4 - 🌸Maglioni secchi e uova esplose🌸 (pt.1)
Presente
"Quindi, allora, ricapitoliamo..."
Alzai gli occhi al cielo e sbuffai.
"A chicca, devi capì che guai combini o nun me cresci", mi tirò le orecchie Lucia. Da una settimana a questa parte era l'unica cosa che sembrava riuscire a fare. "T'ho detto de nun mette el sapone nella lavatrice, sì?"
«Sì.»
"E tu c'hai fatto?"
«Ma è diverso...»
"Non è diverso popo pe' gnente, Chià! C'hai fatto?"
«Ho messo il detersivo per piatti nella lavastoviglie.»
"E ch'è successo?"
«Mi si è riempita di schiuma.»
"Quindi amo 'mparato..."
«Che anche se c'è scritto detersivo per piatti, non serve a lavare i piatti!» Sbottai.
Cosa potevo saperne che il detersivo per piatti si usava solo per lavare a mano?
Dopotutto nella lavatrice ci andava il detersivo, la lavastoviglie serviva a lavare i piatti, mi pareva solo logico che il detersivo per piatti andasse in lavastoviglie.
"Guarda Chià che t'appendo. Nun poi continuare a chiamamme pecché fai casino."
«Ho capito, ho capito! Non so palesemente come fare a vivere, grazie, Lucia, per aiutarmi a non dare per sbaglio fuoco alla casa. Va bene?»
"Vabbè. Famo de sì." Sospirò. "Te vojo bene."
«Anche io...»
"Ma sei comunque 'na pazza maniaca. Poi, c'hai combinato?"
«Non ho pulito il filtro dell'aspirapolvere... Potevo immaginare andasse fatto, okay, però non sapevo che mia nonna lo avesse lasciato così sporco!»
"Chià, tu nonna è morta, pace all'anima sua! Come faceva a pulittelo?" Allontanai il telefono dall'orecchio per non restare assordata e con l'altra mano aprii il microonde per ficcarci dentro la mia cena.
Da una settimana a quella parte campavo di fagioli, uova e tonno in scatola. Tutto su consiglio di Lucia, per Evitare de tajarte 'na mano provando a cucinà.
La pasta non me l'aveva ancora concessa; era convinta che mi sarei ustionata.
"E che succede se non pulisci el filtro?" Mi incalzò.
«Esplode il motore e devi spazzare a mano», risposi, lanciando un'occhiata di fuoco alla scopa.
Pulire con quell'affare era l'inferno; davi una ramazzata e metà della sporcizia si spostava, mentre l'altra metà restava dov'era. Per non parlare dello stress che era far salire tutto sulla paletta.
Aggeggio infernale.
"E te sta bene! Sei voluta annà a vive en mezzo ai boschi? Mo t'attacchi."
«Vabbè, vabbè, hai ragione.»
"E qual è l'ultimo danno c'hai fatto?"
«Come fai a dire che ho fatto un danno?»
"Pecché spero che tu non m'abbia svejata alle du de notte senza motivo."
Sussultai mettendomi le mani davanti alla bocca. Il fuso orario.
«Oddio, scusa! Mi sono dimentic-»
"Scherzavo, Chià! Sono le due del pomeriggio. Nun te preoccupà."
Tirai un sospiro di sollievo. Non avevo ancora imparato la differenza di orario, anche perché oltre a Lucia non avevo altri con cui parlare.
"Quidni?"
Mentre il microonde, unico elettrodomestico che non mi aveva mai tradita, faceva il suo lavoro, mi spostai dalla cucina al soggiorno e fissai l'ultimo misfatto.
«Ipoteticamente parlando,» cominciai, «Se tu avessi dei maglioni di cashmere.»
"Che non ho."
«Ma ipoteticamente parlando... Come li laveresti?»
"Se c'avessi dei majoni de cashmere li laverei coll'acqua santa, Chià!"
Ah.
«E-e nel pratico?»
"A mano e con un sapone delicato..." si zittì un secondo, riprendendo poco dopo allarmata. "Chià. C'hai fatto, Chià?"
Osservai i cadaveri dei maglioncini, riversi in uno stato pietoso sullo schienale del vecchio divanetto a fiori.
Li avevo trovati nell'armadio della nonna e, considerato che da quelle parti faceva abbastanza freschino nonostante fosse metà maggio, avevo pensato di lavarli.
Peccato che ora fossero molto piccoli e molto rigidi.
«Li ho lavati il lavatrice...» Deglutii, sussurrando il resto terrorizzata. «A novanta gradi.»
Lucia chiuse la chiamata e qualche secondo dopo mi arrivò un messaggio.
- Te richiamo quando me passa la voja d'ammazzarte.
Sbuffai e mi accasciai sul divano con le mani sul viso, mentre le lacrime minacciavano di uscire.
Avevo fatto un casino.
L'ennesimo.
Non ero in grado di badare a me stessa, non sapevo fare nulla.
Gli altri danni che avevo combinato erano anche passabili, ma quello mi faceva sentire davvero un'idiota: mio sogno era diventare stilista e non ero neppure in grado di lavare tre maglioni.
Cosa mi era saltato in mente?
Uno scoppio molto forte arrivò dalla cucina e mi distolse dalla mia autocommiserazione. Sobbalzai e mi misi in allerta, affondando dietro la testiera del divano.
Cos'era stato?
Forse un ladro?
Per mia fortuna, la cucina e il soggiorno erano un open space a L rovesciata, quindi se qualcuno fosse entrato dal retro non mi avrebbe vista subito.
Attesi qualche secondo, poi qualche minuto, ma nulla si mosse.
Mi alzai in piedi piano e con il passo felpato della pantera rosa raggiunsi l'angolo che si rivolgeva verso la cucina.
Sbirciai.
«E CERTO, ADESSO PURE LE UOVA SODE NEL MICROONDE ESPLODONO!»
A quel punto mi arresi all'esistenza. Quella giornata non s'era da fare e io non avrei tentato oltre di farla funzionare.
In uno scatto di stizza, acciuffai dalla credenza piena di piatti bordati in oro un sacchetto di patatine - comprato l'unica volta disperata in cui ero andata a fare la spesa - spensi la luce e mi diressi sbattendo i piedi al piano di sopra.
La me di oggi aveva chiuso, al resto ci avrebbe pensato la me di domani.
Mi fermai un istante ai piedi delle scale, dove sulla destra si apriva la stanzetta che avevo scelto come laboratorio. Era il vecchio studio di mia nonna e io avevo impiegato meno di mezz'ora a riempirlo con tutte le mie stoffe e i miei strumenti. Per mia immensa fortuna, la macchina da cucire c'era già.
Avevo appuntato il mio ultimo progetto su un manichino fatto di una gruccia e qualche scampolo: nel buio mi sembrava più uno spettro che un abito da sposa. Uno spettro vendicativo, pronto a farmi fuori in nome dei suoi fratelli maglioni.
«Da te torno domani», sibilai.
Ero troppo stanca per mettermi pure a tentare di estorcere un briciolo di creatività dal fondo della mia mente. La consegna era ancora abbastanza lontana da permettermi di procrastinare un po', almeno finché non mi sarei ambientata nella nuova nazione.
Salii al piano di sopra ed entrai nel bagno piccolo - il primo piano ne aveva ben due, ma quello più grande era così immenso che il solo pensiero di sporcarlo mi metteva ansia - lanciai un'occhiataccia alla lavatrice che mi fissava dalla parete opposta e mi cambiai in fretta.
Doccia, pigiama, skincare ed ero sotto le coperte, imbronciata come il Grinch a Natale.
Erano solo le otto di sera.
Fissai il soffitto per un po': in quella casa non c'erano la televisione e nemmeno il WiFi; avevo ancora qualche gigabyte di internet sulla Sim, ma finirli troppo presto avrebbe voluto dire tagliare i ponti con il mondo.
Forse avevo reagito in maniera esagerata. Essere ponderata non era il mio forte. Ma non sarei comunque tornata giù, non in pigiama e non proprio ora che sotto le coperte iniziava ad accumularsi un piacevole tepore.
Sarei rimasta lì a guardare il vuoto e a crogiolarmi nella mia stizza nei confronti dei maglioncini costosi e delle uova che esplodevano in microonde.
***
La mattina seguente mi svegliai nell'udire un trillo sconosciuto.
Riflettei qualche istante su cosa potesse essere e mi girai dall'altra parte. Quel letto era più comodo di quello a Milano.
Si trattava bene, mia nonna.
Di colpo mi venne in mente che sarei dovuta andare a portare dei fiori sulla sua tomba. Quando era viva non avevamo un rapporto molto stretto; era una donna silenziosa e schiva, ci incontravamo solo per le feste di Natale, ma nell'ultimo anno, dopo la morte del suo secondo marito, aveva cominciato a telefonarmi ogni mese.
L'ultima volta era stata tre settimane fa.
Di nuovo quel trillo.
«Ma cos'è?» borbottai alzandomi.
Mi stiracchiai per bene, facendo scoppiettare anche le ossa dei miei antenati e mi diressi verso le scale.
Aperta la porta che dava sul piano inferiore, il suono si ripeté e allora una consapevolezza mi investì.
«Arrivo!» Sbraitai precipitandomi giù per le scale noncurante dei possibili effetti collaterali della gravità.
Il campanello.
Doveva essere quello, anche perché non avevo idea di come suonasse.
Presa dal terrore, quello che mi assaliva quando il corriere suonava alla porta, spalancai la porta.
«Mi scusi, non l'avevo sentita», ansimai, piegata in due.
Non muovevo un dito da dodici anni e avevo la capacità polmonare di un colibrì.
«Non si preoccupi.»
Quella voce mi fece suonare un campanello d'allarme.
Partendo dai piedi, guardai lo sconosciuto sull'uscio.
Era alto e allampanato - il tipo di persona con il metabolismo di una centrale a carbone - indossava un paio di jeans scuri e una camicia bianca con le maniche arrotolate fino al gomito. I muscoli delle braccia suggerivano, fin troppo languidamente, che era un uomo che si teneva allenato.
Aveva un portamento da fare invidia e mani curate, con le vene un poco in rilievo sui dorsi.
E poi arrivai al volto.
«È lei la signorina Ve-» Lui si impallò nello stesso istante in cui i nostri sguardi si incrociarono.
Io gli sbattei la porta in faccia.
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