Epilogo- Iniziamo dal Caso Omega
«La mela... alla più bella.»
Maximilian appoggiò il frutto davanti a sé.
Una bella mela rossa, leggermente ammaccata ai bordi.
Non poteva richiedere di più, dalla mensa del carcere, ma quello era un gesto simbolico.
Alzò lo sguardo, e sorrise.
Un sorriso rovinato, falso, come di un condannato a morte che prega per essere scagionato.
Mitchell si lasciò cadere sullo schienale della sedia. Il suo tavolo era vuoto.
Nessuno aveva voluto rivolgergli la parola, dopo che aveva cercato di accecarsi con un cucchiaio.
Lo avevano fermato in tempo, ma aveva quasi perso la vista all'occhio sinistro.
Ciò che non capivano, che nessuno capiva, era che lo aveva fatto per essere ascoltato.
Perdonato, forse.
Con la cecità l'Aedo era più vicino e simile alla Musa, e lei poteva sussurargli meglio i racconti, a lui, che era amato dagli Dei.
Ancora voleva convincersi che fosse così, anche se ormai nessuno veniva più a parlargli.
Nemmeno lei, che gli stava dinanzi a osservare la mela che le aveva donato, non gli rivolgeva più la parola.
«La mela alla più bella... alla più giusta. Alla migliore fra le dee» ripetè Valentine, serrando le labbra, mentre lo sguardo rimaneva fisso sugli occhi cechi della sua Dea.
Si staccò dal bordo della sedia, spostando gli occhi sul piatto che aveva davanti.
«Alla più crudele» sputò, prima di scoccarle un'occhiata ardente di disgusto.
Per quanto la detestasse, per quanto lei fosse tutto ciò che l'aveva spinto in quel declino impossibile da fermare, Maximilian la temeva ancora.
Averla dalla sua parte era tutto ciò che serviva, tutto ciò su cui aveva fatto affidamento lungo la sua vita. E ora che aveva perso la sua grazia, avrebbe cercato in tutti i modi di riaverla indietro.
«Cosa devo fare?» sibilò, ancora una volta, come già tante volte aveva domandato, lasciandosi ipnotizzare e dimenticando come un ingenuo la vera natura di quella che aveva scambiato per una Musa, e in seguito una Moira, ma che era in realtà qualcosa di ben più sfuggevole e spietato.
Lei rimase immobile per qualche attimo, poi prese la mela tra le dita, sorridendo.
«Semplice» disse.
La sua voce era roca, distorta, eppure divina.
C'era qualcosa di terreno e al contempo sovrannaturale in lei.
Un paradosso, o forse semplicemente un inganno utilizzato per mostrarsi nella forma che Valentine desiderava di più.
«Devi scontare la tua colpa» esclamò, sardonica. Scoppiò in una risata raggelante e crudele, quasi lo prendesse in giro e la sua sofferenza la divertisse.
Poi addentò la mela, soddisfatta.
La Grant aveva un ufficio d'epoca.
O, almeno, sembrava ricalcare una moda passata, sfumata da tempo.
Arredato con dei bei mobili in mogano, sembrava più cupo di quanto fosse realmente.
La porta del suo studio era chiusa.
Dietro il vetro opaco qualcuno stava parlando, sussurrando, come se stesse programmando qualcosa di imminente.
Un fruscio scuro passò davanti alla porta.
«Il registratore è pronto?» chiese, con una voce fresca e severa al contempo, mangiandosi alcune parole per la fretta.
«Sì» rispose qualcuno, mentre l'atmosfera, dietro quel pannello di vetro, si faceva più concitata.
La sala d'aspetto era intonacata di uno strano e acceso color ocra, i muri tappezzati da piccoli quadri dalle cornici nere.
Zelda, immobile e composta nel suo tailleur color antracite, li osservava.
Non riuscì a leggere le targhette poste sotto ognuna di quelle che sembravano illustrazioni ad acquarello, ma credette che fossero i nomi degli artisti. Diede una rapida occhiata all'orologio.
Poi tirò fuori dalla borsa un barattolo arancione, sotto lo sguardo di Xavier.
Lei gli sorrise, tranquilla.
«Dove sono le tazze del tè?» chiese di nuovo quella voce limpida, tradendo un'agitazione sottile.
Lo specchio dell'entrata lo rifletteva, e Xavier si osservava placidamente da lontano, mentre rimaneva seduto, con le braccia conserte.
Il tacco della sua scarpa batteva contro il pavimento, e quando si rese conto di quel gesto involontario lo fermò, posando una mano sul ginocchio.
«Va bene, lascia stare. Metti a bollire dell'acqua, per favore. E falli entrare pure, intanto.»
Dopo qualche attimo la porta si aprì, il tempo necessario per far uscire un uomo dal sorriso cordiale e una teiera tra le mani.
Guardò i gemelli, e rivolse loro un cenno di benvenuto.
«La signora Grant può ricevervi» disse soltanto, prima di scomparire al piano di sopra, salendo i gradini di una scala scricchiolante.
Zelda e Xavier si lanciarono un'occhiata.
Entrambi si chiesero se fossero davvero sicuri di farlo, se avrebbero potuto spiegare con chiarezza quello che era successo, dubitando in un attimo se tutto ciò sarebbe mai servito veramente a qualcosa.
Poi Thelma Grant, dal fondo del suo studio, disse: «Prego, benvenuti.»
E allora Zelda inspirò, tesa e sollevata allo stesso modo, inconsciamente consapevole che fosse la cosa giusta da fare.
Non sarebbe stato semplice spiegare, raccontare, soffermarsi su quelle parti che già sapeva l'avrebbero fatta inevitabilmente vacillare.
Eppure si alzò, seguita da Xavier, varcando la soglia e lasciando che la luce dell'ufficio facesse risplendere entrambi dello stesso, caldo bagliore.
Era esattamente come se l'erano immaginata. Thelma Grant stava seduta dietro la scrivania bordeaux, con il suo caschetto di capelli scuri e il suo atteggiamento sognante e attento, contradditorio in quello strano paradosso d'espressione.
Teneva davanti alle mani un clearcircle registratore, ma anche un foglio e una penna stilografica dal pennino ammaccato.
Attese che tutti e due si fossero seduti, osservandoli con gli occhi lampeggianti e lievemente sorridenti. Dietro di lei si ergeva una finestra dagli infissi all'inglese.
Era decorata ai bordi con due tende di velluto molto spesse, quasi teatrali.
«Allora» disse, accendendo il registratore e incurvando le labbra in un mezzo sorriso.
«Iniziamo dal Caso Omega.»
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