11 - 🌸Non fare cazzate🌸

"Che vuoi, adesso?"

"Dimmi, Chiara."

"Oh! Chi è?"

"Chi parla?"

"Tu guarda se me tocca parla' inglese... Hello!?"

"Pronto, sì, salve! Qui Camille Tessalonica Bates, chi parla?"

"Ah, l'avvocata? Ma che è?"

"Scusi, ma così non la capisco!"

«Signore, è una chiamata di gruppo! State calme!» sbraitai nella cornetta per evitare che la mia migliore amica sbattesse giù la chiamata e che Camille - che a quanto pareva faceva Tessalonica di secondo nome - avesse un collasso nel sentirsi urlare nelle orecchie in romano.

"Ah! E ti ci voleva tanto a dirlo! Ché siamo rimaste qua come due deficienti a fare pronto e mica pronto!"

«Scusa, Lu, era divertente...»

"Eccome no, stand-up comedy."

«Ce l'hai ancora con me, vero?»

"Secondo te?"

"Scusate, è bello sentir parlare in lingue sconosciute con tanta enfasi, ma potrei partecipare alla conversazione?"

«Hai ragione, Camille, scusaci. Quella che senti è Lucia Sala, la mia commercialista, non so se ricordi...» spiegai.

"Oh, certo! Ci siamo sentite per e-mail." Confermò Camille, un po' meno confusa. "È un piacere sentirti, Lucia."

"Piacere mio." Tagliò corto la mia migliore amica in un inglese ai limiti del maccheronico. Era un livello C2, quasi più bilingue di me, ma avere un accento le piaceva: era il suo segno distintivo. E parlare in dizione non era mai stata la sua specialità. "Chiara, ci spieghi cosa stiamo facendo?"

«Scusate, avevo un dubbio ma non sapevo quale delle due chiamare, così ho chiamato entrambe.»

Lucia tirò un sospiro da fare invidia a una locomotiva a vapore. "Cos'hai fatto questa volta? Oltre distruggere l'aspirapolvere, cuocere un uovo sodo in microonde, rovinare dei maglioni di cashmere e flirtare con l'avvocato di tuo padre, si intende."

All'ultima affermazione mi diedi una manata in fronte. Eccoci.

«Lucia, te lo dico pure in inglese. Non. Ho. Flirtato. Con. Alexander. Mason.»

Camille si strozzò di colpo, iniziando a tossire.

"Ah, non hai detto al tuo avvocato quello che combini, vergognati! Adesso ci penso io..."

«LUCIA!»

Avevo sperato in meno delirio per quella chiamata, ma forse me lo sarei dovuto aspettare.

Lucia sapeva tutto sul giorno dell'intervista e per questo mi giudicava fin troppo.

Quando l'avevo aggiornata sull'accaduto era stata lapidaria: aiutando l'avvocato secondo lei avevo oltrepassato un limite.

Avrei dovuto lasciarlo cuocere nel suo brodo e andarmene, così da chiarire la mia posizione nei suoi confronti ed evitare altri fraintendimenti.

Aveva ragione, lo sapevo, ma iniziavo a credere che forse potesse esserci davvero spazio per un rapporto civile tra me e lui.

Solo accennarlo era bastato a farla esplodere. Era impazzita di colpo, iniziando a parlare di flirt e a sbraitarmi contro di non fare cazzate.

Peccato che nessuno avesse flirtato e lei stesse solo travisando tutto.

Io avevo scoperto che Alexander era una persona e non un robot, e lui - mi auguravo - aveva scoperto che non ero una ragazzina testarda e viziata; fine dei discorsi.

"Ti stai infilando in un gran casino, Chià, solo che ancora non te ne accorgi..." Soffiò la mia migliore amica in italiano, ma decisi di ignorarla.

«Camille, non ascoltarla. Le piace scherzare.»

"Sì, Camille, non ascoltarmi. Sono fatta così. Sono praticamente un giullare. Un buffone di corte. Un clown. Tutte le mattine mi metto un nasone rosso e faccio giocoleria su un monociclo."

La risposta a questa affermazione fu un attimo di silenzio imbarazzato durante il quale sbuffai scuotendo il capo. Testarda come un mulo.

"Bene, credo farò finta di non aver assistito a questo dialogo!" Intervenne Camille a un certo punto. "Torniamo a noi, Chiara. Cosa dovevi chiederci?" Andò dritta al sodo, fingendo sul serio che quello scambio non fosse mai avvenuto.

Probabilmente in quell'esatto momento stava firmando una richiesta di perizia psichiatrica, ma apprezzai che avesse deciso di non indagare.

Ricapitolai mentalmente quale fosse il mio problema del giorno e nel farlo mi alzai dal tavolo della cucina, avvicinandomi al lavello. «Giusto. Quello che volevo chiedervi è: secondo voi...»

"Eccoci!" Sbottò Lucia in italiano, tirando una manata da qualche parte. "Tieniti, Camille, che quando comincia così vuol dire che ha fatto una stronzata colossale."

"Ah, sì? Me lo segno."

«Grazie, Lu, ti voglio bene pure io», borbottai. «Dicevo. Secondo voi...» Aprii e chiusi il rubinetto, ma da quello rimase imperturbabile: era secco, prosciugato fino all'ultima goccia. «Perché non ho più acqua corrente?»

Lucia non si trattenne e partì in italiano. "Gesù, Chià, ma va' a farti un giro a Lourdes, perché qua ce n'è sempre una!"

***

Dopo lo sconcerto iniziale, iniziò una buona mezz'ora di totomorto sul mio impianto idraulico, che coinvolse una serie di cause plausibili. Ma nessuna vincente.

Quando ero sul punto di prendere la macchina e andare a controllare i dintorni del boschetto in cerca di qualsiasi cosa - che fosse la diga di un castoro o un un orso che usava le mie tubature come corda per saltare non m'importava, rivolevo solo la mia acqua - uno strillo e un tonfo sordo arrivarono dal lato della cornetta di Lucia.

"Ho capito!"

«E ti sei lanciata dal balcone per farlo?» scherzai, ma me ne pentii subito.

"Guarda, avrei dovuto", mi silurò lei con il suo tono da Parla ancora e vengo a strozzarti. "Chiara."

«Dimmi...» Iniziavo ad avere paura.

"Chiarina, Chiaretta, Chiaruzza".

«Eh...» Ora avevo molta paura.

"La bolletta."

«Eh...?»

"L'hai pagata?"

Silenzio.

"Ma sì, che l'avrà pagata..."

"No, Camille, fidati. Hai pagato la bolletta, Chiara?"

Deglutii. «Ma... Le bollette non si pagano da sole?»

Lo stesso identico tonfo di prima arrivò anche dal capo della cornetta di Camille.

Ma non si pagavano da sole le bollette?

***

No, non si pagavano da sole.

Pochi minuti di chiamata, il tempo di scoprire il significato di voltura, e tutto mi fu chiaro. Non avevo pagato la bolletta. O meglio, non avevo comunicato il numero del mio conto corrente.

Morale della favola: mi avevano staccato l'utenza, avrei dovuto pagare una mora colossale e dovevo mettermi a cercare la cassetta delle lettere. Perché le mie bollette, aveva concluso Camille, dovevano pur essere state recapitate in qualche modo, solo che non avevo mai controllato.

Fantastico.

La parte divertente era che non sapevo neppure se ci fosse, una cassetta delle lettere.

Avevo notato al mio arrivo l'assenza sia di una scatola rossa su un palo che di un buco nella porta, ma avevo dato per scontato che il postino avrebbe lasciato tutto sull'uscio - come succedeva per i pacchi che mi facevo spedire online.

Evidentemente mi sbagliavo.

Dopo aver salutato Camille e Lucia, le quali mi invitarono caldamente a non richiamare prima di aver trovato la mia posta (Lucia consigliandomi un esorcismo), mi misi a battere metro dopo metro tutto il sentiero che dalla strada principale conduceva al cottage.

Controllai ogni tronco, ogni palo, ogni ramo caduto per sbaglio, infilandomi pure un paio di schegge nelle mani, e senza rendermene conto mi ritrovai a vagare senza meta per la proprietà.

Il bosco intorno al cottage per circa un chilometro di raggio era mio, eppure, riflettei mentre passeggiavo tra le foglie secche e il cinguettio degli uccelli, quella era la prima volta in cui mi mettevo a esplorarlo.

Era strano, perché io adoravo passeggiare nella natura, ma tra trasferimento, avvocati e invasione della stampa, non ero ancora riuscita a ritagliarmi un attimo di quiete.

Tutto era stato una corsa, una gara virtuale tra me e mio padre, tra la mia testardaggine e la sua.

Una guerra fredda che mi sarebbe tanto piaciuto non vivere, ma nella quale mi ero comunque ritrovata.

Bello.

Per uno sciocco istante fantasticai sull'ipotesi di fargli cambiare idea, sul prenderlo per mano e trascinarlo con me in quel luogo pacifico, come facevo da piccola quando lo imploravo di portarmi a fare i picnic in montagna e lui sbuffava, ma accettava sempre.

Ma sapevo che questa volta non avrebbe accettato.

Sandro Verri da dopo il divorzio con mia madre non era più stato lo stesso. E diverso era diventato anche il nostro rapporto.

Da padre e figlia eravamo diventati coinquilini rancorosi, da complici a sconosciuti; e se una volta avevo creduto che il tempo avrebbe risolto tutto, ogni ipotesi di dialogo era andata in frantumi nell'esatto momento in cui aveva deciso di portarmi in causa.

Il papà che conoscevo non c'era più e me n'ero fatta una ragione.

Mi disprezzava tanto da usare il suo avvocato come postino, piuttosto che parlarmi, figuriamoci.

Forse avrei dovuto invitare l'avvocato per il pic nic.

«No.»

Continuai a passeggiare, immersa in ogni tipo di pensiero tranne quello, dimentica di quale fosse il mio vero obiettivo, finché a un certo punto non mi ritrovai a inseguire il flebile scrosciare di un corso d'acqua.

Con la precisione di un rabdomante ubriaco, in cinque minuti netti finii con entrambi i piedi dentro un rigagnolo d'acqua. Le scarpe di stoffa si inzupparono in un battito di ciglia e con loro pure i miei calzini.

Imprecai tanto forte da far volare via un paio di uccelli.

«Che cacchio!» piagnucolai, uscendo dall'acqua. Avevo i piedi freddi e bagnaticci.

Il fiumiciattolo incriminato era largo quanto una mia spanna e scivolava quasi invisibile nel sottobosco, tra radici muschiate, foglie e pietruzze chiare. Non sapevo da dove arrivasse, di sicuro non dai miei servizi idrici, ma immaginai potesse essere stato dirottato da un fiume vicino.

Presa da un moto di stizza, perché tanto ormai ero infangata fino alle caviglie e non potevo nemmeno andare in casa a lavarmi, iniziai a seguire il suo corso - portandomi dietro una serie di effetti sonori degni di un episodio di SpongeBob.

Maledetta posta, dannate bollette e stupidissimi fiumiciattoli. Quella volta che...

I miei pensieri si interruppero e l'irritazione evaporò nell'istante in cui il boschetto si aprì su una minuscola radura.

Ai piedi di una maestosa pianta dalle foglie di un bel verde caldo, con le punte che sfumavano sull'arancione, c'era una panchina in pietra bianca; tutt'intorno, disposto in modo casuale ma senza invadere lo spazio calpestabile, un tappeto fiorito di campanule, mughetti, pervinche e tante altre piccole corolle dai colori tenui.

Mi bloccai, dimenticandomi di colpo delle scarpe bagnate. Era meraviglioso.

Abbagliata dalla visione, mi trascinai in trance sulla panchina. Non feci in tempo a sedermi che una sinfonia di profumi mi avvolse.

Fiori, colori, magia...

Una scintilla di eccitazione febbrile partì dal centro del mio stomaco e guizzò verso l'alto, esplodendo nella mia mente.

L'ispirazione iniziò a sprizzare da ogni poro, senza che riuscissi a trattenerla; con il petto che sfarfallava per l'eccitazione, iniziai a frugarmi nelle tasche in cerca di qualcosa con cui disegnare, ma mi capitò in mano solo il mio cellulare.

Aprii la fotocamera e senza pensarci due volte scattai una foto, mi alzai dalla panchina e scattai di nuovo, poi ancora. Non sapevo quanto quella fioritura sarebbe durata, ma era troppo bella e l'ispirazione troppo fugace per lasciarla andare.

Avrei portato un mazzolino profumato in casa, poi sarei tornata con il mio blocco per gli schizzi e avrei passato la giornata a creare: il pensiero mi esaltava e più mi esaltavo, più la mia mente fioriva e rifioriva in un prato sconfinato di idee.

Ero al settimo cielo.

In automatico, selezionai le foto, premetti condividi e le allegai alla chat con Alexander.

Ci eravamo scambiati qualche messaggio ogni giorno da quella fatidica mattina - se Lucia l'avesse saputo mi avrebbe mandato un missile - e avevo scoperto che parlare del Signore degli Anelli gli piaceva. Non sapevo se amasse il fantasy in generale, ma era pur sempre un inizio. Sarebbe stato carino mostrargli il mio angolo magico di giardino, pensai; magari gli sarebbe piaciuto.

Magari un giorno gliel'avrei fatto vedere.

Digitai la didascalia in fretta.

Non ci vede anche lei degli elfi che ballano sotto la luna?

Feci per inviare, ma le mie sinapsi scelsero di attivarsi in quel momento. Una crepa passò nel mezzo del mio sogno a occhi aperti e lo mandò in frantumi.

Che cacchio stai facendo.

«No no no no no no no.»

Cancellai tutto velocemente e con il cuore in gola, come se sotto le mie dita ci fosse la valigetta con i codici nucleari al posto di un messaggino.

Perché mandare le foto a lui? Cosa gli sarebbe mai importato del mio giardino? E poi mandargli le foto per cosa, perché potesse dire alla corte quanto mio padre sarebbe stato comodo su quella panchina?

L'avvocato era il Nemico con cui mantenere un rapporto civile, non un amico a cui mandare foto di boschetti, diamine!

«Avvocato. Lui avvocato», iniziai a balbettare. «Lui avvocato, io fatti miei. No, Chiara. No danni. Lui avvocato, noi fatti nostri.»

Postai le foto su Instagram, perché da brava nativa digitale dovevo comunque saziare la mia fame di condivisione, e rificcai il cellulare nella tasca della felpa.

Di colpo iniziava a fare troppo caldo; forse era il caso di tornare in casa a cambiarmi.

Sì, meglio ritirarsi, a tutto il resto ci avrei pensato più tardi.

Non fare cazzate.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top