9 - 💼L'uomo e l'avvocato💼
«Sei stato antipatico.»
«Sgradevole.»
«Ma io direi pure stronzo.»
«Le parole!»
«Scusa, ma se lo merita.»
Mia sorella e Nathalie, la mia donna delle pulizie, mi guardavano come fossi stato un bidone dell'immondizia abbandonato a bordo strada.
E forse in un certo senso lo ero.
Tess sbuffò, portandosi tutto il mantello di capelli scuri su un lato della testa: uno dei tick che la prendevano quando era agitata.
Era arrivata quella mattina in aeroporto, ma ci eravamo dati appuntamento a casa mia per un pranzo insieme e credo che nulla l'avrebbe preparata alla conversazione che avevamo finito per avere.
Ma io mi sentivo in colpa, terribilmente in colpa, e avevo bisogno di qualcuno con cui parlarne.
Nathalie si era unita alla combriccola perché come sempre era passata a riempirmi il frigo di nascosto e perché non si sarebbe mai tirata indietro davanti a un po' gossip, soprattutto se riguardava me.
«Sei stato un po' ingiusto, Al, lasciatelo dire», mi rimproverò Tess con uno sguardo severo che era identico a quello di nostro padre.
Per un qualche sadico gioco del destino, nessuno di noi due somigliava alla mamma; eravamo l'uno la copia dell'altra, e insieme eravamo identici al nostro vecchio. Fortunatamente solo nell'aspetto.
Eppure c'erano giorni in cui i nostri lati simili a lui uscivano fuori, e questo era uno di quelli. Oggi mi ero comportato in un modo che lo avrebbe reso fiero: da uomo freddo, pragmatico e calcolatore.
E ciò che era peggio, questa volta lo avevo fatto contro una povera ragazza che avevo visto piangere da sola. Non ero stato in grado di collegare quella figura china a singhiozzare con la donna fiera che avevo davanti; mi ero lasciato annegare dal mio orgoglio, perdendo la capacità di pensare ad altro.
Giocherellai con lo stecchino di legno che fino a poco prima era stato un succulento spiedino. «Lo so», borbottai. «A volte come uomo faccio schifo.» Mi tirai su, appoggiandomi allo schienale della sedia con il viso nascosto nell'incavo del gomito.
Nathalie mi poggiò una mano sul braccio, costringendomi a toglierlo dal volto. «Su, su. Non sei tu a fare schifo, solo il lavoro che ti sei scelto.»
Sorrisi amaramente, senza ribattere.
Nat era una donna di mezz'età, con quella fisicità morbida al profumo di lavanda che sapeva di casa: da quando nostra madre era venuta a mancare, era stata lei a crescere me e Tess in veste non solo di balia ma anche di seconda madre.
Ora che eravamo cresciuti, lei era diventata la mia donna delle pulizie, perché mi faceva piacere pagare lei piuttosto che chiunque altro e perché non riuscivo ad immaginare nessun'altro a mettere mano in casa mia.
Era sempre stata al mio fianco, anche quando le avevo detto di voler diventare un avvocato e non mi aveva parlato per due giorni.
«Mi sono chiuso a riccio», ammisi. Nonostante tutto il lavoro che avevo fatto in quegli anni, tra terapeuti e psicologi, c'erano ancora volte in cui tornavo a essere il ragazzino solo e senza madre che sputava cattiverie solo per non essere il primo a rimanere ferito. «Come una volta.»
«Vero», concordò mia sorella, portando il suo piatto vuoto nel lavello e gettando una decina di stecchi di legno nel bidone dell'immondizia. Pure il nostro metabolismo era uguale.
«Ti sei sentito accusato di essere meschino quando volevi solo chiacchierare e hai risposto tirando fuori i pezzi da novanta», continuò Tess. «Non avresti dovuto, ma conoscendoti posso capire il perché. Sei stato avventato e antipatico, ma ciò non ti rende una persona orribile.»
«A volte mi stupisco di avere trent'anni», commento.
Essere una persona decente era duro, me ne rendevo conto solo ora che ci stavo davvero provando.
Da ragazzo ero convinto che mostrarmi duro e inaccessibile fosse l'unico modo per proteggermi. Guardavo l'empatia degli altri dall'alto in basso, come se il mio essere insensibile mi rendesse in qualche modo migliore.
Mi sbagliavo.
Ero dovuto crescere, e molto, per capire che nascondermi dietro un muro di mattoni non era altro che il modo più semplice per evitare di confrontarmi sia con gli altri che con me stesso.
Cedere alla rabbia, alla solitudine e all'intolleranza era facilissimo; scegliere la gentilezza era la vera sfida.
Peccato che alcune tendenze fossero davvero dure a morire. E continuavo a pagarne le conseguenze.
«Se stessi a elencare tutti gli uomini che non si comportano da trentenni a trent'anni, farei una lista lunga due volte la circonferenza della terra», rispose Nat, facendo scoppiare a ridere Tess e storcere il naso a me. «Tu sei un uomo molto più buono di quanto credi.»
«Almeno ti accorgi di quando ti comporti da idiota», aggiunse mia sorella dopo aver finito di sbellicarsi. «Con una figura paterna come quella che ci ha tirato su non è scontato. E comunque...» Si lanciò di pancia sul divano, facendo volare le scarpe con tacco a spillo da un lato all'altro del salone, sotto lo sguardo omicida di Nat. «Potrebbe non essere stata una brutta cosa aver aumentato le distanze con Chiara Verri.»
Tentennai un istante prima di rispondere. «È vero», mi cavai di bocca alla fine, ma per qualche motivo mi costò più di quanto pensassi.
Davvero non poter avere un rapporto umano con Chiara Verri mi infastidiva tanto? Ero così disperato da non poter fare a meno dell'approvazione di un ciclone con i capelli rosa?
«Però devi chiederle scusa», aggiunse Tess.
«A questo avevo pensato anche da solo, grazie.»
«E magari chiarire com'è andata con suo padre e la faccenda dell'indirizzo.»
«Non saprei,» tentennai, «forse sarebbe meglio freddare i rapporti ora che mi ritiene ripugnante. Sarebbe più semplice.»
«No», mi diede una schicchera in fronte. «Ti sentiresti in colpa fino alla morte.»
Non risposi.
«Perché, che rapporti c'erano da raffreddare?» Nathalie sbucò davanti al divano e scivolò a sedere in mezzo a noi due, come faceva quando eravamo bambini. Il tono da vecchia pettegola che aveva usato non mi piacque per nulla. Tess, invece, sembrava non aspettare altro.
«La prima volta che l'ha vista ci ha flirtato!» saltò su mia sorella.
Nathalie parve colta da un attacco d'asma. «Ma Al? Davvero?»
«Sì!»
«Voglio vedere una foto della ragazza.»
Mi diedi una manata sulla fronte e feci per dileguarmi.
«Ti mostro il suo Instagram. Fa dei vestiti stupendi» disse Tess e io inchiodai.
«Hai il suo Instagram?» chiesi, facendo un passetto indietro per buttare un occhio sullo schermo del suo telefono.
Mia sorella strinse in fretta il cellulare la petto, sbattendo le ciglia civettuola. «Perché, Al? Per caso ti interessa?»
Sobbalzai. «No.»
Girai i tacchi e me ne andai, prima di essere colpito da un'inesorabile pioggia di frecciatine.
In che senso fa dei vestiti stupendi?
***
Il team dello studio legale sfogliava all'unisono plichi di documenti con prove, referti e deposizioni di vario tipo.
La sala riunioni era spaziosa, con un grosso tavolo di legno massiccio al centro, una bacheca su uno dei due capitavola, quello in cui sedevo io, e il pavimento in parquet.
La parete che dava sull'esterno era di sole finestre: in teoria adatta a favorire la produttività, in pratica perfetta per ricordare che la vita là fuori andava avanti mentre noi eravamo incatenati a quelle sedie da ufficio.
Tenevo in mano la deposizione fatta dallo psichiatra di Susan Verri, la madre di Sandro Verri, e la leggevo e rileggevo in cerca di un qualsiasi punto di svolta interessante.
L'uomo affermava di aver prescritto alla donna dei medicinali contro la depressione, ma in dosi non sufficienti ad alterare la sua capacità di intendere e di volere.
Un altro ingrediente aggiunto al minestrone di elementi che non sarebbero bastati ad annullare un testamento.
Susan Verri aveva qualche difficoltà, come qualsiasi persona, ma era morta nel sonno in una tranquilla serata primaverile e nulla sembrava suggerire che fosse stata manipolata durante i suoi ultimi giorni, né da persone, né da medicinali.
Continuando così, la possibilità che il processo in tribunale non ci arrivasse neppure si faceva sempre più concreta.
Sbuffai gettando i fogli sul tavolo. «Chi di voi ha intervistato quell'amica della signora Verri, la signora...» Scartabellai una serie di appunti che avevo preso sino a quel momento nel corso della riunione. «La signora Scott?»
Uno degli stagisti, un ragazzo fresco di università che avevo indirizzato da lei convinto che non avrebbe detto nulla di utile, alzò un dito incerto.
«La signora Scott ha affermato che l'amica le aveva confidato di fare uso di altro per combattere la depressione», riassunsi. «Abbiamo qualcosa di più specifico?»
Lo stagista scosse la testa tremante, come se avesse paura di rispondermi. In effetti lo capivo: ai suoi occhi ero il figlio del capo.
«È ovvio che la donna deve aver agito all'oscuro del proprio medico», riflettei. «Fosse stata effettuata un'autopsia al decesso sarebbe stato tutto molto più semplice, ma quel treno è partito senza di noi. Gli altri?»
La risposta fu un silenzio desolante e desolato. Mi sgonfiai di colpo. Non avevamo nulla di compromettente in mano e non un motivo valido per scomodare il tribunale.
Mi avvicinai alla parete di legno massiccio che divideva la sala riunioni dal resto dell'ufficio e, girando l'asta delle veneziane, guardai in corridoio.
Il solito caos aveva ceduto posto a un silenzio teso: tutte le nostre forze erano concentrate in questa stanza.
La segretaria, una donna di mezz'età che conoscevo da prima di imparare a parlare, si tolse gli occhialini rossi e mi sorrise dalla sua scrivania sul lato opposto dell'ufficio.
Dove sarebbe andata a finire una donna sola e prossima alla pensione se l'ufficio avesse chiuso? Avrebbe trovato un'alternativa? Si sarebbe potuta permettere di vivere di rendita in quegli anni?
Le sorrisi a mia volta e chiusi di nuovo le tende.
«Avete parlato con i farmacisti?» domandai.
«Con quello più vicino a casa della donna,» rispose un collega. «E dice di averle venduto solo quanto prescritto.» Alla mia domanda se avessimo le prove di quanto detto, annuì.
«Altre farmacie? Erboristi? Santoni? Spacciatori? Ciarlatani di qualche tipo? Persone di cui la donna si fidasse?» cominciai a elencare. «Abbiamo una pista, ma senza prove è inutile. Ci serve tutto, tutto quello che possiamo ottenere, forza!»
Mi sentivo un cappio al collo. Non avevamo tempo.
***
Uscii dalla sala riunioni che fuori era buio e con un cerchio alla testa lancinante.
Alcuni dipendenti dello studio mi circondarono per offrirmi qualcosa, ma rifiutai tutti con quanto più garbo possibile, spedendoli piuttosto a riposare.
Avevo bisogno di riordinare le idee sul caso, cercare di mettere un punto alla questione con Chiara Verri, capire cosa diavolo dire ai giornalisti durante l'intervista della prossima settimana e pensare a qualche domanda da fare alla signora Scott.
Non che non mi fidassi del nuovo arrivato, ma preferivo verificare di persona.
Mi avviai pensieroso verso il mio studio e mi ci chiusi dentro con un sospiro.
Sandro Verri aveva pensato di darsi al turismo e levarsi dai piedi per qualche giorno, il che mi permetteva finalmente di fare delle piccole pause nel mio ufficio senza avere sempre il suo fiato sul collo.
Estrassi il mio cellulare, aprii la rubrica e scrollai i numeri salvati, in cerca di uno nello specifico.
Chiara Verri
Non sapevo nemmeno io perché lo avessi salvato. Era scritto sui documenti compilati da Verri riguardo sua figlia, quindi avrei potuto copiarlo al bisogno, eppure eccolo lì.
Aprii la chat vuota e la fissai per un po'.
"Egregia signorina Verri, sono Alexander Mason. Scrivo il presente messaggio per scusarmi"
Cancellai il testo. Troppo formale, non stavo vergando una lettera diretta al Presidente.
"Cara Chiara, sono Alexander"
Sì, bravo, Alexander, scrivile come scrivevi a Babbo Natale quando avevi cinque anni. Cancellai di nuovo e riprovai.
Il nuovo messaggio scritto era più leggibile, ma non avevo il coraggio di inviarlo. Quando feci per eliminare pure quello, qualcuno bussò alla porta e io sobbalzai, spegnendo lo schermo di colpo.
«Alexander?»
Mio padre entrò senza aspettare il mio consenso e si accomodò sulla mia sedia, lanciando come al solito un'occhiata sprezzante alla foto di mia madre.
«Come procede?» domandò.
Fossi stato mia sorella, gli avrei risposto che avrebbe anche potuto alzare il sedere e presenziare alla riunione, ma Tess era Tess e io ero io.
«Bene,» mentii, «abbiamo una testimonianza interessante.»
Mio padre sollevò un sopracciglio. «Interessante? Da quando valutiamo le testimonianze in base a quanto sono interessanti?»
Sbuffai. «Papà, dammi tregua. Sono le sette di sera e sono stanco», mi pentii di averlo detto appena chiusi la bocca dopo l'ultima sillaba.
«Ah, sei stanco.» Mio padre mi fissò e nonostante lui fosse seduto e io in piedi, riuscì comunque a farmi sentire piccolo. «Stanco... E perché, sentiamo?»
Sapevo che non era una risposta quella che cercava ed ero diventato di colpo troppo minuscolo per controbattere.
«Perché hai un lavoro? Perché grazie a me e al mio studio sei l'avvocato più ambito dello stato? Perché ti ho procurato il cliente migliore della tua carriera? Perché puoi entrare e uscire da questo studio quando e come ti pare, anche per pavoneggiarti in università? Dimmi, cosa ti stanca, Alexander?»
«Niente.» Sospiro. «Niente.»
«Ottimo. E spero che la prossima volta avrai qualcosa di meglio di interessante da dirmi. O devo ricordarti cosa accadrebbe se le cose andassero male?»
«No, papà. Lo so benissimo.»
Quando lui uscì, sbattei piano la fronte sulla scrivania.
Riaccesi lo schermo del telefono per eliminare del tutto il messaggio e chiudere la questione.
Fare in modo che Chiara Verri rimanesse offesa con me era la cosa migliore; dopotutto stavo disperatamente cercando di provare che sua nonna facesse uso di sostanze stupefacenti.
Che razza di situazione ridicola.
Aprii la chat e raggelai.
Avevo inviato il messaggio per sbaglio.
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