10 - JONATHAN -

- Capitolo dieci -

Jonathan


<< Jonathan >>

Quella parola mi esce di getto, senza pensarci. Jonathan è davanti a me, immobile, senza parole. Forse non si aspettava conoscessi il suo nome e il suo aspetto. Noto solo ora che ai suoi piedi ha un grande borsone. E' in viaggio forse?

Cerco di riprendermi e tornare lucida.

<< Posso aiutarla? >> domando.

So che è imbarazzante e alquanto strano passare dal pronunciare il suo nome a dargli del lei. Però non so in che altro modo gestire la cosa.

Anche lui sembra ritornare alla realtà, anche se quel luccichio negli occhi gli rimane. Scuote la testa e mi sorride gentile.

<< Ciao >> la sua voce è la stessa che ho sentito nella visione. Cerco di trattenere le mie emozioni e di non fargli notare che mi sto agitando. Stringo forte lo stipite della porta, quasi per sorreggermi mentre lui continua a parlare << sto cercando Michael Felton >> dice semplicemente.

Annuisco.

<< Sì lui è... >> mi fermo all'improvviso e i miei occhi si specchiano perfettamente nei suoi. Lo percepisce che so chi è, riconoscerei quell'espressione di consapevolezza ad occhi chiusi. E' identica alla mia.

<< Lui è mio padre >> sussurro.

Le sue labbra hanno un guizzo e potrei giurare che i suoi occhi si stiano riempiendo di lacrime a quelle parole. Qualcosa nel mio petto si incrina in quel momento, ma cerco di non darlo a vedere. Mi scosto un po' dalla porta per lasciare un passaggio libero.

<< Lui sta per tornare da lavoro. Entra >> lo invito sorridendogli imbarazzata << aspettalo dentro >>.

Lui ricambia il mio sorriso. Si china a raccogliere il borsone ed entra in casa, ringraziandomi.

Mi chiudo la porta alle spalle e gli faccio strada verso la cucina.

<< Dammi pure il borsone >> gli dico avvicinandomi a lui e posando una mano sul manico della sacca << te lo poso in entrata >>.

Lui mi ringrazia e me la porge. Ci rimango un attimo quando abbandona il peso del suo bagaglio e lo ripone tutto nelle mie mani. E' estremamente pesante, anche se lui non sembrava mostrare alcuno sforzo a portarselo dietro.

<< Vuoi darmi anche la giacca? >> domando cortese, cercando di non dar a vedere lo sforzo che mi richiede tenere su quel peso.

<< Grazie >> mi risponde sfilandosela e porgendomela.

Gli sorrido e vado a lasciare le sue cose nel corridoio vicino alla porta di ingresso. Poso, con sollievo, il suo bagaglio a terra e appendo il suo giubbotto all'attaccapanni. Quando torno in cucina lo trovo seduto in silenzio. Sta guardando il mio zaino con un'espressione incuriosita. Mi accorgo che la cerniera è in parte aperta e quando vedo che allunga la mano per vedere il libro che spunta, mi catapulto in cucina.

Lui abbassa la mano e mi sorride. Ricambio il sorriso. Il silenzio nella stanza è glaciale, non si sente volare una mosca. Ma d'altro canto, cosa potevo aspettarmi? Che mi sarei trovata a mio agio come se lo conoscessi da sempre?

Mi metto dall'altro lato del bancone rispetto a dove è seduto lui e recupero velocemente lo zaino per chiuderlo e posarlo a terra.

<< Allora >> dico, cercando di dare inizio ad una conversazione << tu e mio padre siete amici? >> chiedo.

Lui annuisce e mi sorride. Fa strano fargli questa domanda, ma in realtà sono curiosa di sapere. Perché è qui? Come fa a conoscere il nome di mio padre e il nostro indirizzo?

<< Sì, ci conosciamo da molti anni >> mi risponde lui.

Dunque si conoscono. Mio padre conosce il mio padre biologico. Non mi aspettavo questa rivelazione.

<< E come vi siete conosciuti? >> chiedo, cercando di sondare il terreno. Voglio più risposte, sapere perché si conoscono e che rapporti hanno avuto o hanno ancora oggi mio padre e l'altro mio padre, quello seduto di fronte a me.

Ora che ce l'ho davanti e posso vederlo in carne ed ossa, non ho più dubbi. Ci assomigliamo molto. Le espressioni, la forma degli occhi, i lineamenti definiti, lo stesso modo di osservare le cose. L'unica differenza sono il colore degli occhi e i capelli. Immagino che questi ultimi li avrò presi da mia madre.

Lo sguardo di Jonathan è interessato, attento. Lo sento che mi percorre ogni centimetro e studia ogni mio dettaglio. Lo lascio fare. In fondo, penso sia più che normale che sia tanto interessato a me.

Anche se sento che pure lui ha capito che so chi è, non ne facciamo parola. L'argomento rimane sospeso tra di noi, non lo tiriamo mai in ballo. E' un tacito accordo sul fatto che non è né il momento né il luogo per affrontare la questione.

Jonathan sospira e si raddrizza con la schiena. Lo osservo. Credo abbia quasi l'età di mio padre, una quarantina abbondante. Per essere un uomo maturo, il suo fisico sembra quello di uno decisamente più giovane. Il maglione grigio gli aderisce perfettamente al corpo. Ha le spalle larghe, il torso possente e le braccia sembrano quasi stritolate nelle maniche che le avvolgono. Presumo sia un appassionato di fitness.

<< Ci siamo conosciuti al college. E siamo amici da allora. Volevo venire a vedere come se la stava passando >> mi risponde.

Sollevo le sopracciglia, sorpresa dalla sua risposta. Andavano al college insieme, allora. Cerco di elaborare l'informazione. I miei due padri sono amici fin da giovani. Chissà quante avventure, risate e momenti speciali hanno condiviso insieme. E ora eccolo qui, Jonathan, dopo chissà quanto tempo, a ritrovarsi con il suo vecchio amico dell'università.

Mi domando come fossero a vent'anni. Quali ambizioni avessero, quali fossero i loro passatempi. Uscivano insieme ogni sera? Erano della stessa confraternita? Frequentavano lo stesso corso di laurea? Mi rendo conto di avere così tante domande da fare ad entrambi, ma al momento me le tengo per me.

Gli sorrido e lui ricambia. Ha un'espressione dolce e commossa al tempo stesso. Chissà cosa prova nell'avermi di fronte. Da quanto tempo non mi vede? Da quando avevo quattro anni? O prima ancora? Non oso immaginare cosa voglia dire non stare con la propria figlia per tutto quel tempo. Non sapere che aspetto ha, se ti assomiglia, quali sono le sue passioni o la materia di scuola preferita.

Anche io mi pongo tante domande, la prima fra tutte perché mi ha abbandonata? Perché non mi ha tenuta con sé? Che cosa è successo per prendere una tale decisione? E dov'è mia madre?

Vorrei sputarle fuori tutte insieme, una di fila all'altra. Sono troppo curiosa e affamata di risposte, ma non me la sento di rompere quel sottile accordo invisibile fra di noi. Non adesso. Non prima di averne parlato con mamma e papà. Mi devono delle risposte. Non sarò più paziente, non posso aspettare altri giorni.

<< Tuo fratello è in casa? >> la domanda di Jonathan mi scrolla via dai miei pensieri.

<< Sai che ho un fratello? >> gli domando curiosa.

Lui annuisce sorridendo appena e posando le mani aperte sull'isola della cucina.

Ha delle mani molto grandi, con le vene in rilievo. Noto che porta un anello all'anulare destro. E' grosso e dettagliato. Mi sembra essere fatto d'argento, con inciso sopra il disegno di una quercia.

La quercia bianca.

Whiteoak. Il simbolo di famiglia.

Deve aver notato che sto fissando il suo anello, perché anche il suo sguardo ricade sulla sua mano. Lentamente se la rimette sulle ginocchia, nascondendola alla mia vista.

<< E' un anello molto bello >> sussurro. I miei occhi indagatori osservano ogni percettibile movimento del suo viso e del suo corpo, in cerca di un qualche guizzo che possa darmi o farmi almeno intuire delle risposte a tutte le mie domande.

Ma Jonathan è bravo e mi sorride rilassato. Non ha intenzione di parlarmene, ne sono certa.

<< Grazie >> è la sua unica parola al riguardo.

E' una persona difficile, a quanto pare. Gli sorrido e cerco comunque di provare a farmi rivelare qualcosa.

<< Ha un significato? >> gli domando.

Lui mi sorride un po' infastidito e annuisce.

<< E' un regalo >> risponde schietto.

Sospiro e di nuovo tra di noi cala il silenzio. Entrambi ci sentiamo a disagio, lo percepisco dalla sua postura eretta e rigida, quasi impettita. Non so nemmeno io che cosa dire. O meglio, ho talmente tante cose da dire, che non so da dove cominciare.

A interrompere quel silenzio imbarazzante, ci pensa il rumore della serratura della porta di casa che si apre.

<< Nevena, sono arriva... >> sento urlare mio padre dal corridoio.

La sua voce si blocca all'improvviso e immagino proprio che sia perché si è accorto del borsone e della giacca di Jonathan lasciati lì in entrata.

<< Sono in cucina! >> gli rispondo, gli occhi sempre fissi in quelli dell'uomo seduto di fronte a me. Sappiamo entrambi che è inevitabile affrontare l'argomento, ma al momento, nessuno dei due apre bocca. Jonathan distoglie lo sguardo da me e lo sposta verso mio padre, che nel frattempo è spuntato alla porta della cucina.

Non saprei bene come descrivere il modo in cui si guardano. L'intensità dei loro occhi è tale da farmi sentire quasi di troppo in quella situazione. Jonathan si alza in piedi, molto lentamente e si avvicina piano a mio padre.

Lui lo osserva, lo stupore stampato sul viso. Ha la fronte aggrottata, tipica di quando nella sua testa frullano troppe domande. Poi la sua bocca si allarga in un sorriso e si abbracciano. Mi si scalda il cuore a vederli. Chissà da quanto tempo non si vedevano e si abbracciavano così...

Papà lo stringe forte, come per assicurarsi che sia davvero lì e non se lo stia immaginando. Dopo un tempo infinito, si sciolgono da quell'abbraccio e si guardano in viso. Entrambi in silenzio, dalle loro labbra non esce neanche un fiato. Si fissano solo intensamente l'uno negli occhi dell'altro. Sul volto di mio padre vedo scendere una lacrima solitaria che gli riga la guancia. Ha gli occhi verdi così lucidi che ho la sensazione possa scoppiare in un fiume di lacrime da un momento all'altro. Ma si trattiene. Jonathan gli posa una mano sulla spalla e gliela stringe forte.

Anche se non li ho mai visti insieme prima, non faccio fatica a credere che abbiano condiviso tanto nella vita e che tra di loro ci sia un legame speciale e un'amicizia indissolubile. Papà sposta lo sguardo e la sua attenzione ricade su di me.

In quel momento, qualcosa nella sua espressione cambia. E' come se un'ombra gli sia passata davanti agli occhi e la sua gioia nel ritrovare il suo amico di gioventù sia stata spazzata via. La mano di Jonathan stringe la presa sulla spalla di mio padre.

Lui scuote la testa e torna a sorridermi come sempre.

<< Nev, voglio presentarti Jonathan >> mi dice gentile.

Jonathan si volta e sul suo viso appare un sorriso complice. Ovviamente so già qual è il suo nome, ancora prima che fosse mio padre a dirmelo. E anche lui lo sa, ma non dice nulla, mantenendo così il segreto tra di noi.

<< Piacere di conoscerti >> rispondo gentile.

Jonathan fa un cenno di ringraziamento con la testa e papà lo invita a sedersi nuovamente in cucina. Lui accetta. Mio padre viene verso di me e mi saluta con un bacio sui capelli.

<< Come è andata la giornata? >> mi domanda.

Io sospiro. E' stata intensa. Sono andata a Boston e ho scoperto una serie di cose che mai avrei pensato potessero essere vere. Mi sono dovuta ricredere dell'esistenza del soprannaturale, dell'occulto, dei vampiri. E poi l'ennesima visione. Un brivido mi scende lungo la schiena al ricordo di quelle immagini e a come sono stata dopo. Non avevo mai provato un'angoscia e un'ansia simili. La sensazione di soffocare, di non riuscire a respirare, le gambe che non mi rispondevano più dal dolore che provavo.

Ma ovviamente non posso raccontare tutto questo a mio padre. Non ora e, soprattutto, non di fronte a Jonathan. Istintivamente, il mio sguardo cade su di lui. Mi sta guardando con occhio indagatore, cercando in me le stesse informazioni e risposte che io cerco in lui.

Mi volto per guardare mio padre e gli sorrido.

<< Bene, ho studiato con Major >> mento.

<< Mamma ti ha detto di ordinare la pizza? >> mi domanda lui, prendendo dal frigo due birre e passandone una a Jonathan.

Jonathan ringrazia in silenzio con un gesto della mano.

<< Sì, dovrebbe arrivare fra poco >> gli rispondo, poi guardo Jonathan << mangi con noi? >> gli domando.

Lui scuote la testa mentre manda giù un sorso di birra.

<< Non mi sembra il caso >> risponde.

Mio padre ride e gli da una pacca sulla spalla.

<< Non dire cavolate, non disturbi affatto. E poi a Suzanne farà piacere rivederti >> gli dice mio padre, sedendosi accanto a lui.

Jonathan sospira e poi annuisce un po' imbarazzato. Mio padre lo guarda felice per quella risposta.

<< Quanto ti fermi a Chelsea? >> gli domanda poi. Nella sua voce c'è un'inclinazione strana, come se in quella domanda ci fosse un significato nascosto che io non riesco a cogliere.

Io raccolgo lo zaino da terra e me lo metto in spalla.

<< Vado un attimo a sistemarmi >> avviso.

Papà annuisce e mentre salgo le scale sento la risposta di Jonathan. Non mi volto mentre sussurra quelle parole, ma sono sicura di avere il suo sguardo addosso.

<< Per tutto il tempo che sarà necessario >>.



Siamo tutti seduti al tavolo nella sala da pranzo e l'atmosfera è allegra. Mia madre, quando è tornata e ha visto Jonathan, è scoppiata a piangere e lo ha stretto in un abbraccio così forte che per poco non lo soffocava.

Mio fratello, quando è sceso per la cena, ha riempito Jonathan di domande. E' sempre stato un bambino curioso, Christopher. Era il tipico ragazzino che voleva andare a visitare ogni museo possibile e faceva domande a cui mio padre, la maggior parte delle volte, non sapeva dare una risposta certa. Non è un tipo che sa tenere a freno la lingua e questo, almeno per papà, è un pregio. Tranne a scuola, lì non lo è mai. Alle medie è sempre stato uno studente troppo invadente, quello che se aveva qualcosa da ridire durante una lezione non aveva problemi a farlo, anche se andava contro il pensiero del professore. Questo gli ha causato non pochi problemi con alcuni insegnanti un po' all'antica. Ma d'altronde è il suo carattere.

Quindi non mi stupisce sentire Chris investire di domande il nostro ospite.

<< Come mai sei a Chelsea? >> gli chiede mentre si ficca in bocca una fetta pizza al salame piccante.

Jonathan gli sorride e per un attimo, il suo sguardo si posa su di me. Mi agito un momento sulla sedia. Anche se la situazione è serena e allegra, io non mi sento tranquilla.

Sono sicura che Jonathan non sia rispuntato dopo tutto questo tempo, solo perché aveva voglia di fare una rimpatriata con mio padre e mia madre. C'è una ragione più complessa. E sono abbastanza sicura, se non certamente sicura, che il motivo sono io.

<< Ho delle questioni da sbrigare da queste parti, affari >> risponde Jonathan.

Mio fratello però lo guarda con gli occhi chiusi in due fessure e trattengo una risata perché lo conosco fin troppo bene e so che quella risposta non lo convince.

<< Mmm... affari loschi? Sei un criminale? >> gli chiede diretto.

Io rido e mia madre mi riprende subito.

<< Chris! Ma cosa ti salta in mente! >> lo sgrida lei.

Lui fa spallucce, per niente dispiaciuto della domanda.

<< Beh? Mica è un problema per me, ognuno è libero di fare quello che vuole. E poi sarebbe proprio una figata se papà fosse amico di un ricercato. Ti immagini? >> si esalta mio fratello. Nei suoi occhi c'è quella scintilla di vitalità che lo invade ogni volta che inizia a viaggiare con la fantasia.

<< Non sono un criminale >> risponde calmo Jonathan << ci sono solo delle questioni che mi hanno portato da queste parti. E devo risolverle. Diciamo... affari di famiglia >> sussurra, sorridendo malizioso, a mio fratello.

<< Mmm >> borbotta Chris continuando a guardarlo con gli occhi di uno che non crede assolutamente a ciò che sta ascoltando. Però il discorso finisce lì e la conversazione viene portata avanti dai miei genitori che chiedono a mio fratello come sia andata la giornata a scuola.



Finito di cenare, ritiro i piatti sporchi da tavola e li porto in cucina per lavarli. I miei, mio fratello e Jonathan, sono in salotto a chiacchierare.

Mentre apro l'acqua calda per riempire il lavabo, lascio vagare la mente agli eventi di oggi pomeriggio. Ancora mi sembra assurda tutta questa situazione. E' surreale.

Fino a pochi giorni fa, la mia vita era quella di una comune ragazza di diciassette anni. Le mie uniche preoccupazioni erano andare bene a scuola, cercare di capire cosa fare dopo il college e decidere come festeggiare il mio compleanno. Ora invece mi ritrovo a pensare a un passato che pian piano ritorna a farsi vivo nella mia mente e ad una famiglia che dicono essere la più famosa stirpe di cacciatori di vampiri mai esistita.

Scuoto la testa, ancora incapace di credere a tutto ciò che Eris mi ha raccontato. Come è possibile che tutte quelle storie siano vere? Perché non sono cresciuta in quell'ambiente che tanto mi pare sconosciuto e irrazionale? Non so darmi una risposta, ma evidentemente c'è una ragione per cui sono stata affidata ad altre persone.

Di colpo davanti a me, ritornano le immagini di quell'uomo. Quella... creatura. Non era umano, anche se dirlo mi fa uno strano effetto. Era qualcosa di pericoloso, di oscuro, di terrificante. La mia pelle rabbrividisce al ricordo della donna morta ai suoi piedi, sdraiata in una pozza del suo stesso sangue. Un vampiro, ecco cos'era. Faccio fatica a credere ai miei stessi pensieri, ma d'altronde, che altre opzioni ho? Non ho mai visto nulla del genere se non nei film e in televisione. Adesso sembra che tutte quelle storie fantastiche che vengono raccontate nei libri, siano reali. O almeno, i vampiri.

Il viso dell'uomo sconosciuto è vivido nella mia testa. E la cosa che più mi terrorizza di lui, non è tanto il fatto che sia un assassino, una bestia senza pietà. Ma il fatto che da quella brutalità, da quell'orrore, da quel pericolo, io ne ero attratta.

Esattamente come una falena viene attirata dalla luce di una lampada, l'oscurità emanata da quell'uomo mi aveva stregata. Mi chiamava, sussurrandomi parole seducenti e nonostante sapessi che era pericoloso, che non dovevo avvicinarmi a quella voce, l'ho fatto. E quando mi ha sfiorato i capelli, non ho provato terrore. Mi sono sentita... capita.

Il suo sguardo, il modo in cui mi ha osservata, studiata in ogni dettaglio del corpo e del viso, è stato come se mi guardassi allo specchio. In quegli occhi identici ai miei non ho solo visto un dettaglio fisico che condividevamo, ma anche una parte di me. Una parte oscura, cupa, sepolta nel profondo della mia anima.

Ed è questo che mi spaventa e a cui non riesco a smettere di pensare. All'oscurità che ho percepito in me nel momento in cui ci siamo sfiorati. La stessa che emanava lui.

<< Posso darti una mano? >> la voce di Jonathan spazza via i miei pensieri e mi fa tornare alla realtà.

Mi volto verso di lui. E' appoggiato con la spalla al frigorifero, le braccia conserte sul petto e un sorriso gentile sulle labbra.

Annuisco, pensando che forse è un buon momento per provare a parlare.

Mi metto a lavare i piatti, insaponandoli e sciacquandoli. Jonathan si sposta accanto a me, recuperando un panno vicino al lavello. Gli passo le stoviglie pulite e lui, cauto ed efficiente, le asciuga e le posa sul bancone.

<< Jonathan >> dico. Pronunciare il suo nome mi fa ancora uno strano effetto davanti a lui << ci siamo già conosciuti prima? >> gli domando, cercando di mantenere un tono di voce abbastanza indifferente.

Con la coda dell'occhio, lo vedo irrigidirsi accanto a me e strofinare con più forza il piatto che ha in mano. Ma in un secondo si riprende e torna ad essere il Jonathan calmo e rilassato di prima. Mi sorride appena e scuote la testa.

<< No, non credo >> mi risponde semplicemente.

Io stringo le labbra, un po' indispettita da quella risposta.

Che bugiardo. E mente anche male.

<< Strano, a me sembra di conoscerti >> ribatto.

Lui sospira e io trattengo un sorriso. Lo sto facendo innervosire. Chissà, magari riuscirò a cavare qualche ragno dal buco.

<< Nevena, no. Ti starai confondendo con qualcun altro >> la sua risposta è secca e decisa, segno che non ha intenzione di continuare il discorso.

<< Va bene >> rispondo semplicemente e alzo lo sguardo su di lui per guardarlo. Anche lui si volta verso di me e nei suoi occhi arde un fuoco. Lo so che vuole parlarmi, raccontarmi ogni cosa. Ma per qualche assurdo motivo, non lo fa. Esattamente come non lo hanno fatto ieri i miei e come non ha fatto Eris oggi. Mi ha solo dato due libri e un paio di informazioni. Ma di per sé non mi ha rivelato nulla. Non capisco il perché. E' chiaro che ormai so cose che non dovrei sapere, che nutro dei sospetti sulla mia vera famiglia. Allora perché non dirmelo? Perché devo aspettare il mio compleanno? Cosa cambia se ne vengo a conoscenza oggi o fra cinque giorni?

Torno a lavare i piatti, senza dire nient'altro, sperando che sia Jonathan a iniziare il discorso.

E fortunatamente lo fa.

<< Allora >> inizia Jonathan. Il tono di voce più calmo e tranquillo rispetto a prima << tuo fratello mi ha detto che è un appassionato di judo. Anche tu lo sei? >> mi domanda.

Aggrotto un po' la fronte. Che domanda strana. Mi aspettavo qualunque altra cosa, ma non questa.

Annuisco, passandogli l'ultimo piatto lavato.

<< Sì, anche se preferisco la kick boxing e il BJJ >> rispondo sincera.

Lui sorride quasi sorpreso dalla risposta.

<< Davvero? Anche tuo padre amava la kick boxing da giovane. Era bravo >> mi risponde sincero e posa il piatto sulla pila insieme agli altri.

Svuoto il lavandino dall'acqua e lo asciugo con della carta assorbente mentre gli rispondo.

<< Sì, lo so. Mi ha iniziato lui a entrambi gli sport >> gli dico e poi mi volto verso di lui.

<< Sai che sono stato io a insegnargli per primo a lottare? >> mi dice.

Scuoto la testa, sorpresa da quella nuova informazione. Il suo viso si illumina. Evidentemente lo rende felice cogliermi di sorpresa.

<< Ai tempi dell'università immagino >> gli dico.

Lui annuisce. In quel momento entra in cucina mio padre che, non appena ci vede parlare insieme, rimane un momento fermo sulla porta. Poi ci raggiunge, proponendo a Jonathan di fermarsi ancora un po' per una partita a carte.

Jonathan scuote la testa.

<< No, Michael, grazie. Domani mattina devo essere presto a Boston >> si scusa lui.

Papà annuisce si volta verso di me. Le sue labbra si aprono in un sorriso gioioso e mi cinge le spalle con un braccio.

<< Di cosa stavate parlando tu e Nevena? >> chiede.

<< Di sport. Non mi avevi detto che avevi imparato a combattere da un tuo amico dell'università >> rispondo a mio padre.

Lui annuisce sorridendo e si volta verso Jonathan.

<< Sì, è vero. Chissà se il mio maestro è ancora in forma come un tempo >> lo punzecchia mio padre.

Sul volto di Jonathan appare un ghigno di sfida. Incrocia le braccia al petto e alza il mento.

<< Vuoi che te lo dimostri? Domani pomeriggio non lavori, hai detto prima a cena. Alleniamoci insieme >> propone Jonathan a mio padre.

Lui sorride e il suo viso si illumina di una gioia che raramente gli ho visto prima.

<< Sì, ci sto >>.

Jonathan sembra soddisfatto da quella proposta e si volta verso di me.

<< Ti unisci a noi? >> mi domanda.

Alzo le sopracciglia. Mio padre mi allena da quando sono piccola, sono abituata ai suoi modi e alla sua tecnica. Chissà come combatte Jonathan invece. Preferisce la lotta a terra o lo striking? E' più un tipo che scappa o che carica? Non so rispondermi, ma il suo sguardo infuocato mi mette una gran voglia di scoprirlo.

<< Sì, perché no >> rispondo sorridendo.

Ed è in quel momento che noto qualcosa nello sguardo di entrambi gli uomini in piedi in cucina insieme a me. Si guardano e in quello sguardo si dicono molte cose. Sui visi di entrambi appare uno strano sorriso e nei loro occhi una luce infuocata.

<< Sono curioso di vedere come se la cava >> sussurra Jonathan a mio padre.

<< L'ho addestrata bene >> gli risponde lui.

E in quelle parole colgo per l'ennesima volta un senso nascosto, un codice che solo loro comprendono.

Jonathan sogghigna e si volta verso di me, guardandomi dritta negli occhi con lo stesso fuoco con cui fino a poco fa guardava mio padre.

Poi risponde.

<< Lo vedremo >>

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