11- Non così importante
Credo fermamente che non esistano limiti alla vita. Che ogni persona possa riuscire a ricavare il suo spazio, se solo si mostra in grado di spartire, con accurata selezione, i momenti obbligati da quelli desiderati, offrendo sempre maggiore alloggio ai secondi.
Non importa il lavoro imposto dal sistema, che si sfama di denaro, o la pesantezza dei turni. L'allontanamento dalle aspettative o la delusione. Quello che realmente differenzia il vivere dal trascinare stanchi passi credo sia l'approccio, e quindi la cura, del proprio gusto personale, lo smarrimento all'interno di un hobby o di un semplice silenzio. Quel qualcosa che ti permetta di rimanere da solo, almeno per un po'.
La pesca è molto valutata, persino in una città come la nostra, nei grandi parchi capaci di ospitare ettari di terreno e un lago, come quello all'interno del quale mi trovo ora.
Ed è proprio la figura di un pescatore che i miei occhi catturano: nonostante la distanza noto le rughe sul suo viso, nella contrazione di un'espressione assorta, e i suoi abiti impermeabili, pronti al sopraggiungere di qualsiasi cambiamento climatico, senza costringerlo ad andarsene.
Vorrei domandargli come riesce a vivere la sua vecchiaia, accentuata dall'età e dalla profondità dei suoi visivi pensieri, e se veramente è possibile ottenere la pace che lui stesso arriva a ostentare, dopo importanti prove e difficili scelte.
Ci distanziano infinite esperienze ma abbiamo lo stesso viso. La stessa espressione del predatore mentre attende di catturare un qualcosa: lui il pesce d'oro dentro il lago, ed io il suo tempo di pace e anzianità, ma non posso averlo perché sono troppo in anticipo, sembra dire. Rispetto al progredire del periodo vitale che, come al mio solito, all'appuntamento prefissato.
Detesto arrivare in ritardo agli impegni, di qualsiasi genere essi siano, motivo per il quale la mia anima è volata più leggera nel momento in cui ho teso la mano, e offerto al correlatore di tesi il mio lavoro, ben nove giorni prima della scadenza massima.
Si era dimostrato soddisfatto, e io posso dire lo stesso di me, adesso, liberato da quest'ultimo masso universitario e pronto per affrontare quello che verrà.
Mi sollevo da questa panchina dopo aver osservato, un'ultima volta, l'orologio al polso, incamminandomi così nella direzione del nostro luogo di incontro, lo stesso di sempre.
I rumori della città vengono assorbiti dalle pareti della sala, abbellite dalla carta da parati floreale di un beige molto chiaro, mescolato a un cipria e a un azzurro pastello, attribuito quest'ultimo alle foglie dei fiori, caratteristica di questa sala da tè in perfetto stile inglese.
Non sono mai riuscito a comprendere come potesse piacerle questo posto. Forse per la calma che detiene all'interno come dono prezioso, o in alternativa per quelle regole silenti che sembrano dettare una specie di cadenza alle mosse dei nostri educati commensali, anche se, ne sono certo, il tutto possa riferirsi al ricordo di un'epoca passata, dove l'intrattenimento di conversazioni deplorevoli avveniva di fronte a un servizio di raffinata porcellana.
Miranda non ha mai rinunciato a tutto questo, e sembra vivere nella sua epoca mentre si mostra seduta sulla poltrona del nostro tavolo, con una sigaretta in mano, la custodia in ferro sul tavolo, e in mia attesa.
Avrei dovuto immaginare che fosse già qui, perché, come ho detto, io e lei ci assomigliamo molto, in una maniera quasi impossibile da concepire, eppure effettiva.
Quando mi trovo a scorgere il suo viso, da lontano, mentre sono in piedi sul mio palco, rivedo quello di mia madre, ormai perso nel tempo.
Brillante e silente nell'osservarmi dar vita a una scena, dentro un posto che mi fa da casa.
Il gioco d'illusione però non cambia mentre mi è più vicina, e continua a mostrare le nostre palesi somiglianze. Le abitudini, i gesti, per quanto possediamo caratteri diversi e siano solo le nostre anime a mostrarsi affini, ma tanto basta a trasmettermi un'appartenenza innata a una persona con un diverso sangue... ma il medesimo sguardo, lo stesso tipo d'attenzione.
Mi accomodo di fronte a lei, imitandola nel vizio del fumo, dal momento che il nostro tavolo staziona nell'area dedicata a una simile usanza.
La fiamma scaturisce in un attimo dalla scintilla e brucia la carta nell'istante in cui il cameriere serve, dentro le nostre rispettive tazze, il tè, lasciandoci il contenitore in terracotta a seguito di quel gentile invito.
Aspiro il fumo avidamente, per poi lasciarlo andare in maniera lenta, permettendogli di disperdersi nell'aria.
«Allora, Miranda? Va tutto bene?»
«Dovrei essere io a chiedertelo, non pensi?»
«E per quale motivo?»
«Sei in un momento importante della tua vita, non te ne sei reso conto, per caso?» Domanda, mentre si sporge per chinarsi a lasciar cadere la cenere nel contenitore in vetro.
Sorrido appena a una simile riflessione, rimanendo fermo, a lei di fronte.
«Sì. Me ne sono accorto.»
«La tesi. La fine di una carriera universitaria. E ora persino un nuovo amore.»
«Va tutto bene, Miranda.»
«Almeno per ora.»
Con attenzione, la seguo con gli occhi mentre spegne del tutto la sigaretta contro la curvilinea superficie scavata del vetro, tentando di prevedere i suoi pensieri non appena la schiena le torna dritta e le pupille puntano a me.
Sfortunatamente non ci riesco, perché Miranda è impossibile da decifrare.
Ha una grande consapevolezza delle sue espressioni facciali e del suo corpo.
I toni possono mostrarsi particolarmente duri, una volta usciti dalle sue labbra, ma i suoi muscoli rimangono normali, perfettamente rilassati, quasi appartenessero a un altro.
Miranda è tutto questo, è la psicologa che avanza domande e che non mostra niente di sé stessa per non farsi analizzare, e posso dire che, nonostante il trascorrere degli anni, non sono mai riuscito a scalfire la sua maschera di glaciale neutralità.
E questo mi rende consapevole, solo in parte, delle parole che sta per dire.
«Che cosa stai pensando, Michael? Che cosa farai quando la tua vita da studente sarà finita e tu costretto a vivere come un uomo?»
«Non cambierà molto.»
«Ne sei certo?»
«Continuerò a recitare.»
«E perché dovresti? Con un lavoro in mano ti sentiresti comunque realizzato, e sappiamo entrambi che reciti per questo. Per dimostrare la tua bravura, la tua riuscita a un pubblico disposto ad applaudire.»
Sollevo una spalla, fingendo di non capire quello che mi dice. «Anche recitare è un lavoro. Il mio lavoro.»
«E potrà bastarti sul serio?»
Taccio, dal momento che non possiedo l'immatura tendenza di rispondere a una riflessione studiata, con una sentenza diretta. Miranda non ha mai fatto altro che spingermi a ragionare, mostrandomi quel qualcosa che ancora non ero riuscito a vedere, e persino oggi sembra farlo.
Vuole raccontarmi il mondo che ha visto, e che io ancora non immagino, conducendomi a esso con una guida paziente, riflessiva e senza dubbio efficace.
Solo che non ci troviamo dalla stessa parte, io e lei, al momento. Si potrebbe dire che quasi non riusciamo a capirci se solo non fossimo così simili.
«Sei una persona avida, Michael, e particolarmente cinica, specie con te stesso», prosegue nel parlare dalla sua seduta di sovrana, a capo della situazione. «Non c'è niente di male a desiderare di avere sempre di meglio, ma ti spinge a pensare che, quello che possiedi, possa non soddisfarti mai.»
«Per questo mi hai dato il ruolo di Edmund, in Re Lear? Vedi molto di me in lui?»
«Non è per questa domanda che ti ho fatto venire qui. Parliamoci sinceramente, come abbiamo sempre fatto» propone, appoggiandosi con i gomiti sui ginocchi, in modo da essermi più vicina, mentre afferro la mia tazza e bevo un sorso di quel liquido caldo.
«Paul Bern e Arthur Coil, i due critici teatrali che ti ho presentato l'altro giorno, hanno intenzione di vederti. Tu che cosa vuoi fare?»
«Accetterò il loro invito, e rilascerò un'intervista.»
«Perché?»
«Vuoi che te lo dica, Miranda?»
Dalla sua postazione arriva a sorridermi, rimanendo piegata, a mani giunte, in direzione del tavolino basso posto tra noi.
«Perché diventerò un grande attore un giorno, e ti renderò fiera di me. Più tranquilla adesso?»
Non dice una parola per alcuni minuti. Semplicemente si solleva, recuperando la sua tazza e l'appoggio allo schienale della seduta.
«Avevo bisogno di sentirtelo dire, ecco tutto.»
Scuoto la testa, bagnandomi ancora le labbra di questo sapore speziato, con un retrogusto di rose, prestandole l'attenzione che richiede, anche in maniera forzata.
«Sono disponibili per un incontro in settimana, per te è un problema?»
«Fammi sapere il giorno e l'ora, ed io ci sarò.»
«D'accordo.»
La sala si mostra, come al solito, allestita con cura e occupata in tutte le sue sedute offerte, rivelando gruppi di persone che parlano tra loro concitati. Mi soffermo, in particolar modo, su una coppia di donne poco più grandi di me, analizzando il modo frenetico che possiedono nel gesticolare, mentre si raccontano le novità della giornata. Il tutto senza mai perdere, l'un l'altra, di interesse.
«Come sta tua madre, Michael?»
«Non migliora» rispondo, con la testa ancora rivolta a quelle due, prima di tornare su di lei, confessando l'abituale cadenza delle giornate. «Né mentalmente né fisicamente. Il medico di base continua a prescrivere medicine ma nell'ultimo periodo si rifiuta persino di prenderle.»
«Sono certa che non sia facile. Da quello che mi hai raccontato è sempre stata una donna testarda e l'avanzare dell'età non l'ha favorita.»
Brevi ricordi si interfacciano nella sequenza di pensieri offerti dalla mente, e tra loro rivedo il suo viso giovane, austero ma sereno.
«Si, immagino sia così.»
«Sono molte le prove a cui ci sottopone la vita, ma io sono certa che saprai scegliere quale strada seguire, non appena te ne verrà offerta l'occasione. Di questo non ho dubbi.»
Non posso confermarlo con assoluta certezza, perché, nuovamente, mi viene sottoposta una sfida tramite un piccolo bip, segnalatore di un nuovo messaggio.
Poso la tazza in porcellana sul tavolo e recupero dalla tasca interna della giacca il telefono, vedendo il nome di Cat sullo schermo.
In qualche modo sono riuscita a farla ragionare.
Marina ci aspetta, se ancora vuoi vederla.
Ti prego, consideralo come un primo incontro.
Lei farà lo stesso, dico sul serio.
La tensione data da una simile richiesta porta i muscoli ad atrofizzarsi, impedendo al mio corpo di muoversi, così come vorrebbe ordinare la mente nel farsi comandare dalla ragione.
«Va tutto bene?»
«Non proprio» le confesso, bloccando lo schermo e tornando a lei.
«Che cosa ti ha fatto nascere questa ruga d'espressione in fronte?»
«Ti è mai capitato di essere consapevole di una cosa, sapere che era sbagliata, ma andarle comunque incontro?»
Mi sorride, picchiettando con un unghia contro la tazza. «Alle volte si deve scendere a compromessi con qualcosa, Michael, per ottenere altro. Se la caramella è dolce, tanto vale inghiottire prima la medicina amara, non pensi anche tu?»
«Si tratta di un imprevisto, Miranda. Il messaggio che mi è arrivato. Sfortunatamente devo andare. Rimandiamo questo incontro?»
Le domando con cortesia, arrivando però, lentamente, già ad alzarmi in piedi, per dirigermi verso l'appuntamento affatto desiderato.
«Si tratta di lei, non è vero? Da chi altri correresti tanto velocemente, altrimenti?»
«Da te, per iniziare» affermo, prendendo il cappotto e vestendolo, una manica alla volta.
«Bugiardo e adulatore, come al solito.»
«È solo la verità, Miranda. Sei come una madre.»
«Mentre lei è la tua ragazza, ed ecco che vengo presto sostituita.»
«Nessuno può prendere il tuo posto, e questo lo sai» commento, avvicinandomi fino a lei e chinandomi sulla sua testa, per lasciarle un veloce bacio sopra i capelli. «Vedi di non approfittartene.»
«Lo stesso vale per te, Michael» le sento commentare, mentre sono ancora chinato a lasciarle il mio pensiero. «Ricordati di guardare il telefono anche quando sarò io a contattarti. Quei due critici non sono affatto persone facilmente avvicinabili e non vorrei sprecare una buona occasione.»
«Non preoccuparti, non me li perderò.»
«Stai attento per strada.»
«A presto, Regina Mab» le sussurro poco prima di lasciare la stanza e tornare vittima del frastuono cittadino. La porta si chiude alle mie spalle ed il sole torna dopo questo breve distacco. Respiro lo smog, quasi fosse l'ossigeno dato dai miei polmoni, prima di tornare, quindi, alla conversazione con la mia rossa, per poter decidere la direzione da seguire.
Quindi si è gentilmente offerta di incontrarmi.
Molto magnanimo da parte sua.
Sono certa che si sia pentita, Michael.
È vero, come ti ho detto, che solitamente
si aggrappa alla prima impressione nei
confronti di una persona, ma non è mai
stata così, non è arrabbiata con te.
È successo tutto perché avevamo litigato,
ma adesso abbiamo fatto pace quindi tocca
a voi. Ma per farlo, prima di tutto, dovete
conoscervi.
Posso sul serio fidarmi? L'espressione di Pitia non è facile da dimenticare, e non credo che il suo odio sia così, inderogabilmente, cancellabile. Forse Katrina lo crede, ma può esserne succube.
Anche io non sono uno stolto e ho avanzato delle ipotesi, specialmente in merito al carattere forte della prima di cui può essere succube la mia gatta, così temeraria, così decisa sempre, tranne che di fronte agli affetti, all'amore, davanti al quale rivela il suo essere, in parte, anche debole. Una simile visione degli eventi è un'arma a doppio taglio ma sono sicuro di essermi, quanto meno, avvicinato alla realtà. Altrimenti Cat non insisterebbe così tanto affinché mi ci riappacificassi se il giudizio dell'Oracolo non valesse niente.
Ed il motivo? Forse risiede nella semplice conoscenza del suo passato. Forse, non appena lo scoprirò anche io, si accorgerà di quanto Marina le sia di intralcio. Anzi, di quanto le possa essere negativa proprio. Nessuna donna dovrebbe subire il fascino o il controllo di un'altra, specie se le tarpa le ali così.
Dove vuoi che ti raggiunga, Cat?
Abbiamo affittato un piccolo laboratorio
per poter dipingere e lavorare.
Ti mando l'indirizzo.
Magari fammi sapere se hai problemi
o non riesci a raggiungerci.
Non appena sei vicino, se vuoi.
Stai tranquilla, Cat. Monto in macchina
e arrivo da voi .
Perfetto. A più tardi allora.
A dopo.
Che cosa sto facendo? Soddisfacendo una sua richiesta, senza minimamente oppormi. È questo che chiede l'amore?
Incondizionata resa, persino quando si è coscienti di avere ragione?
Non vorrei mostrarmi prevenuto, ma nel tempo ho imparato a conoscere le persone, e adesso immagino bene quanto io e Pitia potremmo non andare d'accordo.
Monto in macchina rimanendo per lunghi minuti fermo, di fronte al volante. La bocca intrappolata nel gioco delle dita, mentre il gomito è sostenuto dal finestrino e il mio sguardo è perso di fronte.
È davvero questo che voglio? Lottare con una terza persona per avere quello che desidero, far fronte al suo malcontento, quello spiccato e inopportuno interesse?
Il telefono si illumina nuovamente, mostrandomi l'indirizzo scritto, ed io rimango ancora immobile, a fissare quella promessa. Il nome del mittente, registrato in un principio di smisurato affetto.
Giro la chiave al fianco del volante e metto in moto.
Con poche pareti, un luogo può definirsi casa, ma occorrono molti termini e condizioni per poter considerare questa struttura, priva d'intonaco, un laboratorio.
Abbandonando la macchina in un solitario parcheggio, a pochi passi dall'ingresso, noto subito la fatiscenza del posto, nonostante venga favorito da una totale assenza di vicini. Aspetto, tra l'alto, difficile da ottenere a Los Angeles, ma siamo distanti dal centro e quasi persi, per così dire, nel polmone più verde che ci viene concesso. Mi domando come lo raggiunga, Cat, non possedendo e non sapendo guidare una macchina, ma probabilmente questo sperduto angolo di mondo possiede un collegamento con la corriera, o qualsiasi altro mezzo pubblico. In alternativa, all'arrivo di ogni lampo di ingegnosa creatività, spetta a Marina fare da chaperon, complice insostituibile per ogni aspetto della vita.
Scorro lo sguardo lungo le crepe ramificate ed estese come vene sulla parete esterna, esitando nell'avanzare a causa di un ben diverso pericolo, affatto strutturale.
Getto indietro la testa trovandomi davanti il cielo, e mi prendo qualche secondo, solo per me, prima di tornare a fissare dritto e avanzare.
Un corridoio buio, privo di luminose bucature, mi accompagna come una galleria fino a un luogo molto più distante, ma incredibilmente luminoso, habitat di piccoli rumori.
Cammino piano per godere del cambiamento emozionale dato dall'atmosfera spaziale, ben sapendo cosa significa la mia meta.
Oltrepassato il buio e arrivato nella sala un grande lucernario permette alla luce di filtrare dritta, sopra le teste delle due artiste e delle statue di gesso, facendomi ammettere che l'esteriorità della struttura non rendeva giustizia alla sua anima.
Giunto in questa attraente scena scorgo nuovi confini, spazi accoglienti e un esercito di artistiche statue a grandezza umana, fissate su un piedistallo appoggiato anch'esso sul pavimento bianco.
Bianco, come le pareti della stanza.
E in tutto questo candore spicca la sua chioma rossa, acconciata ad arte e posta a scoprirle il collo.
Mi prendo alcuni secondi per rimanere a fissarla con un braccio teso, le mani sporche d'argilla mentre modella quello che sembra essere, a tutti gli effetti, un piccolo e neonato vaso, momentaneamente privato della cottura. Con i polpastrelli asseconda il profilo della forma mentre con un piede, schiacciando un piccolo pedale al di sotto del tavolo, gli permette di ruotare sopra un disco, mosso dal ritmo scandito dalla scarpa a punta con tacco alto.
Sorride appena, sembra soddisfatta, ma inclina la testa per esserne certa, fissando il suo lavoro da un'altra prospettiva con sguardo assorto, concentrato al massimo.
I denti afferrano il labbro inferiore per poi lasciarlo libero, poco dopo, in un colore più scarlatto del peccato stesso.
Fissa la sua opera così come fissava me, durante il mio ritratto. Attenta. Concentrata. Assorta, tanto da non avermi sentito arrivare, almeno finché i suoi occhi non le permettono di sollevare l'attenzione, scivolando via dall'argilla in una piccola perdita di controllo, ed eccola, mi ha raggiunto.
Prima i suoi occhi, che diventano incredibilmente luminosi come quelli di una bambina alla quale si regala un bastoncino di zucchero filato, e poi la sua bocca, la sua bocca di donna che mi ricorda la femmina che è, il luogo dove il nostro respiro si è incontrato e fuso, mentre si solleva in una dolce curva, rischiarandole i tratti.
«Sei qui» mormora appena, prima che il ticchettio delle sue calzature si renda avviso sonoro della gratifica che cerco, ovvero le sue braccia, mentre mi stringono, accostandomi al suo petto. Ed ecco che posso chiudere gli occhi, sorridere e finalmente ricambiarla, godere di quel calore che tanto riesce a plasmarmi.
«Ti avevo detto di scrivermi non appena saresti stato vicino. Ti sarei venuta ad aprire» le sento dire oltre la mia spalla. Ignoro quello che mi dice, concentrandomi solo sul nostro contatto.
Con rammarico, però, poco dopo mi allontano ma solo per poterle passare una mano sul viso, ben ricordando la sua richiesta di non toccarle i capelli.
A poca distanza riesco a godere della sua presenza in questa giornata così triste, monotona, eppure dannatamente più interessante grazie a lei. Nonostante la triste condizione degli eventi.
Altri suoni si sommano a quelli della sua voce, nuovi passi, ed ecco che scorgo in quella camminata il vero motivo della mia presenza qui.
Lentamente abbasso la mano da Cat e mi volto in direzione della piccola serpe, questa Pitia che, sotto la particolare illuminazione del sole, appare meno severa nell'affilata espressione di giudizio ma comunque integerrima.
Il taglio corto le valorizza il viso, in particolar modo gli occhi appesantiti come sono da una profonda linea di eyeliner dipinta ad arte. Niente rossetto sulle labbra. Probabilmente valorizzerebbe troppo la mimica espressiva della bocca.
Vestita di un pantalone largo in lino bianco, come la maglia nascosta al suo interno a maniche corte, non manca di impreziosire la sua figura con una collana e dei bracciali, che arricchiscono di piccoli rumori la sua tratta, così come con una camminata particolarmente lenta ma calcolata, e a suo modo affascinante. Arriva fino a noi e si arresta, bloccandosi a pochi passi.
Si sofferma su Cat pochi istanti prima di concentrarsi su di me, e con mia sorpresa aprirsi in un piccolo, forse finto, sorriso. Tendermi la mano, e pronunciare una frase che assomiglia alla resa.
«Credo che abbiamo cominciato con il piede sbagliato. Mi dispiace molto, spero potrai perdonarmi. Io sono Marina, piacere di conoscerti.»
Potrebbe assomigliare veramente a una bandiera bianca, se non fosse tanto marcata la cadenza del suo tono.
Non è un abbandono alle armi ma una semplice pausa, forse perché Caitilin è tra di noi e si aspetta che io stringa quella mano.
Tendo il braccio e lo faccio, percependo freddo a contatto con la sua pelle pallida.
«Michael, piacere.»
«Stiamo insieme, Mary» pronuncia la mia Cat, e mai prima d'ora mi sono sentito tanto felice della sua audacia.
La diretta interessata sorride con ironia, in una maniera fredda, quasi calcolata.
«Sì, questo lo avevo capito.»
Non vorrei aggiungere nient'altro, ora che i convenevoli hanno avuto luogo. Mi piacerebbe camminare e fare il giro della stanza, passare ad osservare più da vicino queste statue di loro creazione, rimanendo mano nella mano con la mia gatta, ma sfortunatamente questa giornata è sinonimo di un incontro dunque spetta a noi due, opposte parti di questo contratto orale, il compito di parlare.
«A quanto pare sei un attore» inizia per prima, dando vita a uno scambio di battute.
«Recito a teatro, sì.»
«E ti stai per laureare.»
«In Lettere Antiche, tra poche settimane.»
Patetico approccio, ma tento di non farlo trasparire dalla voce. Vorrei davvero che andasse tutto bene. L'essermi sbagliato su di una persona non mi potrebbe rendere mai più felice di adesso, ma occorre del tempo per scoprire quanto la verità si è allontanata dal percorso dell'iniziale idea, dunque ecco ai minuti lo scorrere di questo cronometro vitale.
Accetto le sue domande e tento di non farmi scudo, sentendo lentamente la tensione sciogliersi, liberando le articolazioni.
«Questo invece è il vostro laboratorio?» Chiedo nella direzione di entrambe, ma riferendomi maggiormente a Caitlin dal momento che, più tranquilla, si è nuovamente accostata al mio fianco.
«Sì, ci veniamo quasi tutti i pomeriggi. Qui lasciamo i progetti consegnati durante gli anni e le nuove creazioni per le mostre. Si trova tutto qua dentro, bozze e schizzi finali di ogni opera.»
«Sono molto belle» commento, riferito alle alte sculture di gesso bianco, decorate da neri punti di fissaggio dei quali non mi spiego la funzionalità. «Quelli a cosa servono?»
«Le sculture in gesso sono solo delle prove ed i fissaggi che vedi, neri e senza punta, sono collocati in posizioni precise della figura e vengono riportati anche sul disegno. Ci permettono di replicarle» mi continua a risponde con saggezza Katrina, osservando la mia successiva espressione.
Che cosa può dedurne? Sono molto affascinato.
«È veramente bello, come lavoro.»
«Aspettami qui che ti prendo i bozzetti! Vedrai il confronto con un lavoro finito. Solo un attimo» mi richiede la piccola gatta prima di sparire come un lampo in direzione dell'oscuro corridoio sul quale, poco prima, avevo notato l'affacciarsi di una porta.
Immaginavo che questo spazio fosse piccolo ma si rivela essere un labirinto dentro il quale Cat pare essersi persa, lasciando me e Pitia a tenerci compagnia.
Un silenzio pesante accompagna la sua assenza durante la quale ci fissiamo solo pochi minuti, occhi negli occhi.
Non riesco a trattenermi e quindi arrivo a chiedere ciò che da giorni mi tormenta.
«Perché Narciso?»
Probabilmente si aspettava anche questo chiarimento, da parte mia.
«È così che mi sei apparso quel giorno. Arrogante e sicuro di te stesso.»
«Non è un peccato.»
«Non ho detto che lo sia.»
«Ma il paragone non è stato dei più clementi» le faccio notare, aggrottando le sopracciglia per poter scorgere da dove provenga il suo odio nei miei confronti.
«Le prime impressioni sono fatte per essere infrante. Prova a dimostrarmi di non esserlo, non del tutto, ed io potrò ricredermi.»
«A cosa devo questa possibilità?»
«È solo grazie a Katrina se stiamo parlando. Questo immagino lo sappia pure tu.»
Katrina.
Non Caitlin.
«Sì, lo so. Nessuno di noi due avrebbe voluto trovarsi a questo confronto.»
«Ecco qualcosa di simile che abbiamo. Ma non pensare di piacermi, Michael, potresti non arrivare a piacermi mai. C'è qualcosa in te che ancora non vedo e che non mi piace, e di solito a percezioni non sbaglio.»
Una simile affermazione è accompagnata da una lunga occhiata, tramite la quale sembra studiarmi dentro, facendo razzia tra le mie viscere.
«Buona ricerca di quel qualcosa, allora» commento senza ironia, pensando a ciò che posso ottenere, ricambiandole il favore.
«Stai attento. L'arroganza ha i suoi pregi come i suoi difetti.»
«Così come la saccenza.»
«Io non sono nessuno per impedire ad un altro, o a un'altra, di conoscerti. Poco importa, spetterà a lei decidere il da farsi, ma spero solo che non sbagli di nuovo.»
«Siamo sul piede di guerra?»
Pitia sorride appena, incrociando le braccia sotto il seno con celato distacco. «Tu quando sei sceso in campo?»
Decido di ricambiare la cortesia, mostrandole un'espressione affilata, mascherata da un sorriso. Non posso, in alcun modo, risponderle di essermi abbassato al suo stesso livello di giudizio, nell'identico attimo.
A causa delle voci su di lei, raccontatemi da Cat, e del cambiamento emotivo in una giornata di sole perfetta, sulla quale erano precipitate le nuvole.
«Lei vorrebbe che andassimo d'accordo» le ricordo divertito, ma ben disposto a non fingere questo ulteriore copione. La migliore amica e il fidanzato di lei che camminano a braccetto, complici felici del rapporto instaurato. Lo scenario sarebbe apocalittico e senza dubbio incredibilmente irreale.
«Vorrebbe. Ma non è nostro dovere fingere, almeno non in sua assenza. Possiamo farglielo credere ma evita di parlarmi. Nel frattempo non mi esenterò da dirle quello che penso.»
«Nemmeno mi conosci» mi procuro di rammentarle, esaurito da una simile assurdità.
«Ne sei certo? Eppure direi il contrario.»
Non mi viene offerto modo di replicare perché Caitrin torna con dei bozzetti tra le mani e un sorriso entusiasta per il quale mi maledico mentalmente, domandandomi perché sia costretto a farlo soffrire.
Vorrei renderla felice eppure appare impossibile. La convivenza con Pitia, la sua felicità, la sua eterna spensieratezza... pare che io sia costretto a tradirla, un giorno, sentendo le parole emesse da questa serpe e capendo quanto la nostra parziale recita mi condanni a questo epilogo. Le nostre doppie facce non si dichiarano guerra in sua presenza, ma domandano di essere lasciate vivere da sole, distanti. Se solo se ne accorgesse questo la renderebbe infelice, e la causa saremo noi, io, che non sono riuscito a mettere da parte lo stesso rancore, lo stesso spirito battagliero del malvagio serpente, che ora striscia più lontano, allontanandosi da noi.
«Allora, questi lavori?»
Alla mia richiesta, Cat sbatte tra loro le ciglia, un paio di volte, e poi sembra riscuotersi, tornare la stessa di un tempo e sorridermi, in un modo tanto dolce che mi spinge a volerle torturare a morsi quelle labbra.
La ricambio poco prima che richieda la mia attenzione verso quelle carte, poco al di sotto dei nostri occhi, e sotto la sua guida seguo gli accenni proporzionali dati dalla matita, guidati un tempo con maestria dalla sua mano leggera.
Folgorato dalla bellezza di quelle piccole e incompiute creazioni, richiedo di poterle analizzare meglio, più da vicino. Prendo quegli stessi fogli tra le mani e li accosto alla mia visuale, studiandone a fondo i chiaro scuri ed i contrasti.
Caitlin ha creato mezzi busti in tridimensionale, per lo più, ma anche semplici volti, di uomini, donne e persino bambini. Nella sua immaginazione ha intrappolato, attraverso l'arte, una scena, e il carboncino le ha permesso di riprodurla. Sento come se fossi stato reso partecipe di un importante e inestimabile tesoro sul quale nessuno ha messo mano.
«Sono bellissimi, Cat» non mi esento di riferirle, e una constatazione simile sembra farle raggiungere uno stadio superiore di buon umore.
La mia piccola e forte donna arrossisce, abbassando appena il capo, prima di propormi di raggiungerla al tavolo dove l'ho trovata, così da mostrarmi il suo operato.
«Ti faccio vedere degli strumenti che adoperiamo per modellare l'argilla. Sai, una signora non deve sempre sporcarsi le mani» mi anticipa nel concepire il suo fine, ed eccomi di fronte a un set di perfetti strumenti chirurgici.
Un astuccio nero tiene in trappola i loro busti, nati da un legno chiaro, oltre i quali si stagliano forme in acciaio, presso che private della punta. Niente di pericoloso, ma poco oltre a lei riconosco un coltello da doratore, dalla lama piatta, simile al vecchio rasoio di un barbiere, e al suo fianco un set di lame affilate, disposte male sul ripiano.
Caitlin si muove troppo velocemente, è distratta ed all'improvviso si taglia il dorso della mano.
Un piccolo gemito di dolore accompagna quella ferita che non sono stato in grado di anticipare, richiamando l'attenzione di Marina, all'improvviso voltava verso di noi.
Riesco appena a toccare Cat, la mia mano la sfiora prima che lei si ritragga con decisione.
«Va tutto bene, Cat. Fammi vedere il taglio» le chiedo, tendendo la mano nella sua direzione mentre la sua è premuta contro la ferita della sinistra, dalla quale scende una goccia di sangue che scivola lungo il polso.
«Ti ho macchiato» commenta solo, osservando con occhi spalancati il suo sangue sul mio palmo.
«Non è niente, basta che tu non ti sia fatta male.»
Sopra a tutto questo risiede, in un gradino più alto, la sua sicurezza, ma Katrina sembra non ascoltarmi. Vede solo quella macchia rossa sulla mia pelle ed io, di rimando, non riesco a capire.
Da bambino mi capitava sempre di ferirmi e quindi sporcarmi con il sangue, o con della marmellata, le mani, quindi è un gesto inconscio quello di portare alla bocca il palmo per poter levare il suo.
Ricordo il sapore scarlatto di questa goccia rossa caduta sulla mia epidermide, costante nell'infantile sbadataggine di anni nella memoria, ma non sono portato a sentirlo di nuovo perché la sua voce arresta il mio gesto.
«No!» Grida, gelandomi di colpo.
Fisso senza capire il suo sconcerto, gli occhi spalancati e la bocca socchiusa... ritratto pieno di paura con il quale mi guarda senza che io possa conoscerne la ragione.
Vorrei darle delle sicurezze ma sono ancora immobilizzato da quel grido dettato dalla sua voce.
Provo ad emettere una piccola frase, ma non ne ottengo il tempo.
Caitlin avanza verso di me e con la manica lunga della sua maglia toglie del tutto il suo sangue dalla mia mano, prima di correre via, uscendo dalla sala.
Lasciandomi in piedi, al fianco del tavolo.
«Ancora non te l'ha detto, non è vero?» Chiede Marina in lontananza.
Mi rivolgo a lei quasi in una costrizione, permettendole di uccidermi.
«A quanto pare non ti ritiene così importante» termina, conficcando la sua lama più affilata dentro al cuore.
I pensieri corrono veloci, cercando una loro via.
Il sangue, la paura, i suoi capelli sempre raccolti affinché nessuno vi eserciti una stretta, il cinismo verso gli uomini, i vestiti lunghi, la pelle coperta, il timore di una relazione e infine queste parole, piene di consapevolezza da parte di una donna che conosce il passato.
«Marina... Cat... ha subito, in qualche modo una violenza?» Mormora una voce che non è mia, mentre alla mia destra quel coltello, sopra il tavolo, rimarca la caduta di una goccia del suo sangue, fino a terra.
«Si può chiamare violenza, se lo si riteneva amore?»
Mi sbagliavo: è con questa risposta che arriva ad uccidermi sul serio, portandomi a compiere piccoli passi all'indietro, privato del controllo. I pensieri corrono veloci, esentati da un senso logico, ma al momento nessuna delle mie regole è in grado di vincolarli, arrivando a delle mete che, però, mi è vietato raggiungere.
«Non è quello che pensi. Katrina non ha bisogno di essere salvata, quello che ha subito non è stato contro il suo consenso. Non totalmente, almeno. Non è ingenua, solo che ama troppo, incondizionatamente, e senza vincoli.
Il resto spetterà a lei raccontartelo, sempre che voglia farlo.»
La serpe si allontana dalla stanza dopo aver sputato gocce di veleno sui miei vestiti, e con essi avermi corroso fin dentro le ossa. Conducendomi in un luogo che non è Inferno come non è Paradiso.
Nessuna redenzione, nessuna perdizione, solo un limbo terreno dove siamo costretti a vivere, in questa città che mescola i diavoli agli angeli, i peccati ai gesti caritatevoli, il passato al presente. E forse anche l'amore, con qualcosa di molto più corrotto, oscuro.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top