14- Il posto a tavola

Ecco una cosa che non mi sarei immaginato di scoprire, riguardo a Katrina. Non riesce ad accettare i complimenti, o meglio sembra proprio che non mi creda.

Potrei rivelarle cento volte quanto la consideri una cosa ridicola, e lei potrebbe continuare a non cedere, ritraendosi nelle sue idee.

Perché non mi dà ragione? Eppure dovrebbe essere consapevole della sua bellezza, mentre la sfrutta come un'arma.

«Caitlin dammi la mano...» la esorto con un sorriso, ma lei scuote il capo. «Avanti.»

«Che vuoi farci con la mia mano?»

«Dimostrare quanto ti consideri bella.»

«Non essere volgare», commenta abbassando gli occhi, ed io cado in una profonda risata. Solo lei riesce a distrarmi così, con il suo erotismo e la sua carica di perfetta innocenza.

«Ma che vai pensando?»

Non deve piacerle molto la mia replica, perché solleva gli occhi di scatto, tornando verso i miei.

«Quindi adesso sarei io la pervertita? Tu non mi toccheresti nemmeno con un dito, non è vero?»

Faccio passare la lingua sui confini del mio sorriso e la tengo stretta a me, su questo divano.

«Ho detto questo?» Legittimamente domando, afferrando con più sicurezza i suoi fianchi dal momento che la battaglia, che ha avuto luogo solo qualche minuto prima, l'ha portata a sedersi cavalcioni sulle mie gambe.
Poi scorro il mio tocco verso l'alto, molto lentamente, per poter cogliere con attenzione un ipotetico momento capace di vederla ritrarsi, ma Cat non si scosta. Rimane immobile e le mie mani continuano la risalita, arrivando, una delle due, a intrappolarle un seno.

Nella stretta tengo avvinta la sua morbidezza e mi sembra quasi di impazzire. La maglia è sottile. Il sostegno del reggiseno quasi scarno, privo di imbottitura ed in questo modo... è come se la stessi toccando senza barriere.

Sollevo gli occhi aprendo appena la bocca, senza avere parole da dire ma fissandola nella più totale confusione, mentre lei non fa niente per salvarmi. Anzi, peggiora la situazione chinandosi verso le mie labbra e baciandomi profondamente, lasciando correre la lingua.

Tento di starle dietro, non abbandonando la presa del suo seno e stringendola più forte, abbracciando il suo busto con l'altro braccio, accostandomela addosso, ed impazzisco del tutto quando le sue unghie mi graffiano la schiena, cercando un appiglio.

Veloce, mi muovo capovolgendo la situazione, così da averla stesa sotto di me lungo questo divano, prendendo posto tra le sue gambe.

Scivolo quindi, lentamente, con la stessa mano di prima al di sotto del tessuto, fino ad arrivare alle coppe del reggiseno, che avverto ricamate, e finire intrappolato tra loro e la sua carne.

Il mio corpo risponde con eccitazione a questo contatto grazie al quale la sto accarezzando in maniera diretta, pur lasciandole i vestiti addosso, limitandomi la vista.

«Io non ho detto niente del genere, Cat» le ricordo, con una voce roca che trasuda il desiderio che sento, poco prima di tornare a baciarla e immergermi in lei.

Torturo un suo capezzolo irrigidito dal nostro contatto, e la sento emettere un gemito leggero, seducente, contro la mia bocca. A quel suono, il cuore cavalca come un pazzo ed ecco che, finalmente, riesco ad afferrare la sua mano, allontanandomi da lei quanto basta per permettere ai suoi polpastrelli di scorrere, dalla tempia fino alla bocca dove, poco prima, era rimasta ferma lei. Le permetto di sfiorare come vuole le mie labbra, anche con gli occhi, bellissima scoperta che continua a scendere, seguendo poco dopo il tragitto che sto facendo compiere alla mano, finché non si arresta sopra il cuore. Tramortito, eccitato, stregato da quello che sta vivendo con lei.

«Lo senti? È questa la prova di quanto ti consideri bella, ogni volta che ti guardo» le confesso in un orecchio, solo per potermi seppellire nel suo profumo.

«Ne sento anche un'altra, di prova» mi commenta, agitando i fianchi contro i miei, e mi esce una risata strozzata, esaurita da quello che sto vivendo. Crollo su di lei in una maniera scenica, capace di seppellirla con il mio peso e lo sbuffo del mio disappunto, ed eccola che scoppia a ridere ma mi tiene molto più vicino.

«Non prendermi in giro, non posso farci niente» faccio notare, esaurito ma comunque eccitato da quello che mi fa provare.

«È bello che comunque mi aspetti», le sento commentare, ed una frase del genere mi fa sorridere, ma cerco di non darlo a vedere, tornando serio.

«Sì, e per quanto devo farlo?»

Improvvisamente la avverto irrigidirsi, di una tensione che non mi piace per niente. Non dice una sola parola, quindi sono portato a vedere in faccia il suo terrore, rivelandole la mia espressione seria, finché quegli occhi spalancati non si rendono un monito troppo evidente. Si è lasciata toccare, ma è come se fossero queste parole, appena emesse, la condanna più difficile da scontare.

A pochi centimetri dal suo viso le rivelo la verità, e nel mio sorriso sembra quasi sciogliersi, tranquillizzandosi di colpo.

«Scherzavo, Cat» le confermo, arrivandole sempre più vicino, mordendole il labbro inferiore prima di essere pronto all'ulteriore frase che sto per dire. Spero si accorga che, anche stavolta, metto in gioco la verità.

«Non mi piace fare tutto da solo, sai? Adoro la partecipazione.»

E sotto il suo sconcerto, aggiungo anche una pacca contro il suo sedere che la porta a ridere e sobbalzare di sorpresa, facendomi rendere conto della mia mano ancora sul suo seno.

Scivolo via, smarrendo ogni tipo di contatto, certo che la perdizione eterna si possa trovare esattamente tra le sue cosce.

Scorro verso la fine del divano, mettendomi seduto quindi, mentre la analizzo fare lo stesso, e le mani mi pizzicano nel rivedere il suo seno contro la maglia. Voglio toccarla di nuovo, ma la prossima volta senza molti più vestiti. Magari pelle contro pelle, chi lo sa se potrò avere fortuna, un giorno prossimo. Ricordando come si è ritratta, non mi è facile concepirlo.

«Non vuoi fare l'amore, Cat?»

C'è attrazione tra noi. È innegabile. Aveva preso vita perfino poco fa, quindi perché nascondersi dietro una maschera?

Chiude dolcemente le gambe, unendo le ginocchia e posando un piede sopra l'altro.

«Certo che voglio... ma non oggi. Sei ancora triste per tua madre ed io... non sono pronta per raccontarti cosa mi è capitato.»

«Ti aspetto, Caitlin, certo che lo faccio, come puoi credere che non lo farei?»

Sorride dolcemente, ritratta proprio come una gatta al margine opposto della seduta. «È per questo che Marina non è riuscita a capirti. Io lo so chi sei, ma lei non ancora.»

«E? Che cosa ce ne importa? Se siamo certi di noi stessi perché è tanto necessaria la figura di una terza persona?»

Allunga il suo piede nudo, sfiorando di piatto il mio. «Non inizierò questa conversazione con te, oggi.»

«E che cosa vuoi fare allora?»

«Siamo bravi a parlare, perché non continuare a farlo?»

«Mi piace. Ma mi piacciono anche i tuoi baci.»

Muove con calma la testa, dall'altra parte, seducente come sempre, mentre continua la risalita del suo piede lungo la mia gamba tesa.

«Si può fare anche questo, ma sei certo dei tuoi intenti?»

«Dipende da come mi baci.»

«Ti bacio come voglio.»

«Allora vorrò quello che vuoi tu.»

Divertita scuote il capo, in segno di un lento "no", venendo a un tratto colpita dal raggio di sole comparso dietro le nubi.

«Troppo pericoloso.»

«Diffidi del pericolo?»

«Michael... non provocare.»

«Se me lo chiedi così...» posso cedere, ma solo per qualche tempo. Poi tornerò alla feroce richiesta di un bacio che sento di meritare. Solo questo, il resto può attendere perché è vero, non è il giorno adatto, o il ricordo che voglio avere, della nostra prima volta. Non siamo pronti, quindi attenderò.

«Di che cosa vuoi parlare Cat?»

«Ahh, dici che possiamo sfidare le leggi dei cliché e avere una banale conversazione tra semi conoscenti, come si conviene?»

Rido internamente, divertito da quanto poco abbiamo avuto di normale. «No. Quello mai.»

«Abbiamo sempre parlato senza scrupoli, quasi fosse abitudine aprirsi in questo modo con un estraneo. Va bene la nostra rispettiva audacia, ma...»

«Magari eravamo destinati.»

«Credi molto al destino.»

«Più di chiunque altro.»

«E lo usi spesso come capro espiatorio?»

«Per meriti e peccati.»

«Buono a sapersi» dice solo, chinando la testa e appoggiandola, di lato, al margine dello schienale del sofà. Non mi perde nemmeno per un attimo con lo sguardo.

«Vuoi ricordare il passato, Mic?»

Scuoto lentamente la testa, confermando poi il mio dissenso. «Ne abbiamo parlato fin troppo, non pensi? Per due ore ti ho riempita di aneddoti noiosi su mia madre.»

«Non erano noiosi.»

«Non è importante, Cat. Mi stai facendo divertire, le battute ti escono spontanee e io non voglio pensarci più a quello che è stato.»

«Sai?, non sono mai stata brava a raccontare barzellette o far ridere la gente», mi risponde in un attimo, con sincerità, ma guidando la conversazione verso l'attracco ad altri porti, così come le ho chiesto.

«Dovrei crederlo?»

«Giuro che è così. C'era una ragazza della quale ero molto amica un tempo, facevamo le elementari insieme. Ricordo che all'ora della mensa provavo sempre a recitarle barzellette, così, come mi erano state dette, ma non riuscivo mai a trasmetterne il messaggio. Con il senno di poi ho capito che, per riuscire a farla funzionare, una cosa, devi renderla tua, perché in quel momento deve essere tua soltanto. Interiorizzare ogni tipo di esperienza.
Se ami sinceramente, se sei divertito, allora lo puoi diffondere al prossimo, ottenendo lo stesso risultato.»

«Interiorizzare vuol dire anche soffrire, però.»

«Magari è necessario anche soffrire, per poter essere totalmente felici, non credi?»

Stavolta sono io a inclinare lo sguardo per poter rimanere in contatto con il suo.
Poso la testa sul palmo di una mano e mi focalizzo unicamente su di lei.

«Vuol dire che credi al bisogno di esorcizzare tutto il male, per poter vivere sereni?»

Con le unghie corre lungo la materica stoffa del blu scuro sofà, seguendone la trama ricamata a spina di pesce, in un gesto di distrazione che confessa la sua serenità, nel parlarmi a cuore aperto.

«Non se ne andrà mai del tutto, ma se l'affronti di petto allora riesci a togliergli molto potere. È questo che credo.»

Immagino che si riferisca alla morte di mia madre, in questa giornata commemorativa che stiamo vivendo insieme, nella quale mi sta aiutando a soffrire, a quanto pare. Provare a ricordarla e far uscire dalla mente il pensiero del suo abbandono, così da scenderci a patti, ma può non essere l'unica cosa.

Il suo credo plasma la persona che è diventata, così come il mio, riguardo al destino, fa con me, e sono sempre più vicino, a un passo dal suo cuore.

Quello che so per certo è che, in un momento come questo, regna sovrana un'intimità affatto inferiore a quella vissuta poco prima, nel nostro bacio, nelle reciproche strette.

«Parlami ancora di un tuo ricordo. Voglio conoscerti, Cat», affermo, lasciandole libera scelta.

«D'accordo, ti ho parlato delle elementari. Sai che cosa mi piaceva moltissimo a quel tempo?»

Scuoto la testa, pronto a ogni sua follia.

«I tweed! Li adoravo!»

Ad una risposta del genere scoppio a ridere, non riuscendo a immaginare una bambina vestire lo stesso abbigliamento, gessato, tipico di un settantenne, da queste parti.

«Scherzi, vero? Avevi maglioni, sciarpe, gonne tutti abbinati?»

«Non prendermi in giro, è tipico del Donegal. Ma l'Irlanda è un paese da conservare in piccoli pezzi per poterne preservare il ricordo. Ci sono i cristalli di Waterford, i maglioni delle Aran, e le ceramiche di Bellek.»

«Tutte cose che ami.»

«Che posso dire? Ho un cuore innamorato dell'inverno.»

Lancio uno sguardo verso il fuori, verso questa città, analizzando le chiome folte degli alberi e i vestiti dei passati.

«Mentre adesso si avvicina la primavera.»

«Poco importa, è bella pure quella. Simboleggia la rinascita, no?»

Riflettendo su queste parole, mostro un mezzo sorriso mentre le accarezzo una guancia, e poi mi chino lasciandole un bacio. Lento, dolce. Questo le voglio dire, che, in qualche modo, per il solo fatto di esserci, la ringrazio.

«Potremo uscire, se ti va.»

«No... restiamo ancora un po' qui, così», e a evidenziare la sua volontà posa la testa sulla mia spalla, restando in silenzio.
Il mio braccio è di nuovo intorno alla sua vita e vi esercita una stretta leggera, contraendosi poi quando sollevo, curioso, una mano. Dallo spazio occupato tra il petto e il tessuto della maglia faccio risalire il pendente di una lunga collana, afferrandone la chiusura. Quasi scoppio a ridere, trovando uno dei suoi famosi cristalli.

«Ci avrei scommesso.»

Sento il divertimento condurla fino alla manifestazione di un sorriso, ma non sollevo la testa per riceverne conferma. Si sta così bene in questa posa, vicini.

«Io non ti mento, occhi belli.»

«Mi fa piacere sentirlo.»

«Già... sembri proprio la persona incapace a perdonare gli errori, o le mancanze degli altri. Non ho ragione?»

Poso le labbra sulla sua testa, respirando il profumo del suo shampoo. Di nuovo gelsomino, come l'odore della sua pelle.

«Sostengo le bugie, Cat, solo se giustamente argomentate. Ma la maggior parte delle volte feriscono e macchinano di infamia chi le emette.»

«Dovevo immaginare una risposta simile.»

«Stiamo imparando a conoscerci, quindi dimmi... tu sei solita mentire? Lo facevi da bambina con i tuoi genitori, con altri?»

«No, non l'ho mai fatto, non mi piace. Mi fa sentire ridicola, e ovviamente nell'errore.»

«Allora possiamo essere d'accordo su questo: non mentiamoci mai, Cat, scenderemo sempre a patti con i problemi usando le più giuste parole. Sei d'accordo?»

Preso dal timore di una negazione, attendo con pazienza la risposta alla mia domanda, ancora irrigidito e con uno sguardo fisso fuori da queste finestre, verso luoghi dove solo la vista mi può condurre. Poi il suo respiro torna a scontrarsi con la mia pelle, lasciandomi i brividi di una febbre calda, ammaliante.

«Si, Michael. Direi che abbiamo appena stipulato il nostro patto.»

E questa è la vera primavera, il giuramento di un qualcosa che per anni avevo perso, ma che ora la vita mi ha riproposto in una seconda speranza: la sincerità dentro un mondo che si mostrava essere teso, alienante e privo di stimoli. La complicità, in un rapporto d'amore, che molto spesso si banalizza o si dà per scontata, arrivando a soffocarla con molte maledizioni contrastanti.

Tra le braccia ho il mio futuro ed è solo grazie a lui che riesco a mantenermi in piedi ed a non cadere nella fossa comune nella quale vorrebbe incassarmi per sempre il passato. Vivo con una specie di nuovo ed eccitante scopo. Vivo adesso per ottenere il risultato di questi anni e promuovere la vittoria che mi spetta.

Niente di più bello o di più perfetto.

Chiudo gli occhi privandomi della vista, anche perché tutto quello che desidero non si trova oltre le sbarre della mia prigione ma vi ha preso dimora, felicemente adagiato su una mia spalla.

Niente di lei può definirsi un aggettivo sottointeso, persino il suo odore particolare rifugge dalla scontatezza di un prodotto chimico-industriale dei grandi centri commerciali, conquistandomi nell'originalità verso la quale è spinto il suo corpo. Costantemente allerta, costantemente sottoposto, da lei stessa, a una specie di prova.

«Raccontami come trascorri le tue giornate. Le persone con cui parli, quello che sei solita fare» le chiedo, per incappare ancora una volta nella bizzarria del suo leitmotiv, nonostante le nostre giornate passate al telefono me ne diano già un'idea.

«È una storia noiosa, da raccontare.»

«Amo i racconti che si sviluppano in crescendo. Tentano sempre di raccontare più di quanto appaia in superficie. Tu mi racconti della tua giornata, e io mi immagino la tua vita. Stiamo fermi sul divano e mi domando quanti giorni, ancora, in serena pace, potremmo continuare a starci insieme, fianco a fianco. Ti piacerebbe?»

Ride divertita, stavolta accarezzando me, invece dell'arredamento che si è reso isola della nostra proprietà privata.

Le sue unghie, poco affilate ma curate, prive di smalto, arricciano il tessuto della mia maglia nera, pizzicandola vicina al colletto.

«Ecco, hai appena preso in analisi la mia più grave condanna: la pigrizia. Sono una persona incredibilmente pigra!»

«Non si direbbe» constato, ricambiando le carezze e scivolando con le mani lungo la parte opposta, rispetto a quella che mi offre, del suo collo, dopo aver deviato il sentiero che, inizialmente, era diretto verso i suoi capelli legati. Ma so bene quanto non le piaccia quando qualcuno glieli sfiori. «Corri sempre da una parte all'altra. Ti trovo ovunque. A teatro, di fronte a un quadro, a lezione, a casa mia.»

«Sono diventata un tormento» mi dice, sollevando la testa e arrivando quasi a sfiorarmi il mento, con la punta del naso.

«Non te ne andare», la prego, ma con un tono che ancora assume una deformazione stabile, quasi lineare.

«Magari hai da fare. Sì, insomma, ti sei appena trasferito e dopo il funerale vuoi passare del tempo da solo, per rielaborare.»

«Dovrei farlo?»

«Hai sentito, vero, il mio discorso sulla rielaborazione del lutto?»

Sospiro, arrestando la mano sulla sua spalla destra e applicandoci una leggera forza per accostarla ancora di più a me.

«Forse non sono ancora pronto per riuscirci» constato, avvertendo d'un tratto l'intangibile paura del silenzio, pronto a farmi visita subito dopo il suo addio. «Ci sarai, non appena quel momento arriverà?»

«Non vado da nessuna parte, Michael.»

Nessun essere umano è pienamente responsabile degli eventi successi nella sua vita, ma almeno può decidere come viverli. Io, nel mio specifico caso, ho optato per la semplice sopravvivenza che sembra tenere un patto con la normalità.

Eliminando ogni artificiosa disillusione, ho seguito il consiglio di Katrina e sono sceso a patti con il vuoto dell'innegabile mancanza di mia madre, quella figura austera ma essenziale, e dopo giorni mastico ancora il dolore, avendo inizialmente provato a ingoiarlo per non sentirne il sapore amaro. Ad oggi, invece, i denti si sono addomesticati nel frazionarlo, quasi diluirlo, ad ogni rintocco d'ora.

Il resto, invece, è proseguito come normale amministrazione. Il teatro mi è ancora lontano, per quanto disti pochi metri dalla mia nuova casa, affidando lo scorrere delle ore alle pagine di vecchi libri, rimasti nella mia biblioteca.

Qualche volta, nel corso della notte, sento dalla finestra lo scroscio di appalusi, e nel buio della mia stanza a loro mi inchino, allo tesso tempo della troupe, avendo immaginariamente prestato il loro stesso servizio e vivendo ancora per quelle esclamazioni di cori.

Dopo... nient'altro. Il silenzio che temevo, inevitabilmente, si è fatto presente, e con lui occupo l'appartamento di pochi metri quadri, pagando anche per il suo affitto. Il più spiacevole dei coinquilini, vista la sua capacità di rarefare l'aria e lasciare nel frigorifero solo bottiglie di tintinnante alcol.

Per fargli un dispetto, sono sceso a fare la spesa, acquistando articoli essenziali come la pasta, qualche etto di carne, della frutta e persino del gelato, perché Caitlin me lo aveva chiesto, l'ultimo giorno che ci siamo visti, lo stesso del funerale, prima di andare via. Sarebbe rimasta solo con del gelato crema e pistacchio. A quanto pare ne va matta, ma vista la mia mancanza, quel giorno, si è motivata nell'andare via, nonostante la promessa emessa. No, quella non vale, perché Caitlin è rimasta, sempre, in ogni ricordo del giorno, in ogni messaggio, in ogni momento concesso e che non mi facesse sentire solo.

«Sono sei dollari e dieci» mi dice la commessa, facendomi estrarre il portafogli e rendermi conto che forse, inconsciamente, non è proprio il ricongiungimento alla salute al quale sto puntando, vista la mia spesa di sei soli pezzi, sufficienti per un pranzo. Una cosa alla volta, però, no? Mangiare significa stare bene, ed io l'ultimo pasto decente l'ho fatto con Katrina perché da solo sono spinto ad abbandonarmi a me stesso, e, di solito, le conseguenze non sono delle migliori.

Porgo le banconote ed un piccolo ringraziamento sussurrato, mentre il resto mi viene offerto poco dopo, mentre sto sistemando il pacco di pasta nella bianca confezione in plastica, mandando al diavolo gli ambientalisti.
Afferro la busta e me ne vado, lasciando suonare un quartetto di piccole campanelle.

Lungo il marciapiedi i soliti turisti concitati e felici del loro tempo perso hanno il viso rivolto verso il cielo e l'apice dei nostri alti palazzi, mentre il mio è verso terra, ed il grigio discontinuo, interrotto dalle crepe, di questo marciapiedi.

A tentoni, cerco di afferrare le sigarette in una delle mille tasche di questo giubbotto, dal momento che la nicotina è divenuta, irrimediabilmente, la mia più grande e fedele compagnia in queste giornate di inattività, ma niente da fare.

Lotto con le deviazioni di questo labirinto di stoffa e finisco con il perdermi, andando contro la spalla di un passante, insolitamente noto.

«Michael?»

Ho la gola troppo secca per rispondere, lo spirito a terra e probabilmente anche delle vistose occhiaie, per via degli incubi, accompagnati dal rumore del treno. Sì, devono essere loro a fargli spalancare gli occhi così, eppure Isaac credo che mi abbia visto in situazioni peggiori. Mi domando che cosa lo preoccupi tanto, però è bello che lo faccia. Esattamente come un tempo.

«Stai bene, piccolo principe?»

Sentire quel nomignolo sulla bocca dello stesso uomo di buon cuore, ormai cinquantenne ma sempre imprigionato nei suoi jeans logori, maglioni accollati, cappotti scuri, scarpe marroni usabili per una scalata di montagna, mi scioglie il cuore e mi porta a muovere la testa, negativamente. Non piango, ma mi sento come contratto, in una posizione spasmodica, che tiene imprigionata solo la mia anima. Il corpo è il pilastro che mi sorregge, mentre dentro, un po' alla volta, sto per cadere a pezzi.

Immobile dinanzi a me lo chef dai capelli brizzolati e il fisico asciutto scorre gli occhi lungo tutta la mia figura, pieno di preoccupazione, ed io lascio che la sua indagine corra. Ho sistemato bene la camicia dentro i pantaloni, come mi aveva insegnato un tempo per poter entrare in sala e servire, anche se in questo caso si tratta nuovamente di un gioco di prestigio che prende, vittime, gli sguardi curiosi di altri. Ho raddrizzato il colletto e mantenuto il pensiero vigile, attento.

Dovrebbe essere fiero, ma non dimostra altro che un cipiglio sul viso, e ancora una volta capisco quanto sia impossibile, con lui, fingere.

Il suo cuore conosce da sempre la giusta ricetta per ogni cosa, e questo l'ha reso un grande chef, ma prima di tutto anche un grande uomo. Lo stesso che, nel più freddo inverno, mi ha aperto di fronte agli occhi la porta secondaria di una cucina, illuminandomi di bagliore nell'anfratto di un nero vicolo nel quale mi ero nascosto. Dandomi nuovamente speranza, un soffio di vita.

Sembra volermi dire, con il suo sguardo, che in qualche modo siamo costretti a rivivere l'esperienza.

La mente possiede una propria memoria. Tattile, gustativa ma anche olfattiva... e io avevo creduto di non poter godermi più questo aroma che tanto sa di casa. Eppure eccolo qui, proprio di fronte a me, gentilmente offerto da una padella fumante che Isaac destreggia allo stesso modo di un'arma ben forgiata. Cosa importa il campo di battaglia? L'ho lasciato entrare nel mio appartamento con una sola svolta alle chiavi e nessun rimpianto, ma non sono gli attrezzi abitudinari a renderlo grande, o nel mio caso la mancanza di essi, quanto l'esperienza che porta sulle ampie spalle. È un uomo modesto, ma nella mia cucina semi nuova ho accolto il migliore chef di Los Angeles, per quanto la vita non gliene renda merito.

Persino il mio digiuno involontario reclama la sua resa e mi spinge ad osservare, affamato, le porzioni che sta per preparare, nella più completa concentrazione.

«Ecco a te, ragazzo. Direttamente dalla cucina del nostro nuovo ristornate» mi presenta così il piatto, costringendomi, esaurito ma divertito, a tendere una sola mano per afferrare la porcellana scadente, di un unico servizio da sei, che ho avuto pena di comprare.

La bocca mi si contrae in una smorfia. Per via dei crampi allo stomaco, che da tempo mi ero dimenticato di provare, sia per la ritorsione verso la mia resa. Non amo che gli altri si prendano cura di me, solitamente preferisco farlo da solo ma a quanto pare sto perdendo smalto. Prima Cat, ora Isaac.

«Sembra buono» commento, osservando il calore scaturire da questo primo piatto.

«Un tempo ti piaceva. Forza, mangia» mi esorta, posando la pentola usata nel lavello e riempiendola d'acqua, mentre io arrotolo un piccolo quantitativo di spaghetti, osservando le sue mosse. Almeno finché non ritorna a me con lo sguardo, posando entrambe le mani su questo piccolo tavolo. «Tu non mangi?»

«Ho già cenato. Stasera ho un lungo turno al ristorante, e di conseguenza anche le chiavi per chiudere. Sarei crollato prima dell'orario.»

«Ma mangiare nella cucina vuota del tuo ristornate non sarebbe stato meglio? Non lo dicevi sempre? Durante le ordinazioni dei clienti non aspettavi altro che quel posto si svuotasse, dai camerieri, dai cuochi, dalle grida» ricordo, rivedendo il suo volto più giovane ma sempre marchiato dalle rughe di espressione che tanto lo caratterizzano.

Prima che si raffreddi, però, porto anche la forchetta alla bocca, godendo nuovamente dei sapori.

«Con il tempo ci si stanca del vuoto, sai?» Emette con voce flebile, studiandomi affondo con particolare attenzione. «Una casa vuota, una cucina disabitata, un letto freddo, una bocca cucita perché possano parlare solo i pensieri. Bisognerebbe avere sempre vicino qualcuno. Un amore. Un familiare.»

Fermo la mano, cessando il gioco con quei vermi di farina sporcati di rosso scarlatto e panna.

«Mia madre è morta, Isaac.»

Annuisce lentamente, rimanendo immobile in tutto il resto. «L'ho saputo. Mi dispiace non aver partecipato al funerale.»

«Adesso la casa è vuota.»

«No, non è vero.» Una simile risposta mi getta nello sconforto, a causa della sua menzogna, e mi innalza verso il cielo, mentre una parte di me desidera credere a quella bugia. «Reciti ancora a teatro, no? Dove sono le voci dei tuoi personaggi?»

Lentamente torno a sorridere, fissandolo con serenità. «Come fai a sapere che non ho smesso?»

«Non rinunceresti mai, principe, quel palco è la tua vita, e lo sappiamo entrambi.»

«Sì, forse è vero...»

«E...? Qualche nuovo progetto in arrivo?»

«Per la verità...», inizio divertito, pronto alla sua prossima battuta, «... sono un principe.»

«Ma dai? Niente di meno, quindi.» Con sopracciglia sollevate e sguardo, quasi perso, si fa beffa di me e delle coincidenza del destino.

«Avanti, ridi pure.»

«Sei adatto a vestire un ruolo simile. Sempre così sofisticato, misurato. Colto e schizzinoso.»

«Questo non è vero!»

«Puoi non ammetterlo, perché molte volte ti sei sporcato le mani per il lavoro», si rende conto della mia condizione, posandosi l'asciugamano in spalla, come da abitudine. «Ma sei un piccolo principe da sempre senza un castello. Commenta pure provando a difenderti, ma sappiamo entrambi che non perdi i tuoi vizi.»

«Interpreto Edmound in Re Lear, l'opera di Shakespeare...» mi permetto di rivelare, tornando ad occhi bassi in direzione del piatto, solo perché i suoi commenti da sempre riescono a farmi ridere.

Non viviamo un'eccezione, motivo per il quale Isaac non si esenta nel rendermi partecipe di un evidente fatto:

«Con quelle occhiaie non andrai da nessuna parte.»

Sapevo che le aveva notate.

Resto in silenzio per un po', senza sapere come difendermi o tornare allo stato di semplice e proficuo scambio di opinioni di poco fa, ma ancora una volta pensa lui a tutto.

«Ti va di leggermi qualcosa? In onore dei vecchi tempi. Mi accendo una sigaretta, mi siedo su uno di questi sgabelli e ti ascolto recitare.»

«Vuoi davvero che lo faccia?»

«Non farti pregare, principe.»

Seguendo le sue regole, non lascio nulla nel piatto prima di sollevarmi in piedi, dirigendomi verso il centro della stanza.

Al contempo Isaac fa quanto detto. Afferra, dal contenitore in carta, una delle sue disgustose sigarette dal sapore troppo amaro e l'accende sotto i miei occhi, andando poi a sedersi. Schiena contro lo schienale dello sgabello alto, piedi sul secondo panchetto in alluminio, una posa rilassata, uno sguardo attento... e mi sembra di rivederlo nel suo grembiule bianco da cuoco, all'interno della cucina del ristorante, al termine del turno. Il mio piatto abbandonato, dolce cena di conforto dopo il lavoro, la sua attenzione e la stessa trepidante attesa di recitare qualcosa solo per le sue orecchie. Solo per dimostrarmi grande, al suo cospetto.

«Vorrei che tu venissi alla prima dell'opera, tra quattro settimane, all'Orpheum» lo rendo partecipe dei miei pensieri, da dietro quei sospiri di grigio fumo.

«Vedrò cosa posso fare» mi dice, e in qualche modo, in cuor mio, so bene che i suoi modi all'apparenza sgarbati, privi di interesse, sono una promessa. Lui ci sarà, seduto nella fila delle poltrone rosse, guarderà verso di me... e ascolterà ancora una volta, dal vivo, le parole che sto per pronunciare, rendendolo primo spettatore del nostro show, ricco di flashback, miei quanto suoi.

La parole scorrono veloci percorrendo il tragitto della memoria e la vita, della scena teatrale, torna a percorrermisi dentro, permettendomi di viverla, indossarla, averla. I gesti accompagnano le parole, in questo salotto disordinato, mentre tengo alle spalle le finestre, lasciando indietro il disordine della città per potermi concentrare sull'attenzione riservatami dall'uomo nella mia cucina. Quegli occhi stanchi, fiammeggianti, attenti, che si nutrono della poesia così come essa si nutre di me, mentre volo sul tappeto magico della sua metrica, ed è così giusto questo vento caldo. Sento come se sia corretto, in qualche modo, che possa infuriarmisi così dentro, scardinando portoni, buttando giù i compartimenti stagna dell'anima, privandomi di tutto e risucchiandolo nella tormenta di un avaro vortice... che a un tratto si placa, fermo, si arresta, rimettendo ordine mentre la mia voce torna a farsi lieve, fino a spegnersi, nel capolinea di un epilogo atteso.

Ciò che ne segue, in qualche modo, non riesce più a fare paura.

La sua sigaretta si è esaurita lasciando la cenere, così come la recitazione della mia scena continua a volteggiare in particelle d'aria, e nella mia anima non vi è più alcun peso, improvvisamente svuotata da tutto.

Il genitore che ancora possiedo, questo amico caro, mi ha dato ascolto e mi ha spinto verso la cosa che più amo, con tutto il mio cuore: l'arte, la poesia. La recitazione.

Abbasso le mani che avevo sollevato mentre lui picchietta il filtro della sigaretta, lasciando cadere la cenere in un bicchiere in plastica, con due dita d'acqua.

Poi torna a me, rivolgendomi la stessa attenzione, e rimanendo ancora in silenzio, al mio stesso modo, attendendo parole che non esitano ad arrivare.

«Ti ringrazio, Isaac» emetto con un suono lieve, obbligandolo ad osservare verso terra per alcuni istanti, odiando da sempre le smancerie.

«Ci sarà sempre posto per te alla mia tavola.»

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