13- Il respiro della vita

Ormai è risaputo, da molto tempo, che un posto, luogo o meno abitato, possa contenere i fantasmi dei precedenti proprietari all'interno, motivo per il quale la metà degli americani preferisce vivere dentro case recentemente costruite e mai abitate.

Il porto d'armi è libero e accessibile a tutti, tramite registrazione del numero di serie, ma non si può sparare ad una figura intangibile. Non la si può toccare né prevedere, solo osservare, mentre compie la sua mossa e ti ricorda il trascorso dei tuoi peccati.

Non è la paura a spingermi, però, di fronte a questo contratto di vendita, ma un affitto troppo alto e una praticità che non posso permettermi di perdere, specie in un momento come questo.

Avevo trascorso sei ore e mezza in completa solitudine, in questa casa, il giorno della sua morte, prima che Miranda oltrepassasse la soglia della mia camera e si sedesse a fianco a me.
Una madre persa e una recuperata.
Persino con lei c'era del distacco, ma si trattava di rispetto, e nessun abbraccio mi aveva consolato. La sola divisione del silenzio era stata una giusta gratifica e non l'avevo rifiutata.

Quello che mi attende, adesso, è il risarcimento dell'anticipata caparra e due valige semivuote da portarmi dietro, verso il mio nuovo alloggio.

«Non vuole portare altro con sé? Ne è certo?» A domandarlo è l'agente immobiliare vestito nel suo bell'abito tre pezzi, con tanto di marca sfoggiata sul pettorale sinistro. Che posso dirgli, oltre a quanto sia patetica la sua domanda se emessa due volte di fila?

«Sì, sono sicuro. Tutti i mobili sono del proprietario che ha acconsentito a questo atto di vendita, non si preoccupi.»

Il mio ruolo si era rivelato, semplicemente, quello di firmare ulteriore burocrazia a testimonianza del mio consenso nel voler abbandonare questo posto, e permettergli di farne ciò che vuole. Immagino che la casa si venda bene. Il posto è sicuro, fuori dal centro, e possiede anche un piccolo giardino.

«Niente oggetti personali aggiuntivi, quindi? Niente di niente?»

Insiste nel volermi chiedere notizie di una vita personale che non lo riguarda. Forse è un impiccione o, in alternativa, vuole essere semplicemente certo che non entri, all'una di notte, in questa casa ormai in possesso dei nuovi proprietari, a disturbare la loro quiete solo per prendere un semplice soprammobile.

Ci sono molti tipi strani in giro, ed ancora di più di indecisi. Spero che si tratti semplicemente della seconda.

«Molto bene allora. Le auguro una buona sistemazione nella sua nuova casa», riesce finalmente a congedarsi, afferrando le chiavi che gli tendo e permettendomi di andarmene.

Poso le valige nel bagagliaio e metto in moto, prima di osservare il bianco invito che risiede sul sedile del passeggero.

Il nome di mia madre risalta nero, come inchiostro stilografico, sul candido foglio e per alcuni secondi rimangono immobile a fissarlo. Poi afferro gli occhiali da sole e osservo il finestrino accanto il posto guida per compiere manovra, riuscendo finalmente ad uscire dall'isolato.

Terra alla terra. Cenere alla cenere. Polvere alla polvere.

Torniamo tutti in questa specie di grembo materno, un giorno, sembra voler dire questo prete dall'alto del suo sconforto. In braccio a Madre Natura che attende, con pazienza, di vedere tutti i piccoli abitanti del suo mondo prendere riposo tra le sue braccia, in un dolce conforto esente di fiato, e non sembra nemmeno tanto sbagliato come epilogo. L'aver camminato con fretta, lungo il terreno, in scarpe da ginnastica o tacchi altri, per tutta una vita da vivi ci obbliga, alla fine, a riposare orizzontalmente in eterno, tre metri sotto la quota ordinaria.

Se solo ci si pensa è perfetto. Niente ci priverà di questo immenso riposo durante il quale, finalmente, potremmo chiudere gli occhi e smettere di pensare.

Mi domando se anche mia madre stesse facendo lo stesso, o quanto meno vorrei sapere il giorno in cui ha smesso di sognare. È stato di fronte alla mia porta, la prima volta che era tornata da me, in un patetico ostello della Down Town dentro il quale mi aveva visto con un viso tirato, ed i jeans leggermente calati dalla giovinezza?

O forse ancora prima, con gli eterni tira e molla di papà che non le hanno permesso di vivere appieno l'immensa storia d'amore di cui tanto si immaginava protagonista?

Spero solo che adesso possa essere serena. Privata com'è della malattia e di un'ingiustificata cattiveria che prendeva le sue radici in una scontrosità eterna, ma un tempo affabile.

Sono presenti molte persone intorno a questa bara, o almeno più di quante ne credessi. Nessuno si lamenta del mio stato emotivo e generalmente glaciale, neppure Miranda mentre osserva i due becchini gettare terra sulla sua cassa, ed io sono costretto a osservare il cielo, per non mantenere viva quell'immagine in eterno.

Delle benedizioni, dei riti formali e poi non serve altro. La celebrazione è finita e la terra smossa dalla linearità del campo mi fa rendere conto della presenza di mia madre a pochi passi da me.

Dopo, però, chino la mano e accarezzo la marrone terra da campo che posa sulla sua testa, così da lasciarle un'ultima dimostrazione di affetto, sperando che basti a entrambi.

«Vuoi che restiamo, Michael?»

Non ritengo possa essere necessario chiederlo, ma dal momento che la domanda proviene direttamente da Jeremy, comprendo quanto l'ovvietà possa essere chiamata in causa.

«No, non importa, sul serio. Andate» rispondo, rivolto a Jeremy, Ben, Emily, Piper e Miranda, tutti riuniti insieme, e rimasti fermi come pilastri al termine del funerale, mentre gli altri si erano allontanati con frasi di compianto e strette di mano.

La realtà è che in un momento del genere non li voglio vicini, posso farcela anche da solo. Devo farlo perché si tratta della mia vita, e per quanto li consideri, più di qualunque altro, la mia famiglia, loro non ne fanno parte. Non in questo aspetto emotivo almeno, motivo per il quale desidero essere lasciato da solo, e per fortuna lo comprendono.

«Noi siamo qui, qualsiasi cosa ti serva. Ci basta una telefonata» mi ricorda Pip, riuscendo come al suo solito a farmi sorridere, ed in risposta annuisco appena, prima di voltarmi in direzione della macchina e andarmene da questo posto.

Dallo specchietto retrovisore il Campo Santo appare come una collina dedicata ad una città di morti, sulla quale, camminando, senti l'eco di nomi e cognomi, vite passate e stroncate, date che riportano la linea della loro vita.

Arrivato in città lo spettacolo, nel mio nuovo quartiere, non si dimostra tanto meglio, ma non è importante. Quello che mi serve è semplicemente un tetto sopra la testa e un cuscino. Il letto non serviva ma era compreso nell'affitto di questo monolocale affianco alla stazione dei treni urbana, quell'enorme ammasso di ferraglia sospesa sei metri sopra le teste dei passanti che riesce a far tremare le pareti della mia nuova casa, al passaggio di qualsiasi locomotiva.

Un posto fantastico e quanto meno niente affatto silenzioso.

Afferro le chiavi dalla tasca retro dei pantaloni, una volta arrivato sul pianerottolo, e le incastro nella toppa, lasciandole compiere solo un giro dentro il meccanismo prima che questo si apra. Ed eccoci, casa dolce casa. Tre stanze, quattro finestre, e una bellissima visuale della città metropoli.

Preso posto all'interno, sciolgo il nodo alla cravatta mentre con il calcagno del piede chiudo la porta d'entrata.

La giacca nera si lascia scivolare via dalle spalle per poi compiere un leggero volo, in direzione del tavolo del soggiorno.

Svolto a destra verso la cucina, recuperando un bicchiere d'acqua che bevo con avari sorsi mentre me ne sto appoggiato con le spalle al frigorifero. Il vetro della bevanda serrato tra le mani e lo sguardo fisso oltre le due grandi finestre, molto sottili e con infissi terminanti ad arco, per poter osservare la famosa stazione rialzata ed i passeggeri di tutti i giorni, con una borsetta in mano e il telefono dall'altra, che la percorrono al di sotto in un orario specifico, a seconda della giornata.

Abito da cinque giorni in questo buco di fogna e ne ho già appreso la routine. In qualche modo, credo di averlo considerato come un gioco mentale per distrarmi, ma mi ha già stancato.

Poso il bicchiere, facendo uscire, con entrambe le mani, la camicia dai pantaloni neri di velluto, perché questi abiti iniziano a starmi stretti, facendomi avvertire il loro pizzicante prurito lungo la pelle.

Un sentimento di puro terrore si allarga a macchia d'olio nel mio petto ma mi impongo dei limiti per riuscire a controllarlo, mentre mi passo una mano tra i capelli ed osservo il divano, il tavolo da fumo, la piccola tv, le due finestre affiancate su di un'unica parete, la cucina divisa tramite la porta d'entrata da questo spazio, e poi la porta della mia camera da letto, chiusa su questo corridoio sul quale staziono. Semplice percorso a simbolismo di un ipotetico proseguimento, parallelo, a terra, dell'imposta della porta di casa che ho alle spalle. Niente di più semplice, di più abitabile, pratico. Eppure tanto stretto da soffrire. Ma non silenzioso. No. Questo si era capito che non era silenzioso.

Il treno decide di passare proprio in questo istante per confermarlo, ed io respiro dentro questo suo barrito, chiudendo gli occhi mentre sento le pareti tremare senza crollare, esattamente come me. In piedi, dopo il passaggio di questa carovana ad alta velocità.

Spero, in qualche modo, di non lasciare intravedere le mie crepe.

Apro la porta di camera, a pochi passi di distanza, ed entro dentro il bagno che ospita, in modo da bagnarmi la faccia con dell'acqua fredda. I capelli, tagliati corti adesso, in una scorciatura personalmente realizzata con risultati decenti, afferrano piccole goccioline sulle punte, impedendo loro di cadere, così come fanno gli steli d'erba di un prato con le lacrime della pioggia, a seguito di un lungo temporale. Restano inclinati, ma non troppo. Nemmeno loro precipitano. Nemmeno loro cadono.

Uccidendo queste pensieri patetici porto all'indietro il ciuffo, appiattendolo sulla testa. I bottoni che facevano da polsini si sono aperti, la camicia piegata in mille grinze è rimasta fuori dalla stretta della cintura in vita e, in fondo, l'aspetto che finalmente rivelo a me stesso è trasandato quanto basta a confessare il caos che ho in testa.

È solo una serie confusa di emozioni dentro le quali devo fare chiarezza, nulla di più.

Esco dal bagno afferrando un asciugamano che poi passo sopra la cute, sferzando i capelli mentre avvio la segreteria di questo nuovo telefono fisso, unicamente di casa.

Non sono ancora riuscito a comprare uno smartphone nuovo. Dopo la collisione contro il muro di camera ed un incontro ravvicinato con un tecnico esperto ho dovuto accettare la sua naturale dipartita. Vivo segregato in queste stanze, da quando il mondo esterno ha perso di interesse. Miranda mi ha lasciato un congedo da lavoro che non intaccasse, ad ogni modo, la recita di Shakespeare al termine dell'anno, dunque non ho nemmeno il teatro a cui tornare per fingere che, in qualche modo, la mia vita stesse andando bene.

Abbandonarmi così, a me stesso, è stata una mossa sleale, ed ancora devo capire se possa essere stata creata a mio favore.

Per il momento lo squillo a vuoto della segreteria telefonica mi avverte dell'assenza di messaggi, mentre poso l'asciugamano e mi lascio cadere sul divano, completamente disteso e con la testa sopra il bracciolo, al fianco della finestra, a fissare un soffitto ingiallito dall'umidità.

Riverniciare sarebbe un bel modo di scacciare i pensieri, ma al momento non ho voglia di fare niente.

Desidererei solo chiudere gli occhi, è da un po' che non dormo, saranno tre notti. Riposare sereno senza i ricordi del passato a tormentarmi come incubi.

Accosto le palpebre, tentando di prendere sonno, ma una scarica mi elettrizza, impedendomi di farlo, mandandomi in tachicardia il cuore, portandomi a muovermi di poco sopra questo divano.
Nelle orecchie il contraccolpo cardiaco risuona come un pesante tamburo. Tum. Tum. Tutum.
E ancora tum, tum, tutum, tum.
Non sento che quello, l'utopia del riposo si allontana sempre da me, finché non sono più i miei ritmi cardiaci a raggiungere le mie orecchie ma dei colpi di nocche contro la porta di casa.

Svogliatamente apro gli occhi che, con forza, mi ero costretto a chiudere di nuovo, rimando sdraiato a fissare l'ingresso, prima di decidermi ad avvicinarmi con passo stanco.

Lascio compiere il giro sospeso alla chiave, accorgendomi di non aver inserito il chiavistello, prima di aprire... e rimanere completamente di sasso alla vista del suo viso.

Cat è in piedi dinanzi il mio portone di casa con uno sguardo preoccupato, le mani strette tra loro in una tortura, e l'espressione in parte colpevole, forse di non avermi avvertito del suo arrivo, ma non deve preoccuparsene.

Accidenti, lei è qui. Qui, dinanzi a me, e non ne capisco la ragione.

«Ti chiederai come sono venuta a conoscenza di questo posto» inizia a dire, e la sua voce torna nelle mie orecchie dopo un'immaginabile assenza. Si stringe nelle spalle, confessando i suoi crimini. «È stata Miranda. Mi ha informata di quello che è successo e ho deciso di venire a parlarti.»

Non emetto una sola parola, sentendo il suo bisogno di spiegare molto altro, oltre a ciò che mi ha detto, e qualcosa dentro di me si frantuma una seconda volta, alla sua vista.

«Ti sembrerà patetico, ma ecco... io avevo provato a chiamarti. Più volte, per la verità, e il telefono mi dava sempre occupato. Ho creduto che dopo quella assurda scena al laboratorio, che tu, ecco... che tu avessi perso interesse. E non te ne faccio una colpa, se lo hai fatto, ma ecco sono qui, ed in qualche modo spero di esserti di conforto.»

La mia gatta sul tetto che scotta. Ha camminato sui carboni ardenti, ma eccola che mi ha raggiunto.

Afferro la sua mano e di colpo la tiro a me, intrappolandola tra le mie braccia mentre tengo ancora aperta la porta e torno a sentire il suo profumo tra i capelli, lungo il collo.

Non ci mette troppo a ricambiare e poco dopo la sento stringermi con altrettanta grinta, sostenendomi e traendo conforto, al contempo.

Una simile richiesta di aiuto ed un'offerta così spropositata d'amore riesce a mandarmi verso il declino di un precipizio, in direzione del quale non avevo mai pensato di avventurarmi, ma ora eccomi qui e sto precipitando, sempre con più velocità, sempre più in fretta, in maniera incredibilmente rapida.

Il cuore viene smosso da un simile cambiamento. E nascosto nel suo calore, finalmente, dai miei occhi precipitano lunghe lacrime. Riesco a nascondergliele solo per pochi minuti, prima che un respiro rotto la faccia accorgere della mia situazione, ma non allontanare.

Semplicemente, Cat mi chiede di arretrare in modo da chiudere la porta, e lasciare solo noi in questo interno.

Appoggiandola al legno di questo portone continuo a stringerla, chiedendole tutto quello che mi può offrire, mentre mi accarezza la testa e mi sussurra nell'orecchio un flebile "shh" in grado di zittire tutti i miei pensieri.

Sentire la sua vicinanza, il suo calore, la sua voce, mi spinge ad allontanarmi di poco per poterla fissare in viso. Sfiorare la sua guancia calda che sa di vita e che si mostra nella sua interezza, a causa dei capelli legati, per poi chinarmi verso di lei e richiederle il mio bacio.

La sua bocca mi restituisce la vita e il suo respiro riesce a compensare il mio, rotto dal pianto. Le sue braccia non smettono di stringermi mentre le mie si focalizzano lungo l'arcuatura della sua schiena, traendola a me.

Non permetto a questo conforto di andarsene. Non ora che gli ho offerto tutto. Non ora che il pianto sta passando.

«Posso restare?»

Con quale forza crede che glielo vieti?

«Puoi non andartene mai?»

Sorride gentile, sfiorandomi con una sola mano il viso. «Hai l'aria stanca.»

«Non dormo da un po'.»

«Stavo per proporre di bere del caffè, prima di vederti in viso.»

«Puoi prepararlo, se ti va.»

«Credo che sia meglio una camomilla, adesso.»

Non dico niente, semplicemente non lascio la presa alla sua mano mentre si allontana e questo la obbliga a fermarsi dopo pochi passi, e voltarsi verso di me per avanzare ancora, con cura, la successiva domanda.

«Dopo potremmo sdraiarci, così riposiamo un po', che ne pensi?»

«Sarebbe perfetto.»

«Aspettami in camera allora. Metto l'acqua a scaldare.»

Non ho mai visto un'espressione tanto dolce e bella come quella con cui mi fissa lei, sdraiata su di un fianco, sul mio nuovo letto a due piazze.
Forse il trucco risiede nel suo modo, particolarmente elegante e pieno di attenzioni, di seguire ogni mio minimo cambiamento, senza perdermi di vista con i suoi due profondi occhi azzurri, o forse tutto il segreto soggiorna semplicemente nel suo fascino da gatta.
Ciononostante nessuna è come lei. Non avrei permesso ad altre di entrare in questo mio momento di fragilità, né ad altri, conoscenti, amici, amanti, poco importa. Esiste solo Cat per un momento simile, questo risveglio dopo lunghe notti passate insonni e che ora mi vede più tranquillo, steso al suo fianco.

Desidero non parlare di mia madre in un momento come questo, perché mi manca la forza di sgretolare la perfezione dell'attimo con qualcosa di più rude, dunque sento il bisogno di spostare l'attenzione su altro di ugualmente importante.
Afferro infatti la sua mano, voltandola su di un lato, e arrivando a baciarle, sotto il suo sconcerto, la ferita lasciata dalla piccola lama.

Per alcuni secondi, la sorpresa le impedisce di muoversi, ma non appena la razionalità ritorna, e con lei uno spiccato bisogno di nascondersi, ritrae la mano e allontana persino gli occhi. Quasi avessi commesso un gesto sconveniente, ma non è stato avventato.

«Come hai potuto pensare che potessi lasciarti?»

La domanda viene rilasciata con una carezza dal cuore, e dalla bocca con un sorriso, ma lei non ne coglie, o ignora completamente, la tenerezza che porta, facendosi scudo con la ragione.

«Il mio telefono si è rotto», ammetto con candore e proseguendo da solo la mia frase, portandola a sgranare gli occhi.

«Come rotto? Chi è stato a romperlo?»

Confesso le mie colpe, stringendomi nelle spalle e attirando il suo sguardo. «Io.»

«E perché?»

«Ero arrabbiato con me stesso. Se solo...»

Arriva a tappare le mie parole con le sue eleganti e flebili dita, velocizzandomi il cuore.

«Non lo dire. Non avresti potuto fare niente tu, è accaduto e basta. Si trattava di una malattia e tu hai fatto di tutto per assisterla.»

«Lo credi?»

«Sì, io credo in te.»

«Io, invece, non ne sono certo. Avrei potuto essere più presente, a casa, in ospedale...»

Dalla bocca il suo tocco risale fino alla mia tempia, lasciandomi una dolce carezza lenitiva.

«Quando ami, Michael, lo fai con devozione, mettendoci tutto te stesso. Vedo come ti comporti anche con me, tu non ti arrendi e sono certa che non l'hai fatto nemmeno con tua madre.»

Non dico altro, semplicemente la prendo tra le braccia e l'attiro a me, premendola lungo il mio corpo, quasi fosse adesiva.
Avverto la sua morbidezza e, al di sopra di queste coperte ancora tese, il suo naturale calore è più utile della lana.

«Vuoi che prepari qualcosa per pranzo?»

Provenendo dal basso, da quella piccola testa rossa che respira sul mio torace, la richiesta riesce a farmi sorridere.

«Prima la camollia, poi il pranzo... lo sai che questa è casa mia, sì?»

«Sì, e mi piace molto. Avremo sentito sei treni passare nel giro di quanto? Due ore? Eri talmente stanco che non te ne sei nemmeno accorto.»

«Ci si fa l'abitudine.»

«È molto contestualizzato.»

«Avanti, che cosa vuoi per pranzo? Preparo io.»

«Potremmo farlo insieme.»

«Non dirmi che credi a quelle scene da film romance dove la coppia riesce a preparare un piatto in santa pace, senza urlarsi contro e per di più facendosi gli occhi a cuore, vero?»

«Credi che litigheremmo?»

«Con i caratteri testardi che abbiamo? Poco ma sicuro.»

Riesco a farla sorridere e l'abbandono con un piccolo bacio sulle labbra. Poi mi sollevo, lasciandola stesa sul letto, a fissarmi, e i suoi occhi mi accompagnano fino all'uscita delle stanze e per una piccola svolta, in direzione della cucina.

Da dietro un alto bicchiere in vetro contenente del vino rosso, gli occhi di Cat mi spiano, divertiti forse nel notare la mia esperienza in cucina ma anche riflessivi, attenti ad ogni mia mossa.

«Sembri stare meglio» constata.

«Merito della tua presenza, forse.»

«Perché dici questo?»

«Perché non avrei permesso a nessun altro di oltrepassare quella porta.»

Abbassa lo sguardo per pochi attimi, prima di rialzarlo, nuovamente divertito.

«Mi piace detenere il primato.»

«Ce l'hai.»

«Allora ti va di parlarmi di tua madre?»

«Non sono una persona che parla molto.»

«Credo che ti farebbe bene.»

Sospiro, indeciso se dargliela vinta e finisco per cedere, quel poco che basta per permetterle di scoprire qualcosa di me che ancora non ha trovato.

«La amavo molto, era una brava donna e un'ottima madre, con un comportamento ferreo, sempre disciplinato e convito delle proprie scelte, per quanto poco le esternasse.
Sì, ci assomigliavamo molto.»

«Sei stato fortunato a crescere con una persona simile.»

Un piccolo silenzio ci accompagna, prima che la sua timidezza lo infranga.

«E hai dei ricordi felici con lei?»

«Molti ricordi felici, ma anche tristi», confesso, continuando a rispondere alla sua indagine.

«Entrambi sono un bene. In egual modo ti permettono di crescere.»

Ed ecco che è andata persa la mia voglia di parlare seguendo simili argomenti.

Sollevo il bicchiere e lo porto alle labbra, vedendo i suoi occhi calamitati da un simile gesto.

«Ti va di fare un gioco?»

«Di che tipo?» Le domando.

«In sua memoria.»

«Non ho mai sentito parlare di un gioco simile.»

«È facile, per la verità, e si basa su ogni tipo di ricordo legato ad una situazione che ti farò presente. Io ti dico quello che sta per accadere, o che sta accadendo, e tu mi rispondi nel modo in cui lo avrebbe fatto lei. Tempo fa ti dissi che mi sarebbe piaciuto conoscerla e non mentivo. Forse lo posso fare attraverso di te.»

Una simile richiesta mi sorprende, e non so bene quanto possa essere in grado di soddisfarla, ma tanto vale provarla. Tentare di riportarla in vita, nel stessa forma di un tempo.

«D'accordo, allora... questi fagottini di crêpes ai gamberi e burrata sono davvero deliziosi» inizia a descrivere la nostra situazione attuale, giocando con la forchetta a spostare uno dei piccoli sacchetti lungo il piatto, in una tecnica simile a quella dell'hockey su ghiaccio.

«La pasta non è fatta in casa, avresti potuto metterti qui in cucina, fermo, a imparare. Fosse mai che una volta riesci sul serio a mettere su un piatto decente» le rispondo con le sue parole, e ascoltandole scoppia a ridere.

«Che cosa? Sul serio?»

Mi stringo nelle spalle, colpevole della mia mancanza.
«Mi criticava sempre, ma adesso ho imparato a farla.»

«D'accordo allora... ti sei sistemato bene. La casa ha un'ottima illuminazione ma il passaggio del treno è un inferno.»

Brava. Ha capito presto di dover giocare in attacco con una carezza e al contempo uno schiaffo. Ma sono ancora in grado di risponderle per le rime.

«Ho capito che non ti importa sul serio il luogo in cui stabilirti perché non ci sei mai. Ma la casa è la tua casa, dovresti avere più cura e gusto.»

«A me piace molto. In qualche modo è come se ti rappresentasse, e già appartenesse.»

«Puoi abituarti al treno?»

«In qualche modo, oggi, sembri quasi volermi dire che ci si può abituare a tutto» constata con ovvietà, e rimanendo ferma di fronte alla mia successiva conferma perché è così. Niente di più vero.

«Beh, signorina Cat, forse è così. Può essere vero.»

«Sempre? Per qualunque cosa?»

«Occorre del coraggio.»

«Questo sei tu a dirlo o tua madre?»

«Lo dico io, Cat. E penso che tu lo possegga, molto più di me.»

Imbarazzata, cerca di allontanare il suo viso arrossito accostandolo a una frase di circostanza.

«La casa è piccola ma sono riuscita già a perdere il mio telefono.»

«Devono averlo rubato i fantasmi» proseguo nella voce di mia madre, facendola ridere per la fantasia che un tempo aveva posseduto e riesco a fare lo stesso, persino io.

«Sembra che la tua paura sia passata.»

«Sì. È così.»

Ma stavolta è stato un angelo a portarmela via.

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