul letto, e anche se c'è poco spazio sull'affaccio di questo parapetto arrivo fino a lei e l'abbraccio, coprendoci entrambi con la lana, perché nonostante la primavera il clima alla notte è fresco, e riesce a penetrare attraverso le vesti.
Sono insofferente però a qualsiasi tipo di emozione che non sia lei, non appena posa all'indietro il capo per cercare l'appoggio della mia spalla, mentre le mie braccia la stringono, attirandola contro di me nella semioscurità del mondo fuori.
Il Colosseo che fa da sfondo alla fine di questa lunga strada di sampietrini, la molteplicità delle case, le luci delle finestre e anche noi, avvolti dal buio di una camera da letto rimasta inutilizzata, ma che ospita, come il resto, persino lei, la vita.
Prendo un profondo respiro, gustandomi il sapore del gelsomino e di questa città, in fermento e poetica allo stesso tempo, tramite l'immobilità dei palazzi e dei suoi abitanti, che si arrestano increduli e stupiti, come fedeli, di fronte alla sua magnificenza e bellezza.
Non mi sono mai sentito tanto libero come in questo istante.
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