10 - 🌸Interviste e Uruk-hai🌸(pt.1)
Il Signore degli Anelli - Il ritorno del Re, metà pellicola: l'assedio di Minas Tirith.
Quella era casa mia dalle sette e trenta di mattina alle undici di sera da cinque giorni a quella parte. Orde di giornalisti si abbarbicavano urlando sulla porta d'ingresso come orchi nati dal fango si scagliavano contro le mura di cinta dell'Ultimo Baluardo degli uomini; alcuni degli assedianti, con estrema accuratezza storica, avevano persino montato delle tende nel mio giardino.
Un ariete, un paio di Olifanti e la ricostruzione sarebbe stata completa. Peccato solo che l'Oscuro Signore dei miei nemici non fosse un grosso e inquietante occhio di fuoco sulla cima di una torre, ma un uomo ultrasessantenne mezzo pelato di nome Sandro Verri.
I primi giorni erano stati una crisi di panico dietro l'altra, inframmezzata da qualche insulto tirato al vento e molta rabbia sfogata sui cuscini del soggiorno. Questo fino a che non ero stata costretta ad accettare un'intervista per una grossa rivista di gossip italiana.
Mi ero rifiutata di capirci più del necessario, ma a quanto pareva la storia del dramma padre-figlia stava piacendo tantissimo in patria e Camille mi aveva avvisata che se non mi fossi esposta non avrei avuto pace fino all'inizio del processo.
Mi allontanai dalla finestra e mi sedetti sul divano riavvicinandomi il cellulare all'orecchio. «Scusami, Camille, dicevi?»
Camille interruppe il rumore bianco che era diventata la sua voce negli ultimi cinque minuti e sbuffò. "Dove ti ho persa?"
Forse era merito dei soldi che le avevo dato, ma questa donna nell'ultimo periodo era la pazienza fatta persona.
«A cosa non devo dire? Credo.»
Un sassetto arrivò contro la finestra del soggiorno.
«Comunque io faccio una strage, ti avviso», ringhiai.
"Ancora i paparazzi?"
«Posso investirli con l'auto?»
"No, non puoi. Stai calma. Mi sto occupando io di loro."
«Non ne posso più!» Sbraitai stringendo i pugni.
"Ma sei sicura di sentirtela martedì?"
«E lasciare che quello là continui a farmi passare per la ricca stupidina e Il ritorno dei morti viventi qui fuori continui a tenermi casa sotto assedio? Sì, me la sento.» Ero in ansia e molto preoccupata per quell'intervista, certo, ma la barra della rabbia restava comunque molto più alta.
"Okay, bene. Però adesso ascoltami o non ne usciamo."
«Sì, aspetta un secondo», misi la chiamata in vivavoce e aprii il blocco note del cellulare. «Vai.»
"Non menzionare mai direttamente la causa;
Di tua nonna parla solo di quando eri bambina;
Sul vostro rapporto attuale, se te lo chiedono, racconta solo dei Natali insieme - possibilmente mostrandoti molto affettuosa nei suoi confronti;
Di tuo padre di' quello che ti pare ma senza rabbia o rancore, o rischi di passare per quella che non si sa controllare;
Non fare il mio nome, perché non ho ancora avuto modo di presentarmi all'accusa e sarebbe poco professionale;
E soprattutto punta tanto sulla tua indipendenza e sull'ideale di voler essere sempre te stessa - i giovani impazziscono per queste cose."
Sputò fuori tutto insieme, come se stesse elencando gli effetti collaterali di un medicinale in una pubblicità.
"Ci sei?"
No, ma mi ero fatta fumare le dita delle mani apposta per segnarmi tutto. «Sì.»
"Dobbiamo smontare l'idea di te che ha creato tuo padre."
Sbattei le palpebre un paio di volte per riprendermi. «Certo che ne sai di cose sull'immagine per essere un avvocato.» Ora capivo dove fossero finiti tutti i soldi che avevo speso per assumerla.
"Quando sei famoso e diventi vulnerabile, la gogna pubblica è la prima cosa a infierire. In un processo, mantenere l'immagine sotto controllo è tutto, quantomeno per potersi garantire una credibilità e per non ritrovarti la gente che ti sputa addosso in strada - fidati che è successo. La tua fortuna è che vivi oltreoceano e in generale non sei mai stata troppo sotto i riflettori."
Vista la quantità di post sul mio conto che Lucia mi mandava giornalmente, avrei avuto qualcosa da ridire su quell'ultima affermazione, ma in effetti i tempi in cui la stampa mi perseguitava quotidianamente risalivano solo a quando stavo con il mio ex; e anche all'epoca era lui quello famoso dei due.
«Ma tu lo sai che non sono un'attrice e che quando mi arrabbio, mi arrabbio, vero?» Mi sembrava tutto estremamente complesso e manipolatorio, qualcosa che non faceva per me nella maniera più assoluta.
"Puoi essere te stessa, devi solo farlo in modo controllato. Sii mesta, non affranta; delusa, non oltraggiata; comprensiva, non arrendevole; determinata, non arrogante."
«E come no...» Sospirai. «Sicura che proprio non puoi esserci?»
Non sarei mai riuscita a contenermi, lo sapevo ancor prima di iniziare. Ero il tipo di persona che da un giorno all'altro scappava negli Stati Uniti, non quella che si portava i fazzolettini in tasca per asciugare una lacrima falsa dall'angolo dell'occhio.
"Mi spiace, ma ho bisogno di andare a recuperare il mio segretario; non è un caso che burocraticamente posso gestire da sola."
Il suo tono mi parve davvero dispiaciuto, ma, dopo gli ultimi discorsi sul come infinocchiare l'opinione pubblica, una vocina nella testa aveva iniziato a dirmi che forse mi stavo sciogliendo un po' troppo anche nei confronti di questa donna.
Dopotutto, non mi aveva ancora detto quali fossero le sue fantomatiche questioni in sospeso con lo studio legale Mason.
"E poi hai bisogno di qualcuno che ti aiuti ad aprire un'assicurazione sanitaria, prima che ti rompa qualcosa sul serio. Ora scappo. In bocca al lupo per l'intervista! Per qualsiasi cosa, chiamami."
La salutai portandomi dietro lo strascico dell'ultima frecciatina che mi aveva mandato.
Bullizzata dalla mia stessa avvocata.
D'istinto aprii l'app di messaggistica e la chat con l'avvocato Mason era la prima della lista - con la gente normale comunicavo tramite Whatsapp.
Fissai per la centesima volta il messaggio che mi aveva inviato.
"Buongiorno, signorina Verri, sono Alexander Mason. Mi spiace usare il suo numero privato per questo, so che non ho ricevuto il suo permesso per farne uso e basterà una sua parola per farmelo rimuovere, ma desidero scusarmi per quanto accaduto in mattinata. Sono stato scortese e cieco di fronte alle sue legittime remore. Non era mia intenzione minacciarla, ricattarla o trattarla con scortesia. Farò quanto in mio potere per evitare in ogni caso che il suo indirizzo privato venga condiviso con la stampa."
Non gli avevo risposto; sul momento perché ero arrabbiata ed ero ancora convinta che volesse manipolarmi; poi perché non avevo idea di quale fosse la cosa più giusta da dire; e, infine, perché a casa mia la stampa si era presentata comunque.
Da quel fatidico pomeriggio avevo cercato di rimettere insieme i pezzi del suo comportamento, ma ero arrivata in fretta alla conclusione che la mia vita era già abbastanza incasinata per mettermi a rimuginare anche su questo.
D'ora in poi a lui ci avrebbe pensato Camille e non sarebbe più stato un mio problema.
***
Il giorno dell'intervista arrivò in un batter d'occhio e quella mattina mi infilai in macchina prima del sorgere del sole solo per evitare i paparazzi; l'incontro era alle undici, ma piuttosto che affrontare di petto gli uruk-hai preferivo di gran lunga vagare per quattro ore in città.
Quatta, provai a mettere in moto e scappare in fretta, ma l'unica reazione che ottenni dal motore fu un borbottio malaticcio che, ascoltando bene, aveva un che di simile a una pernacchia.
Provai altre due, tre volte e tanto bastò per risvegliare l'esercito fuori casa, che mi fu attaccato alle portiere in un battito di ciglia. Imprecai mentre venivo accecata dai flash delle macchine fotografiche.
«Razza di sanguisughe! Levatevi dalle p-» L'auto si avviò. Con ancora la rabbia in corpo, li guardai uno per uno negli occhi e feci rombare il motore: i flash cessarono; i paparazzi saltarono indietro; io volai via.
Di colpo capivo perché mio padre si muovesse sempre con almeno due guardie del corpo.
Abbassai i finestrini per godermi l'aria fresca del mattino. Giugno era arrivato e grazie ai miei amici, io non me n'ero neppure resa conto.
L'alba era chiara e serena, e la luce tenue del sole colorava l'orizzonte di giallo e di celeste. Il viale alberato sfrecciava fuori dai finestrini a una velocità vertiginosa, sfumando il cielo di un verde delicato.
L'atmosfera era pacifica, l'auto mi cullava come sempre con le sue vibrazioni, eppure non riuscivo a rilassarmi.
Più avanzavo lungo la strada verso Minneapolis, meno il mio stomaco sembrava d'accordo con il partecipare a quell'intervista: mi stavo consumando dalla paura, ma non avevo nessuno con cui sfogarmi.
C'era Lucia, ma non volevo disturbarla ancora con i miei problemi. In quella settimana l'avevo chiamata tutti i giorni per lamentarmi dei paparazzi ed era stata fin troppo paziente: non volevo farmi mandare al diavolo proprio oggi. L'avrei lasciata dormire in pace - là era mezzanotte passata - e ci saremmo sentite in serata.
Arrivai a Minneapolis alle otto del mattino e rimasi cinquanta minuti imbottigliata nel traffico prima di riuscire a parcheggiare in un anfratto dimenticato dal mondo, che comunque mi costò due dollari l'ora.
Il tempo restante lo trascorsi vagando senza meta come un'anima del Purgatorio.
Il paesaggio di quella parte di città era moderno, freddo e grigio; gli alti grattacieli impedivano ai pochi raggi di sole di filtrare fino a terra e le grandi vetrate che riuscivano a rifletterli erano fastidiose da guardare.
Ogni tanto, lungo i bordi della strada facevano capolino una fila di piante castigate e qualche parco con le panchine in ferro e il pavimento di mattonelle, ma nulla che ai miei occhi sembrasse vagamente accogliente.
Ero circondata da banche e uffici, cosa che mi fece supporre di trovarmi in un quartiere finanziario. Impiegai un'ora buona a cercare un locale in cui fare colazione, ma quando lo trovai e frugai nella borsa per cercare il portafogli, mi resi conto di averlo lasciato a casa.
Ovviamente.
***
Poco meno di tre ore dopo fissavo le auto che sfrecciavano in strada seduta su una panchina e con lo stomaco che brontolava.
Dovevo avere un'aria stravolta, perché una vecchina provò a farmi la carità; poi si accorse del maglioncino in cashmere firmato, l'unico che ero riuscita a salvare, e tirò dritto.
All'orario prestabilito, mi trascinai lungo la strada fino al settimo piano di un edificio che sembrava, senza esagerare, un grosso cubo di Rubik grigio e capitai davanti alla porta di uno studio fotografico. Rabbrividii.
L'accordo che avevo firmato non parlava di foto. Non avrei lasciato che la mia faccia attuale finisse su tutte le riviste di gossip italiano; avrebbero dovuto legarmi a una sedia, prima.
La ragazza che mi accolse all'ingresso era un cespuglio di ricci bruni con una camicetta gialla e un grosso sorriso, ma in quel momento ero troppo stanca e a disagio per ricambiare il suo entusiasmo.
Lo studio fotografico era un appartamento con le pareti bianche rivestite di scatti: decine e decine di volti mi guardavano con il sorriso, come per forzarmi a tirare fuori una gioia che in quel momento non apparteneva alla mia rosa di emozioni.
La ragazza mi fece accomodare su un divanetto blu a strisce gialle piazzato di fianco a una porta chiusa, chiedendomi di attendere che l'ospite prima di me terminasse la sua intervista.
Il loro studio, mi spiegò con slancio senza che avessi bisogno di chiederglielo, aveva accettato una collaborazione con la rivista da cui sarei stata intervistata e in quei giorni era tutto un eccitante via vai di volti nuovi.
Avendo bene in mente la mandria di gente che affollava il mio giardino, il suo racconto non mi seppe per nulla di eccitante, ma non commentai. Almeno ero salva dal servizio fotografico.
Iniziai a guardarmi intorno e di colpo notai, nascosta in un angolo, una macchinetta del caffè. Il mio stomaco brontolò e iniziai a pentirmi di non essere stata abbastanza convincente come senzatetto per la vecchietta in strada. La ragazza dovette accorgersi del mio sguardo perché cinque minuti dopo mi allungò un bicchierino di plastica con aria impietosita.
Scolai il caffè in una volta sola, ma non feci in tempo a ingoiarlo che quello mi volò fuori dalla bocca.
La porta della stanza delle interviste si era aperta e, tra tutte le maledette persone possibili, ne era uscito Alexander Mason.
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