Quadri, vignette, frame
Buongiorno e bentornati, terrestri e pirati spaziali. Sono sicura che abbiate affrontato di buona lena l'esercizio di condividere con tutti una descrizione "modello", in modo da averla sempre vicina al vostro personale operato e poter vedere di quanto siete più bravi dei Maestri. Ma è ora di passare oltre.
Il passo che propongo di fare adesso è di descrivere un'immagine artificiale, non meccanica come quella dell'obbiettivo fotografico (che approfondiremo nel prossimo capitolo): propongo di inserire un quadro che amiamo, una scena di fumetto (o manga) e un frame di cartoni animati/anime, e di descriverli minuziosamente, soffermandoci sui minimi particolari, senza tralasciare nulla. Chiaramente anche screen di videogiochi e qualsiasi cosa vi venga in mente d'altro vanno bene, purché siano stati costruiti da una persona o al massimo da un gruppo di persone.
Siete autorizzati a inventare nuovi insulti per ogni particolare che dimentico di inserire nella mia descrizione, ma sappiate che farò lo stesso spietatamente con il vostro lavoro.
E mi raccomando, non fatevi spaventare dal fatto che io sono paurosamente logorroica. Non chiedo assolutamente che vengano prodotti pezzi lunghi al limite della sopportazione da ognuno di voi -- fermo restando che se poi riuscirete a superarmi, ne sarò più che contenta!
Il quadro: San Girolamo nello studio, di Antonello da Messina (1474)
Nota importante: attenzione, non siamo qui per descrivere l'opera d'arte. Sarebbe un errore insistere sulla prospettiva, sul contrasto cromatico o sulle "scelte dell'artista". Vogliamo, infatti, immergerci nell'atmosfera di questo dipinto: non siamo "uno spettatore", ma un passante che ha la fantastica occasione di sbirciare San Girolamo, conosciuto all'epoca come Monaco Anacoreta Girolamo, mentre sgobba.
Passo come sempre vicino al monastero del paese, rincorrendo la mia capretta da compagnia Teresina, quando noto che su una finestra sono poggiati due pennuti stranissimi, che raramente mi è capitato di incontrare. Una è la variopinta coturnice, e l'altro un piccolo, affascinante pavone. Sperando che non si spaventino, rallento l'andatura e mi avvicino a loro. C'è anche una ciotola dorata sul davanzale, ma sembra vuota e non mi spiego a cosa serva.
I due uccellini non si muovono d'un millimetro, se non per guardarmi con sufficienza. Sembra quasi che abbiano il compito di stare lì, e che ne siano ben consapevoli. Comunque, qualcosa di ancor più strano attira la mia attenzione, tanto da farmeli quasi dimenticare: non ci sono tende alla finestra, e così mi trovo a osservare il monaco Girolamo, il più dotto di tutta la provincia, mentre lavora. Il suo studio ha un'architettura molto strana: per me, che sono una semplice contadina, è quasi spaventoso vedere un ambiente tanto grande e inutilizzato. Pare una chiesa, per la ricchezza dei materiali e l'assenza di mobilio. La prima impressione che provo è di freddo: con tutte quelle bifore al piano superiore e le altre finestre sotto, chissà quanta aria gira! Comunque al monaco, che è abituato a ben peggio, non cambia proprio nulla. Se ne sta ben composto sulla seggiola di legno solido, con il copricapo dello stesso velluto rosso del mantello, una camicia bianca e una giubba di cuoio, mentre lavora contemporaneamente con diversi libri, che sono accatastati sulla sezione orizzontale del leggio. Mi distraggo qualche momento ad osservare proprio la scrivania: essa è parte integrante dell'architettura che accoglie il monaco, composta di un piano rialzato simile ad un palco, accessibile grazie a tre gradini (ai piedi dei quali è caduto un oggetto scuro che non identifico) e più largo e lungo del tavolo, tanto è vero che alla sinistra di esso hanno trovato spazio due vasi, un gattino bianco e un appendiabiti usato (ci è stato appoggiato un panno con le frange). Dietro la sedia, invece, sta comodamente una cassapanca, sulla quale Girolamo ha appoggiato il cappello cardinalizio. Alla sua sinistra, nonché davanti a lui, il leggio diventa armadio: se fino all'altezza delle sue spalle non dà impressione di potersi aprire, ma assomiglia semplicemente ad un muro, appena sopra (ad occhio direi un metro d'altezza) sono scavati ben sei ripiani, ingombri di numerosi oggetti di diverso tipo (libri, boccette, bicchieri e tazze, candele ed erbe) e addirittura con una chiave appesa all'estrema destra. Persino sopra il mobile ci sono qualche libro e una scatolina, che devono essere stati messi là da almeno qualche mese.
Uno sbuffo di vento mi distrae dalla contemplazione alla quale mi ero dedicata, spostandomi i capelli. Osservo il cielo attraverso le finestre del locale: è scuro, tendente al grigio, e le rondini volano basse, quindi probabilmente pioverà. Ed è mentre guardo il paesaggio dalla finestra inferiore a destra, che un movimento mi spaventa. Un leone mi sta guardando dalla penombra, e fa ciondolare la coda con quello che mi sembra fastidio. La paura mi travolge alla vista di quell'animale esotico e cattivo, e mi convinco che, per il mio bene e per quello di Teresina, è molto meglio tornare a casa a gambe levate.
La vignetta: Burning down the House, lo stand di Emporio, da Jojo no kimyo na boken - Suton Oshan di Hirohiko Araki
Nota importante: coltivare la fantasia non è mai inutile, quindi consiglio di reinterpretare ogni immagine scelta per questo esercizio. Ad esempio, questa camera non esiste fisicamente ma si apre al centro della prigione di Green Dolphin; però ho deciso di cancellare per un attimo dalla mia mente l'ambientazione dell'immagine, e crearne una "originale". Vediamo come va.
Dopo aver sentito il tonfo, sono corsa su per la rampa di scale e ho trovato la porta aperta. Ho quindi deciso di entrare: so che quelli del piano di sopra lasciano spesso il bambino da solo, e non posso proprio ignorare le difficoltà che il piccolo deve superare quotidianamente in solitudine. "Emporio!" grido, vedendolo accoccolato per terra, e ricordandomi improvvisamente il suo nome (che fino ad un attimo fa pensavo di aver dimenticato). Entro nel salotto senza chiedere permesso, e mi siedo sul ricco tappeto rosso di fianco a lui. Appoggio una mano sul completo che indossa: sotto il tessuto sintetico, bianco a righe nere, il suo corpicino scotta. Questo aumenta la mia inquietudine, e dopo averlo preso in braccio senza incontrare alcuna resistenza da parte sua, osservo l'ambiente alla ricerca di un posto comodo in cui adagiarlo. Il mio sguardo preoccupato, però, non incontra nulla del genere. In mezzo alla camera, infatti, è posto un massiccio pianoforte, con una seduta tanto verde da farmi arricciare il naso (odio l'accostamento rosso fuoco/verde). Le pareti bianche sono massicce, unite tra loro da piccole colonne e collegate al soffitto tramite un semplice fregio a quattro strati di cui uno a rettangoli e un accenno di volta; sono dotate di diverse finestre con veneziane, e di un quadro molto poco romantico, dai colori accesi e le linee dritte e appuntite, sotto il quale un basso mobile di legno scuro costituisce tutto l'arredamento presente nella sala, insieme ad una pianta dalle foglie esageratamente larghe posta nell'angolo della parete opposta rispetto al mobile. Più che un atrio accogliente, questo locale ha l'aspetto di una sala d'attesa, forse anche a causa del pavimento candido. Non c'è traccia di comodità o vivibilità, né divani né semplici sedie, sgabelli o pouf.
Abbasso lo sguardo sul bambino che ho tra le braccia, e decido di portarlo da me, dove avrà un letto comodo e compagnia finché la febbre non passerà. Così abbandono la triste casa-ambulatorio dei vicini, e mi affretto al piano di sotto.
Il frame: Studio del professor Amachi, Uchu no Kishi Tekkaman (1975)
La stanza nella quale i tre colleghi, e il loro capo, si sono riuniti sembra un grosso ascensore. Tale impressione è data dai muri rivestiti di pannelli orizzontali di plastica verde chiaro, dal soffito color denim, dal pavimento incerato, e dal ronzio continuo che i macchinari là presenti emettono. Il dottor Amachi, padre di Hiromi, uomo distinto dalla folta capigliatura e sempre in divisa da lavoro, soprattutto in questo momento difficile, è seduto sulla sua poltrona da lavoro in stile. È caratterizzata da linee aguzze e dal colore giallo scuro, interrotto dal bordeaux della decorazione a pallini e dal grigio dell'unica, spessa gamba centrale a cilindro. Lo schienale di questo pezzo di design è abbastanza alto, tanto che si scorge il suo termine sopra le spalle del professore. Si trova dietro la grossa scrivania, che in una stanza di dimensioni standard, occuperebbe tutto lo spazio disponibile. Interamente in acciaio, ha una strana forma aguzza che ricorda una P; i lati sono decorati, alla base, da tre rettangoli scuri incavati, che ospitano delle lampadine candide; davanti, invece, il metallo è caratterizzato dalle stesse scanalature delle colonne dell'antica grecia. È curioso notare, comunque, che Amachi non sa sfruttare il gigantesco piano da lavoro che ha innanzi a sé, dato che ci ha semplicemente appoggiato sopra una schiscetta gialla.
Lasciamo che i cavalieri dello spazio [non vorrei far notare che in questa puntata Andro non è ancora uno di loro, ma i suoi abiti civili me lo impongono] [inoltre invidio troppo il suo magico stile del destino] ricevano i loro ordini, e facciamoci distrarre dalle lucine e dagli indicatori che lampeggiano dalle consolle sulle pareti e nel soffitto. Oltre alla ripetizione della decorazione della scrivania alla base, infatti, i pannelli verdi sono interrotti a tratti da piastrelle grigie messe in colonna da terra fino a poco prima del soffitto, e dai macchinari inseriti nella parete. Questi ultimi sono fatti da bobine di nastro magnetico in costante movimento, in una teca a sua volta inserita in una piastra di metallo ingentilita da una decorazione di pochi rettangoli neri e azzurri, rosa e bianchi; oppure da schermi con grafici colorati, che si aggiornano di secondo in secondo per tenere d'occhio i parametri più preoccupanti dell'inquinata atmosfera terrestre. Il ronzio delle macchine si avverte a stento sotto le voci dei quattro personaggi; eppure, dato che discutono di progetti top secret, non mi è consentito condividere la conversazione. [Beccati questa, Waldaster!]
Ammettetelo, è stato divertente. Ma sarà ancora meglio nei prossimi capitoli!
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