1. φίλους με την πάροδο του χρόνου
Amici nel corso degli anni
Era il primo giorno di scuola per Louīs, e lui non vedeva l'ora di fare nuove conoscenze. Prima dei dodici anni, a quel tempo, non era possibile studiare. Le donne si occupavano dei propri figli, di educarli e insegnare loro valori essenziali come il rispetto, la fiducia, ma non avevano una preparazione adeguata così da poterli istruire come avrebbe potuto fare una scuola, un'accademia. Anthia, la mamma di Louīs, si era quindi solo impegnata a insegnare al bambino come si vive in compagnia degli altri, gli aveva insegnato l'amore per il prossimo, gli aveva trasmesso la curiosità del sapere. Louīs si definiva un filosofo, proprio perché amava il sapere. Infatti, il significato della parola è proprio amore per il sapere. A dodici anni Louīs era praticamente un adulto, aiutava sua madre nei lavori domestici più impegnativi e manuali al quale non era adatta, e da lì a poco suo padre gli avrebbe trovato una moglie. Lui non era poi così tanto convinto, ma sapeva di non potersi opporre.
Quando arrivò in piazza Anthia gli baciò amorevolmente una guancia, indicandogli uno spiazzale dove dei bambini erano riuniti con le loro tavolette e seduti per terra in una disposizione ordinata, davanti a quello che veniva comunemente definito grammatico. Salutò tutti, fortunatamente la lezione non era ancora iniziata, e trovò simpatica quasi tutta la classe, ma uno in particolare attirò la sua attenzione: Zen. Un bambino dagli occhi color nocciola e delle folte ciglia a proteggerli, una pelle olivastra che si sposava perfettamente con il colore scuro dei suoi capelli. Erano diventati in un battito di ciglia -quelle di Zen, ovviamente- migliori amici e poco tempo dopo si erano già accordati per passare il pomeriggio insieme dopo le lezioni. Louīs però, avrebbe chiesto prima a suo . Il papà di Louīs aveva sempre sognato di andare in giro per professare i suoi pensieri come i più grandi filosofi del tempo, ma aveva accartocciato i suoi sogni per dedicarsi alla sua famiglia, aprendosi una bottega di vasi di terracotta, nella quale abitavano.
Durante la prima lezione, il grammatico parlò di un mito greco che presentava Poseidone e sua sorella, Demetra. «Difficilmente Poseidone accettava un rifiuto da una donna» parlò il professore, aggiustando la sua tunica bianca mentre guardava le testoline dei suoi alunni una ad una, «e quel giorno aveva voglia di ammaliare la dea Demetra. Chi sa dirmi tra voi, qualcosa sulla Dea Demetra?»
E tutti i bambini avevano prontamente la mano alzata, fortunatamente. Era un loro dovere conoscere l'Olimpo, considerando che, probabilmente, sarebbero diventati sacerdoti metà di loro. Il grammatico indicò un bambino dai capelli biondi e gli occhietti vispi, celesti come il cielo di Zeus, che esultò in silenzio prima di rispondere.
«È la Dea del grano e dell'agricoltura, colei che ogni giorno ci permette di avere il pane in tavola, sorella di Zeus, Ade e Poseidone» gongolò per la sua risposta ovviamente corretta, guardandosi intorno dopo aver risposto.
L'insegnante accennò un sorriso, prima di annuire soddisfatto e fare un breve applauso al piccolo.
«Complimenti, Nyall!»
«Chi si crede di essere?» borbottò Zen nell'orecchio del piccolo Louīs, prima che quest'ultimo ridesse alle sue parole e si coprisse la bocca per evitare che il maestro lo sentisse. Troppo tardi, piccolo.
«Signorino Zen, ha da dire qualcosa al resto dei suoi compagni?» Lo sguardo dell'insegnante era duro, severo. Chissà se lo faceva per insegnare correttamente o solo per antipatia verso alcuni suoi allievi.
In tutta risposta Zen arrossì sulle gote, abbassando lo sguardo e scuotendo velocemente la sua testolina, ricomponendosi e buttando solo un'occhiata al suo amico, sospirando affranto.
Sperava finisse presto, quella giornata di scuola, così entrambi avrebbero potuto giocare insieme.
«Proseguendo con la narrazione» il grammatico sorvolò sull'accaduto, «Poseidone aveva scelto di avere come amante Demetra. La dea, però, non aveva intenzione di stare con il possente Dio e per sfuggirgli si trasformò in una giumenta, nascondendosi fra una mandria di cavalli. Ma Poseidone la riconobbe e si trasformò anch'egli in un cavallo, prima di possederla» era rude con i modi, realistico. Non sempre il mondo rispondeva con le buone maniere e lui voleva solo preparare i suoi alunni al peggio. «Ebbero un figlio di nome Arione, un essere dalle sembianze equine ma con il dono della parola.»
Tutti erano affascinati dal modo in cui parlava l'insegnante, quella padronanza di retorica e dialettica e una capacità di persuasione che tutti i bambini desideravano. Tranne il piccolo Louīs che inconsciamente stava assimilando forse di più degli altri, ma non riusciva a non ridere per il mito appena narrato. Aveva ancora le mani sulla bocca per la battuta del suo compagno e cercava di trattenersi.
Un cavallo che poteva parlare? Che strano, pensò.
«Arione, colui che nitrisce ma somiglia a Poseidone» sussurrò all'orecchio di Zen, il quale non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere davanti a tutti, rendendo indignato l'insegnante. Le loro risate riecheggiarono nella piazza e alcuni passanti distratti si girarono verso di loro.
«Voi due! Non voglio più vedervi ai miei corsi, neanche se Zeus in persona mi minacciasse di scegliere voi o l'Ade! Via, distraete la mia classe di interessati!» indicò un punto indefinito della zona circostante, dato lo spazio aperto a disposizione delle lezioni, e aspettò che raccogliessero le loro cose e andassero via, in silenzio, prima di continuare la lezione. I due ragazzini corsero via, come se il grammatico si fosse scomodato di inseguirli, e provarono per la prima volta l'ebbrezza di fare una stupidaggine giovanile. Appena si allontanarono abbastanza dal punto più alto dell'agorà, rallentarono il passo. Mentre passeggiavano per le strade con i loro piccoli plichi di fogli di papiro e tavolette stretti al petto cercando qualcosa con cui impiegare il tempo, Louīs e Zen non stavano pensando alle conseguenze della loro non-concessa libertà. Infatti, per colpa del destino, il loro cammino tranquillo fu intralciato dal fratello maggiore di Zen, il quale riconobbe immediatamente suo fratello e li prese entrambi dal braccio, trascinandoli lontano dalla confusione così che le sue parole dure risuonassero nella mente dei bambini con maggiore impatto.
«Che cosa ti salta in mente? Anzi, cosa vi salta in mente? Saltare la scuola il primo giorno?» alterò il tono della sua voce Doukas, rimanendo in una posizione eretta senza scomporsi, con le braccia strette al petto e un'espressione austera a sul viso. Zen pensò che se avesse avuto una barba chiara e più lunga sarebbe stato il divino Zeus. Mancava solo il fulmine fra le mani e sì che avrebbe fatto paura. Il fratello maggiore di Zen era un bellissimo ragazzo dai tratti marcati e la pelle olivastra, gli occhi scuri e protetti da una folta corona di ciglia e portava i capelli molto corti, come la maggior parte degli ateniesi.
«Doukas, calmati. Ci hanno solo cacciato e vietato di tornare» constatò tranquillamente il piccolo Zen, gesticolando con la manina. Era proprio vero quanto l'ingenuità dei bambini fosse spontanea ma allo stesso tempo distruttiva. Le loro frasi erano pronunciate senza un'accurata riflessione alle spalle ed era per questo che risultavano forse stupide, a volte offensive. Ma in quel momento non si rendevano conto i due bambini di quanto fosse grave ciò che era successo. Il più grande, in cambio, inarcò un sopracciglio e sbuffò sonoramente, alzando le braccia al cielo. Quante ne aveva passate così alla loro età? Avrebbe mentito se non avesse ammesso di aver vissuto le loro stesse esperienze, o più marcate forse. Zen in confronto era stato tenuto accuratamente a bada, era un angelo. Non aveva mai un capello fuori posto, non diceva mai una parola fuori posto, tutto il contrario di Doukas. Ma allo stesso tempo vedeva l'impeto nei suoi occhi come lo vedeva nei propri ogni volta che si specchiava in una superficie d'acqua, avevano nel sangue un fuoco che ardeva e pretendeva libertà. Forse Zen sarebbe diventato un soldato migliore di lui, un giorno.
«E comunque, tu chi saresti?» indicò Louīs con sguardo interrogatorio, preso quasi dal volerlo mangiare per pranzo. Infatti, il marmocchio dagli occhi celesti come il mare ebbe paura di parlare, non sapeva se fosse una domanda retorica o una domanda bisognosa di risposta. Deglutì e disse il suo nome, arrendendosi al contatto visivo del ventenne davanti a sé e abbassò lo sguardo.
«Uhm, Louīs. Il figlio di Hektor. Benissimo. So dove abiti, ti riporto a casa» sospirò Doukas stanco, porgendo la mano al bambino che, titubante gliela strinse, «Invece tu, Zen, lavorerai con me per il resto della giornata e non appena arriverà nostro padre gli racconterò cosa avete combinato.»
Doukas non era cattivo, non voleva neanche esserlo in effetti. Ma era per protezione, non voleva che il fratellino e il suo nuovo amico si cacciassero nei guai già a quell'età. Aveva ormai vent'anni, era adulto e doveva occuparsi della sua famiglia, di sua moglie e di sua figlia, del lavoro e di eventuali guerre, considerate tutte quelle missioni di conquista a cui partecipava. Pensava di proporre, a volte, di dividere equamente i lavori con le donne ma ci ripensava subito, mai la società avrebbe approvato una tale idiozia. Loro non erano in grado di fare ciò che gli uomini facevano perfettamente. Eppure vedeva qualcosa in sua moglie, la prontezza che aveva quando si divideva in mille compiti domestici, mentre si prendeva cura della sua bambina e, a volte, anche dello stesso Doukas. Era incredibile come le donne venissero prese così poco in considerazione. Anzi, la società greca aveva poco da offrire alle donne, in verità. Erano gli uomini quelli interessanti, erano loro quelli forti, quelli intelligenti. Innamorarsi di una donna sembrava qualcosa adatto solo agli dei, eppure lui amava follemente sua moglie, voleva imitarla, voleva che gli insegnasse i segreti per poter avere una forza d'animo tale da poter fare tutto con il sorriso.
Un giorno, che fosse stato per mano sua o meno, voleva che le cose cambiassero.
Dopo quel giorno, la vita di Zen e Louīs cambiò drasticamente, o quasi. La loro amicizia fu l'unica costante nel corso degli anni. Erano ormai arrivati all'età di diciassette anni, Louīs aveva avuto l'opportunità di continuare gli studi dopo tanti sacrifici compiuti da suo padre, era riuscito a riprendere gli studi con un maestro privato mentre Zen, una volta finiti i basilari, era già pronto per arruolarsi.
La loro amicizia era durata per più di cinque anni, da quel fatidico giorno in cui la loro educazione era stata segnata e le tasche dei loro genitori prosciugate. Avere un insegnante privato, come nel caso di Louīs, costava parecchio, più del partecipare a un corso pubblico, ma anche riammettere alle lezioni un ineducatocome Zen era venuto a costare. La sua riammissione era costata il suo cavallo preferito, ceduto al grammatico per convincerlo a riammettere il piccolo alle lezioni.
La perfezione non esiste. Erano giorni che i pensieri di Louīs non avevano altro argomento, mentre fremeva per l'arrivo del suo diciottesimo compleanno. Diciotto anni volevano significare maturità, coscienza, sapienza, razionalità. E una moglie.
Per tutti gli Dei, proprio una moglie! Da piccolo credeva che avere una moglie sarebbe stato come avere una migliore amica, non come avere un... un fidanzato?
Ed invece sì, dannata illusione.
Non amava la costrizione, non amava assolutamente quel tipo di matrimoni combinati e senza un minimo di affetto alla base. Per lui erano privi di senso, lui doveva dedicare la sua vita, il suo corpo, ad una persona per la quale non sentiva neanche un insipido sentimento come l'indifferenza?
«Io più ci penso e più mi rifiuto, Zen! Non voglio assolutamente avere rapporti con nessuna donna! E poi, come dovrei fare?» borbottò tutto corrucciato.
«Quante storie che fai, io ormai sono un esperto. Non è così male e viene naturale, sai? Gli Dei ci hanno creati proprio per fare questo, tu- aspetta» si fermò per un attimo con il dito a mezz'aria, «ma ti rendi conto delle cose che mi stai facendo dire?» sbottò confuso il moro, prima di passarsi una mano sugli occhi. Quante sciocchezze! «Smettila di lamentarti, è per la tua successione, non per il tuo piacere! Pensa ad altro, ti dico! Pensa a... uhm»
«Hārry» sorrise involontariamente Louis appena pronunciò quel nome. Hārry era figlio di una certa Agape, che non parlava con nessuno fuorché con suo figlio. Dicevano che aveva questo mutismo per via di ciò che aveva visto, che aveva provato. L'aveva conosciuto un giorno nell'agorà e da quel momento non aveva dedicato i suoi pensieri a nessun altro se non a lui.
Si era innamorata di Ade.
«Hārry? Il presunto semidio? Ascolta, il fatto che sia bello non vuol dire che sia per forza un semidio come dicono in città. Anche io sono bellissimo eppure queste voci su di me non circolano! Anzi, io almeno parto per le imprese!» Zen si toccò i capelli avvicinandosi a Louīs per cercare di attirare la sua attenzione, ricevendo in cambio solo una gomitata accompagnata da una risata.
«Smettila, stupido. Lui è semplicemente...»
«Perfetto, lo so.»
————
Parto dal presupposto che mai mi sarei aspettata di ritornare. Soprattutto con un tema del genere. Ma studiandolo in ogni salsa -ed ogni lingua- a scuola, ormai l'antica Grecia fa parte della mia anima. Spero che vi piaccia, votate e fatemi sapere i vostri pareri!
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- Ilay
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