4. δεν μπορώ
non posso.
Siamo così abituati a vedere persone che nascondono la realtà. Oggigiorno è all'ordine del giorno fingersi qualcuno, mostrarsi forte, ingannare gli altri sulla nostra reale identità, nascondere le radici marce dietro dei fiori appena comprati. Quando mostriamo una parte di noi al mondo non stiamo regalando quello che siamo davvero, ma a volte non lo sappiamo neanche noi. Pensiamo di essere qualcuno, ma è talmente lontano dal nostro vero essere che è quasi una persona estranea alla nostra anima. Eppure, quando si fa un tuffo nel passato, quando si studia la storia, la letteratura, la filosofia, la storia dell'arte sembra che questi problemi non esistessero all'epoca.
Tutti credono che un tempo si poteva vivere di piacere e semplicità, che la verità nuotasse libera tra la gente senza nascondersi. Le strade accoglievano l'originalità, ciò che adesso viene disprezzato e appellato come diverso. Nessuno aveva bisogno di crearsi una nuova versione di sé stesso, nessuno aveva paura di conoscersi per quello che era realmente senza il bisogno repellente di fingersi qualcun altro. Non c'era paura del giudizio altrui.
Almeno, questo è ciò che si suppone.
La storia è tutta una replica. La si studia per dare importanza alle stronzate che l'uomo continua a portare avanti e a riproporre come dei vecchi colpi di scena nelle telenovelas, sorprendendoti solo nel momento in cui si aggrava sempre più la condizione umana.
Ma non siamo qui per fare la critica all'evoluzione dell'essere umano.
Louīs e Hārry vivevano una vita splendida, si incontravano tutti i fine settimana per amarsi completamente nelle loro essenze, scoprendosi ogni notte -e giorno a volte- sempre di più, conoscendo spezzoni della loro anima che arricchiva il loro bagaglio culturale di nozioni di eros, e nient'altro. La loro vita era perfetta sia quando erano in compagnia l'uno dell'altro, sia quando erano per conto loro, da soli.
Louīs studiava perennemente e scriveva, aveva fatto vedere dei suoi scritti a dei discepoli di Platone e si stava facendo conoscere per la sua capacità retorica innata per tutta Atene. Inoltre stava per sposarsi con Elena -non per suo volere, ovviamente- ed era forse pronto a mettere su famiglia nella speranza di avere un successore maschio. Il suo migliore amico Zen era perfetto, gli scriveva quante più volte poteva e il rapporto con Hārry andava a gonfie vele.
Hārry, dal canto suo, aveva il dono dell'immortalità, era bello, divino. Lavorava a stretto contatto con i bambini ed era fiero di poter insegnare loro qualcosa. E ogni giorno, dopo la lezione, si incontrava con Louīs per una camminata nell'agorà, per discutere insieme. Insomma, una vita da sogno.
L'omosessualità neanche aveva un nome, all'epoca. Nessuno veniva giudicato per il proprio orientamento sessuale, forse se si trattavano di ragazzi più effemminati avrebbe dato un po' fastidio, ma niente di serio. Nell'Antica Grecia l'amore si consumava a prescindere dal corpo, a prescindere dall'esteriorità, dal tono di voce. L'amore si faceva tra anime, tra essenze. Le si incendiava assieme con la stessa fiamma e bruciavano nello stesso fuoco fino a ridursi in cenere, prima di rinascere da esse e consumarsi ancora una volta. Essenze che potevano trarre piacere fisico e psicologico l'uno dall'altro, senza nessuna distinzione, senza nessun giudizio.
Quella notte Hārry ci pensò. E una volta abbandonatosi tra le braccia calde di Morfeo, fu tormentato dall'oscurità. Era circondato, le sue labbra bruciavano come se fossero state morse, le sue mani arraffavano l'aria alla ricerca di una salvezza. Deglutì rumorosamente, si girava alla ricerca di uno spiraglio di luce che lo aiutasse, eppure nessuno e nulla era lì per lui. Niente occhi celesti, nessuna luce che potesse salvarlo. Era immerso nel buio, ci stava letteralmente affogando. Si voltava, cercava di aggrapparsi al vuoto per sfuggire al mare, perché quel buio ne era l'allegoria. Non sapeva dove fosse, non sapeva dove andare, non sapeva nemmeno se davvero i suoi occhi fossero aperti. Iniziò a correre, alla fine ce l'avrebbe fatta, lui era capace di poter fare qualsiasi cosa, pensò. Continuò a girarsi senza però smettere di correre, come se sentisse una presenza dietro di sé ma fosse più determinato a scovare una via di uscita che a rivelare la sua identità. Non era lui che avrebbe fatto parte del male, non in quel momento, non voleva che i suoi occhi diventassero neri, non voleva fondersi al buio.
Ecco cos'è, pensò. Si fermò e guardò in alto. Buio, ogni direzione era pittata di nero. Cercò di guardarsi le mani ma era troppo scuro per poter vedere qualcosa. Urlò, ma non produsse alcun suono. Sentiva come se l'urlò fosse imploso nella sua mente, anziché esplodere all'esterno.
«Smettila padre» pensò. Perché dalle sue labbra non uscì un suono, era un cumulo di respiri affannati e sospiri frustrati. Non capiva come fosse possibile. «Ridammi il dono della parola padre, lo pretendo» pensò ancora. La sua voce doveva essere ferma, rigida. Non ammetteva repliche.
«Credi davvero che io mi abbandoni all'oscurità con te? Io sono migliore di te, padre. E il mio destino non è essere confinato negli Inferi come è toccato a te e neanche al cielo come è toccato a Zeus. Sono destinato alla Terra, a vivere con i mortali, da finto mortale» continuò, cercando di urlare invano le sue parole. Hārry era così frustrato, voleva ritornare a parlare, a respirare, a vedere il mondo intorno a sé. Sembrava come se stesse morendo, come se la sua anima fluttuasse in una vasca piena di oscurità e lui stesse affogando.
«Hārry» una voce femminile squarciò il silenzio intorno a lui, poteva giurare di aver sentito il terreno sotto i suoi sandali tremare. L'eco continuava a riprodurre il suo nome e lui cercava di trovare l'origine di quella voce. Si fermò improvvisamente quando sentì di essere avvolto da delle braccia, che non erano realmente lì, si girò spaventato.
Un'anima era lì in piedi davanti a lui, piena di fuoco verde, di pena. Un vestito cucito a mano, grigio, i capelli lunghi e ricci sulle spalle, le ciglia folte che svolazzavano a dei battiti compulsivi delle palpebre. Era una ragazza bellissima, fu il primo pensiero di Hārry, un dono di Afrodite ma depredato della sua felicità da quelle catene che la tenevano prigioniera di una pena che non meritava.
«Chi sei?» domandò senza esitazione Hārry, curioso quanto spaventato. Continuava a pensare alla mancanza della sua voce.
«Macaria» rispose soltanto. Non esaudiva tutte le mille domande che Hārry aveva nascosto dentro di sé, troppe da poter fare in così poco tempo. Hārry attese attimi interminabili, sperava che la ragazza continuasse da sola e spiegasse la sua provenienza, la sua reale identità.
«Chi sei, Macaria?» chiese nuovamente il ragazzo, nonostante il buio impedisse la vista ad entrambi, dalla voce di Hārry si poteva immaginare la sua faccia esausta.
«Sono figlia di Ade e Persefone, nostro padre mi ha mandato qui così che tu ti rendessi conto della mia esistenza. Ade vuole che tu ti ricongiunga agli Inferi, Hārry» sussurrò la fiamma, mentre cercava invano di liberarsi dalle catene tirandosele con le mani. Il ragazzo davanti a sé la guardò, poi si guardò le mani. Improvvisamente anche lui era nelle stesse condizioni della ragazza davanti a sé, pieno di fiamme di tristezza che lo tenevano prigioniero, stretto nel ferro delle catene. Privato del corpo, la sua anima era incatenata e soffriva in eterno. E quella davanti a sé la sua sorellastra.
«Non sono l'unico, non sono l'unico figlio di Ade» sussurrò di continuo, tirandosi le catene come aveva fatto precedentemente Macaria davanti a sé, cercando di utilizzare tutta la forza che possedeva.
«Non posso avere una sorella, non posso!» la sua voce squarciò il buio, l'oscurità tanto temuta ritornò a vedere la luce. Era solo un sogno, si disse. Eppure non era stato l'unico a venire a conoscenza di quella ragazza.
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