6 - BOSTON -
- Capitolo sei -
Boston
Non ho detto ai miei genitori che quel pomeriggio, dopo la scuola, sarei andata a Boston. Non dopo gli avvenimenti di ieri.
Mia madre era apprensiva, mi guardava come se da un momento all'altro potessi avere una crisi e cadere in uno stato di trance profondo. Mio padre, invece, sembrava più calmo. Forse vedermi lì, sorridente e apparentemente più serena e riposata lo aveva in parte tranquillizzato. Era già in divisa quando sono uscita di casa, oggi lavorerà tutto il giorno fino a sera e anche mia madre sarà di turno in ospedale.
Mamma ha insistito per accompagnarmi a scuola. Major questa mattina non è riuscito a passare a prendermi: doveva essere prima a scuola per parlare con la sua tutor per le domande del college.
Il college. Non ci ho ancora veramente pensato, onestamente. Non sono sicura del mio futuro, del lavoro che vorrei fare. Non amo particolarmente la matematica e le materie scientifiche, dunque tutte le facoltà in cui queste vanno applicate, le escludo a priori. Per un periodo, ho pensato di potermi interessare all'educazione dei bambini, magari studiare per diventare maestra. Ma ho un carattere a volte esageratamente forte e impulsivo per fare questo mestiere.
L'unica idea che mi è spesso balenata in mente, è il lavoro di mio padre. Diventare un'agente di polizia mi si addice. Mi piace investigare, mi è sempre piaciuto, fin da piccola. Non so quanti libri di Poirot ho letto da ragazzina, quante partite a Cluedo ho vinto e quanti documentari di true crime mi sono vista prima di andare a letto.
E poi sono atletica. Mio padre, sin da piccola, ha insistito perché facessi molto sport: nuoto, corsa, judo, boxe e jiu-jitsu. Sì, mio padre ed io spesso ci alleniamo insieme, soprattutto nel combattimento. Mi è sempre stato insegnato che le arti marziali ti formano dandoti uno scopo, una giusta via di pensiero e disciplina. E poi, da buon papà poliziotto, insegnare sua figlia a difendersi è una delle sue missioni. Mi ha insegnato un po' anche ad utilizzare le armi, sia da taglio che da fuoco. Non che io sia diventata una specie di Rambo, però diciamo che so dove colpire un uomo per ferirlo o come disarmarlo per difendermi se venissi minacciata con un coltello.
Per le armi da fuoco... beh, diciamo che papà è un americano un po' all'antica. Mi ha portata al poligono la prima volta quando avevo tredici anni. Mia mamma non gli ha rivolto la parola per una settimana dopo averlo scoperto. Da allora, ogni tanto andiamo insieme al poligono ad allenarci. Non ho mai sparato a nulla se non a un bersaglio, però almeno so farlo. Sparare a una persona o a un animale è tutta un'altra storia.
Major, a differenza mia, ha tutto ben chiaro e calcolato: andrà in un'università importante, lui spera Harvard, e studierà legge per diventare avvocato come suo padre. Dopodiché, vuole fare un po' di soldi e comprare una casa. Un po' di tempo fa ha parlato anche di convivenza e la cosa mi ha spiazzata e un po' spaventata. Lui ha le idee così chiare, è così sicuro di sé e di quello che vuole. Io invece al momento non so nemmeno dove girarmi, mi sento incompleta, piena di vuoti da colmare e di dubbi da chiarire. La convivenza al momento, è l'ultimo dei miei problemi.
A scuola la giornata procede normalmente. Il tempo scorre tranquillo e nessuna foglia di quercia fa capolino nel mio armadietto. Major ed io pranziamo insieme e vado a vedere il suo allenamento di pallavolo nella mia ora buca.
Mia madre quando riesce mi invia dei messaggi per chiedermi se sto bene. La mia trance di ieri l'ha scossa e la sua apprensione ne è la prova. E' sempre stata una mamma ansiosa, ma oggi, la sua ansia è molto sopra la media rispetto al solito. Le rispondo sempre subito, per evitare di farla preoccupare. Nell'ultimo messaggio che mi scrive mi avvisa che tornerà a casa per le otto e che se voglio posso ordinare una pizza per cena. Accetto la sua offerta e dopo avermi chiesto, per la millesima volta quella mattina, come sto, non mi scrive più perché deve andare in sala operatoria.
In tutte quelle conversazioni, non faccio nessun riferimento al blog che ho trovato. Ho deciso di capirci qualcosa da sola prima. E poi non voglio che sappiano, né lei né papà, che oggi dopo scuola vado a Boston con l'autobus delle 14.10. Avessi avuto la macchina, probabilmente avrei preso quella. Ma i miei mi hanno categoricamente vietato di guidare e mio padre mi ha confiscato le chiavi. Così ho optato per l'autobus.
Finita l'ultima lezione, mi precipito nel parcheggio della scuola, verso le fermate del bus. Sono fortunata, perché gli autobus per Boston sono molto frequenti qui vicino a scuola. Ci sono molti professori e alcuni studenti che vengono da Boston e fanno i pendolari ogni giorno. Immagino sia una vita stancante, io non so se riuscirei a vivere così.
Mi siedo sulla panca, insieme ad altre ragazze e aspetto.
<< Nev! >> sento una voce chiamarmi alle spalle.
Mi volto e vedo Donna insieme a Sally. Donna è una delle mie migliori amiche, anche se non ci vediamo spesso perché va al college. Sua sorella Kathy frequenta molti corsi con mio fratello e quindi nell'ultimo periodo abbiamo avuto la possibilità di frequentarci maggiormente.
Donna e Sally mi si avvicinano e non posso fare a meno di sorridere a entrambe. Donna è una ragazza molto gentile e frizzante, forse una delle persone più divertenti che io conosca.
Mi alzo e le abbraccio. Sono le mie uniche vere amiche da quando ho iniziato il liceo. Quando Donna se n'è andata per il college a inizio anno, Sally ed io ci siamo sentite un po' perse senza di lei all'inizio, ma la vediamo spesso. Anche lei vive a Boston e frequenta lì il college. Torna a casa almeno due volte a settimana per stare con la sua famiglia e quando ha tempo esce con noi.
Donna si scosta una ciocca di capelli biondi dal viso e mi sorride mostrandomi la dentatura perfetta.
<< Ehi! Non pensavo fossi venuta a prendere Kathy. Non sapevo nemmeno fossi a Chelsea, in realtà >> le dico incrociando le braccia al petto, colta da una folata di aria fredda.
Donna non si scompone e mi domando fra me come possa non avere freddo con solo un leggero maglioncino addosso.
<< Mio padre ha avuto un imprevisto sul lavoro, così sono venuta io. Pensavo che avremmo potuto andare a prendere un caffè tutte e tre insieme >> mi dice, indicando me e Sally.
<< Sì. E poi io oggi non ho il turno in piscina. Mi sostituisce un ragazzo del terzo anno che si è offerto volontario come aiuto per crediti extra. Non ha idea della noia che l'aspetta >> risponde Sally ridacchiando.
Io sorrido guardandole. Le mie amiche. Non potrebbero essere più diverse: Donna è sicura di sé, vivace, piena di energia e di voglia di vivere; Sally è logorroica, ti sfinisce coi suoi discorsi senza fine, grande amante di libri rosa e di serie tv, è un po' impacciata e goffa ma è anche dolce e sensibile e sempre col sorriso sulle labbra. Voglio un gran bene ad entrambe e in altre circostanze, avrei sicuramente accettato l'invito. Ma le mie domande hanno bisogno di risposte, la mia curiosità deve essere colmata almeno da qualche informazione.
<< Io in realtà dovrei andare a Boston >> rispondo, cercando di scusarmi con lo sguardo. Sally fa spallucce e non pone altre domande, promettendo di posticipare il nostro caffè ad un altro giorno. Ma Donna invece...
Ha uno sguardo interessato ma allo stesso tempo cauto, il suo corpo sembra quasi essersi irrigidito. Ma quella sensazione dura solo un secondo e subito dopo mi sorride allegra.
<< A Boston? Come mai? >> mi chiede incuriosita.
<< Stiamo facendo una ricerca sulle origini della nostra famiglia per un progetto di storia. Io non ne so molto sulla mia famiglia biologica, ma ho trovato una persona a Boston che a quanto pare conosce delle leggende legate ai Whiteoak o cose simili. Da qualche parte dovrò pur cominciare, no? >>
Nei profondi occhi azzurri di Donna, mi sembra quasi di vedere una scintilla. Le sue labbra compongono una specie di O, come se fosse colpita o colta di sorpresa. Sally invece sorride raggiante, sembra più elettrizzata di me.
<< Hai trovato qualcuno della tua famiglia biologica a Boston? >> mi chiede lei avvicinandosi a me, tutta denti e gengive.
Faccio per risponderle, ma il mio sguardo cade sull'altra mia amica, improvvisamente seria e non più con quella scintilla di elettricità che le riempie lo sguardo. E' come se non si aspettasse la mia risposta, come se fosse insospettita e le desse fastidio la mia piccola gita.
Scuoto la testa e mi stringo ancora di più nella giacca di pelle. Il freddo è quasi insopportabile per essere solo inizio autunno.
<< No, solo delle persone che potrebbero fornirmi alcune informazioni. Anche se non so quanto queste possano essere attendibili >> rispondo a Sally. Donna continua ancora a fissarmi seria, senza dire nulla.
Un rumore di ruote che corrono sull'asfalto cattura la mia attenzione. Sta arrivando l'autobus. Mi alzo e mi metto lo zaino in spalla, altre due ragazze sedute sulla panchina insieme a me fanno lo stesso.
L'autobus accosta e aspettiamo ordinatamente che la gente scenda prima di salire. Mi avvicino, le mie due amiche mi seguono per accompagnarmi. Sorrido salutandole e faccio per salire, ma Donna mi afferra un polso, fermandomi.
<< Vuoi che ti accompagni? >> più che una domanda, la sua sembra quasi una supplica.
Aggrotto le sopracciglia e la guardo. Ma perché si comporta così? Perché ultimamente tutti sembrano preoccupati per me o vogliono starmi sempre incollati per controllarmi?
Scuoto la testa e muovo leggermente il braccio per divincolarmi dalla sua presa. Lei mi lascia.
Noto che anche Sally la sta guardando un po' confusa. Bene, almeno non sono l'unica che ha notato il suo strano comportamento.
<< No, tranquilla >> le rispondo << sei appena arrivata e poi tua sorella ti aspetta >> le dico.
Lei continua a mantenere quello strano sguardo su di me.
Sally invece sospira e sorride allegra.
<< Che ne dite se ci vediamo domani sera? Andiamo a mangiare qualcosa, magari cinese. Così possiamo fare gossip e stare un po' insieme >> propone, dando una spallata amichevole a Donna.
Lei si volta verso Sally e quello sguardo guardingo svanisce in un lampo. Sembra rilassarsi e un sorriso smagliante appare sul suo volto.
<< Certo, va benissimo. Così Nevena ci racconterà cosa ha scoperto sulla sua famiglia >> mi risponde lei, in tono quasi speranzoso.
Io annuisco, anche se non molto convinta dell'ultima parte.
Le mie amiche mi salutano, raccomandandomi di fare attenzione. Le tranquillizzo e salgo sull'autobus. Cerco un posto verso il fondo e mi siedo accanto al finestrino.
Le saluto un'ultima volta mentre l'autobus si accende e parte piano.
Istintivamente guardo indietro dal finestrino: Sally sta parlando con un ragazzo che non conosco, mentre Donna continua a seguirmi con lo sguardo. La vedo tirare fuori dalla tasca dei jeans il cellulare e portarselo all'orecchio.
Ho come la sensazione che stia avvisando qualcuno di quello che sto facendo. Ma forse sono semplicemente paranoica.
Chelsea mi passa tutta davanti agli occhi nel tragitto di mezz'ora verso Boston. E' così familiare questa città ormai. La sento proprio casa mia.
Ho sempre avuto difficoltà a definire un posto come "casa" prima che ci trasferissimo qua. La mia famiglia ed io non abbiamo sempre vissuto in questo posto. Appena arrivata in America, ricordo molto vagamente di aver vissuto a Los Angeles e a San Francisco. Quando ho compiuto sette anni ci siamo trasferiti a Chelsea e da qui non ce ne siamo mai più andati.
La strada si stende davanti a noi mentre viaggiamo verso Boston. Appoggio il capo alla testiera del sedile e la mia mente si perde nelle assurde situazioni che ho vissuto in questi due giorni.
D'istinto, mi viene da pensare a Donna. Al suo comportamento strano, incomprensibile. Mi è quasi sembrato che non volesse che venissi a Boston. O meglio, che non ci venissi per cercare delle informazioni sulla mia vera famiglia.
Che assurdità. Sono la prima a pensare che quello che ho letto su quel blog siano delle gigantesche fantasie, ma è pur sempre qualcosa. E poi, viste le cose successe ieri, il sogno e i ricordi improvvisi, non mi sento in grado di poter essere selettiva e di non seguire ogni pista. Questo non significa che io creda alle streghe, ai vampiri e alle forze del male, però vedendo come sta andando la mia vita...
E poi sarebbe interessante una ricerca sulle leggende legate alla mia famiglia. Di sicuro il professor Sherman si divertirebbe.
Inizio a scorgere i palazzi e i grattacieli della città di Boston non molto lontani. L'autobus rallenta la velocità quando entra nel centro abitato. Indosso la giacca di pelle e mi poso lo zaino sulle ginocchia mentre l'autobus si ferma alla stazione.
Scendo e recupero il telefono dalla tasca dei pantaloni per cercare la via del negozio su Google maps.
Fortunatamente per me è distante circa dieci minuti da dove mi trovo. Così mi incammino stringendomi nel giubbotto nell'inutile tentativo di scaldarmi. Le vie che percorro sono stranamente silenziose per essere quasi le tre del pomeriggio.
Attraverso una piazzetta dove, seduti ad un tavolino esterno di un bar, un gruppo di signori anziani sta giocando a scacchi. Quando gli passo davanti alzano gli occhi su di me, ma poi tornano subito alla loro partita. Continuo a seguire le indicazioni datemi dal telefono e mi faccio largo in mezzo a stradine secondarie e vicoletti per circa dieci minuti, finché non giungo in una via alquanto bizzarra.
Se fino a poco prima i palazzi del quartiere in cui mi trovo sembravano freschi di cantiere edile, quelli della strada in cui è situato "L'emporio di maga Eris" sono vecchi, usurati dal tempo e dalle mille vite che li hanno abitati. L'entrata del negozio si trova al pianterreno di un vecchio palazzo in pietra scura, con del muschio che ricopre alcune parti delle sue pareti.
L'insegna è nera con il nome del negozio in argento. Mi avvicino alla vetrina colma di libri e oggetti di cui non conosco l'utilità. Sono esposti vari tomi, alcuni nuovi, altri dall'aspetto vissuto e polveroso. Un calice molto elaborato in argento e vetro rosso è poggiato sopra un libro con un titolo in latino. Vi sono poi vari amuleti, collane e anelli, cristalli, mazzi di tarocchi, fasci di erbe e statuette raffiguranti creature fantastiche e animali.
Scuoto la testa, ricordando a me stessa del motivo per cui sono venuta fin qui. E così mi faccio forza, prendo un bel respiro, poso una mano sulla maniglia in acciaio della porta di ingresso ed entro
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