Capitolo 52- È una storia che va divisa in atti

La calligrafia del test grafologico di Mitchell combaciava con quella dell'unica lettera trovata a casa di Wilson.
Era lui ad averla scritta, e forse proprio perché così personale, Maximilian non aveva ritenuto necessario modificare quella che era la sua vera grafia.
Era stato tradito da quelli stessi dettagli che aveva osannato, usato a suo vantaggio fino a quel momento.
Di cui si era vantato, quasi fossero i serpenti della sua chioma, pronti a mordere al suo comando, e lui ne fosse il padrone. Non era così.
Quella lettera che sarebbe dovuta essere destinata alle fiamme, come le sue gemelle prima di lei, tutte con gli stessi insegnamenti, era stata risparmiata. Andrew aveva deciso di tenerla per un intimo motivo, ignoto a chi non aveva un biglietto per visitare la sua mente.
Così l'aveva salvata dalla cenere, distruggendo rovinosamente il piano per cui era morto.

Quando Mulder aveva fatto irruzione nell'appartamento di Mitchell, era stata subito fatta una perquisizione della stanza.
Così, mentre Maximilian veniva scortato lungo le scale e Zelda sembrava perdere il respiro tra singhiozzi spaventati, uno degli agenti aveva ritrovato un quaderno.
Sembrava un bloc-notes scolastico, quasi fosse stato rubato dalla segreteria di un'università.
Poi l'agente lo aveva girato, sotto l'ordine di Liza, rivelandone la copertina.

"Wayne State University"

Mitchell si era appena laureato in Fisica e Matematica in quell'università, si venne a sapere, e ogni tanto faceva da supplente nelle stesse aule in cui aveva studiato.
Altre, invece, si offriva per delle ripetizioni serali.

Il quaderno in questione era vecchio di almeno qualche anno, tenuto bene, ma inevitabilmente deteriorato dal tempo.
Le pagine erano ingiallite, i bordi spellati.
Era il luogo dove le sue idee prendevano vita, insidiose e strabilianti al contempo, uno spettacolo morboso e accattivante da osservare.
Lì, Maximilian aveva accumulato, negli anni, tutti gli aspetti della sua filosofia.
Tutti i dettagli per il suo vitale piano, tutte le idee per gli omicidi.
Alcune pagine descrivevano a fondo il suo ideale di perfezione.
Un pezzo venne letto ad alta voce da Mulder.

"La perfezione sta nell'equilibrio di ciò che deve accadere, e ciò che deve essere contrastato dalla forza naturale del fato." Diceva.
"Quando tutti assolveranno i loro compiti ed espieranno le loro colpe, la perfezione potrà dirsi compiuta."

Aveva diviso gli avvenimenti in capitoli.
Il primo era su Rivera.
Con un elenco, -macchiato di inchiostro, tentato in tutti i modi di essere pulito- aveva descritto punto per punto tutto il procedimento del Fluo Flamingo, della testa da decapitare, del modo più preciso per farlo.
Così aveva fatto anche con Beryl Wright, come per Carter.
Come per Andrew, il quale suicidio era stato trattato al pari di un assassinio.
Descriveva con cura lo spazzolino con cui si era ucciso, il gesto simbolico dietro quell'azione, il mito collegato.
Quasi stesse analizzando una scena del crimine, aveva appuntato ogni minimo dettaglio, come se fosse stato lui l'artefice di quella morte.
Invero, lo era.

Oscar sfogliava le pagine, tra elenchi di fiori e negozi in cui vendevano piume, saltando alcune parti, altre ignorandole di proposito, fino a che non era arrivato al quinto capitolo. L'ultimo.
Sentì il sangue ghiacciarsi lungo le vene, quando si rese conto che era il capitolo di Zelda e Xavier.

Il loro sarebbe stato l'assassinio più spettacolare, come aveva anche appuntato Maximilian, ed era dedicato proprio a Oscar.
C'erano state più ipotesi per il mito che avrebbe dovuto usare, e la prima era Narciso.
La cornice di uno specchio, l'una il riflesso dell'altro.
Li avrebbe fatti ritrovare lungo le sponde del St. Clair.
Un paragrafo descriveva il mito, un altro, scritto in piccolo, il motivo della scelta.
Ma era troppo banale, forse, e Mitchell aveva accantonato l'idea.
No, per il suo nuovo omicidio serviva qualcosa di magistrale, qualcosa che facesse invidia agli Dèi...

Così, nel prodigioso spettacolo di Enigma, Zelda e Xavier avrebbero incarnato Artemide e Apollo.
Gli dèi gemelli, la Luna e il Sole, così perfetti per prendere vita con due volti severi e somiglianti come i loro. 
La scena del crimine sarebbe stata straordinaria, poetica, dicevano le note a bordo pagina: il planetario all'aperto di Detroit, dove gli astri si mostravano e dove la luce lunare avrebbe riflettuto la sua meravigliosa opera.
Una Luna e un Sole sopra le sue due creazioni, sì, perfetti simboli.
Lei avrebbe tenuto tra le mani un arco e delle frecce, lui una lira e una corona d'alloro.
La lettera sarebbe stata per Oscar, naturalmente, che si era fatto portare via le persone a cui teneva, ancora una volta.

Alla notizia del loro artistico omicidio, Xavier si era appoggiato al bordo della sedia accusando un forte giramento di testa.
Aveva rischiato di svenire due volte, mentre Zelda, il respiro singhiozzante, ancora sconvolta, gli diceva di rimanere seduto.
Poi avevano trovato una lettera per Liza, ancora sigillata, dalla carta azzurra e nuova.
Lei si era rifiutata di leggerla, permettendo subito la sua catalogazione come prova.
La osservò, apatica, scomparire dietro la porta tra le mani di un agente della scientifica.

«Questo è Enigma» esclamò infine Oscar, senza il barlume di un solo grammo di ironia.
Aveva osservato ciò che sarebbe potuto succedere, e l'ipotesi di averlo evitato per così poco gli si ancorò alla gola, serrandola in un impeto di angoscia.
Si voltò, assalito da quella fobia, trovando pace solo nella realtà che aveva davanti.
Osservò Xavier parlare sotto voce, esausto, Zelda annuire con una dolce apprensione, sedutagli accanto a sfiorargli una mano.

E pensò che vederlì lì, dinnanzi a lui, non lo avesse mai rassicurato tanto.

«Registrazione iniziale. Interrogatorio di Maximilian Mitchell a proposito dell'omicidio Rivera. Cominciamo?»
Oscar teneva le mani conserte, ferme davanti a lui, le dita attorcigliate tra loro.

«Sì.»
Mitchell diede un cenno di consenso col capo, i capelli divisi da una lineare scriminatura laterale, gli occhiali davanti ai suoi occhi dalla montatura luccicante.
Era calmo, placido nella sua posizione composta, immobile a osservare il registratore davanti a lui.

«Allora iniziamo da questo.»
Mulder gli avvicinò il quaderno dove erano appuntati gli omicidi.
«Dimmi cosa ti ha spinto a questo.»

Maximilian ammiccò a un'occhiata orgogliosa e scaltra, tinta di una sincera amarezza.
Sorrise, compiaciuto e nostalgico come si può essere davanti a un intimo brano classico.
«È una storia che va divisa in atti.»

«Quando ho compiuto diciott'anni, concludendo il liceo, ho deciso subito di iscrivermi al college. Lettere classiche.
Era l'unico percorso che sentivo mi appartenesse, l'unico che vedevo quando pensavo al mio futuro. Non avevo conoscenze, non avevo mai studiato greco, né latino, ma quando si ama incondizionatamente qualcosa si fa di tutto per assorbirla, assimilarla anche se non si ha la possibilità di studiarla.
Così avevo fatto io, in lunghi pomeriggi spesi nella veranda di casa a imparare deponenti, a ripetere aoristi, a contestualizzare miti.
Tutto sembrava mi appartenesse.
Io sapevo che era così, ed era come se quelle parole, quei testi, quelle immagini mi parlassero.
Vedevo foto di statue che sembravano osservarmi, fregi che prendevano vita sotto il tocco delle mie dita sulla carta.
Ed era tutto talmente bello che, una volta datami la possibilità di studiare davvero quelle opere, senza dover improvvisare come un folle genio povero, mi si spezzò quasi il cuore.
L'idea di uniformarmi allo studio degli altri, adattandomi ai loro ritmi, era per me inconcepibile. Ma decisi ovviamente di iscrivermi al college, in cerca di conoscenza e professori che potessero affascinarmi con i loro insegnamenti.

Spesi due anni al Vinson, un college vicino a Toronto.
Era meraviglioso: le colonne doriche e bianchissime dell'entrata, il parco retrostante di sempreverdi, l'aria frizzante e pungente che ci accoglieva tutti quando tornavamo dalla pausa estiva.
Il primo anno era stato il più bello di tutti, e sentivo che la mia passione per quel mondo classico ed enigmatico stava crescendo, incontrollata, e da una parte desideravo che fosse così.
Nei pomeriggi più freschi stavo sotto la pineta a leggere Sofocle o Eschilo, immerso in un vortice da cui non sarei mai voluto uscire.
In quelli più afosi non riuscivo a concentrarmi e lasciavo che il tempo scorresse mentre sfogliavo qualche romanzo di Thelma Grant, -racconti davvero simpatici, di cui non approvavo sempre le morali-.
Era così che spendevo i miei soggiorni al Vinson, bombardato da idee, da storie, da filosofie che mi si cucivano addosso con lo stesso filo che, lentamente, stava plasmando il mio destino.

È sempre doloroso rendersi conto di quanto un'idea interessante a cui teniamo, -mettiamo che adoriamo, che divinizziamo- ci danneggi.
Un progetto che amiamo ci stia rovinando, un concetto che credevamo giusto si riveli nocivo.

Io realizzai di avere tra le mani un problema del genere al mio secondo anno al Vinson, quando per la prima volta mi lasciai trasportare così tanto dalle parole che leggevo e che avevo assorbito da riformularle, rendendole storpiamente mie.
Lo avevo fatto con un testo di Aristotele, non ricordo nemmeno quale, ma una volta finito il mio ragionamento, mi resi conto che avevo traviato le sue idee, creandone di nuove, di personali.
La cosa mi spaventò.
E mi terrorizzò quando ritornò, più insistente di prima, a martellare lungo i meandri fragili della mia coscienza.

Ho sempre avuto un problema che molti definirebbero come atteggiamento particolare, ma io stesso mi rendo conto che così non sia: dapprima era qualcosa di sepolto, intorpidito e innocuo.
Un sussurro, se si può dire, a cui non davo mai davvero ascolto.
Si poteva sfogare nel gesto immorale di tagliare la coda a una lucertola, o di rispondere male ai miei genitori senza motivo solo per osservare le loro reazioni.
Ma presto mi resi conto che c'erano cose che influenzavano pesantemente questa voce, rendendo i sussurri parole chiare.
Una di quelle cose era, senza dubbio, lo studio dei classici.
Era costantemente posto davanti a nuovi concetti, nuove riflessioni.
Mi turbavano, mi sconvolgevano, ma era in quei momenti che mi sentivo completamente devoto a qualcosa.
Forse ero riconoscente della libertà d'espressione che quei ragionamenti mi davano, forse ero assuefatto dalle rielaborazioni che ne creavo. Leggevo Euripide e ne assorbivo lezioni sulla pazzia umana, studiavo Aristofane e pensavo come un folle al mistero che lo circondava.

Fu in quel periodo, in quell'aprile freddissimo e troppo spento per essere primavera, che lessi per la prima volta della filosofia del Pàthei Màthos. Quell'idea terrorizzante per cui tutti abbiamo delle colpe, dei debiti da pagare e dei castighi che gli Dei di certo ci riserveranno per riequilibrare la bilancia della giustizia.
Ecco, era questa la mia nuova ossessione: presi ad assaporare ogni idea di quella cinica teoria con una tremenda sete di sapere, senza rendermi conto che l'ombra sussurrante che ero sempre riuscito a sopprimere aveva rotto il ferro della gabbia con i suoi denti affilati.

Le colpe possono essere ereditate, possono essere commesse per prime, possono essere, semplicemente, sempre esistite.
Non c'è modo di sfuggir loro: ognuno se ne porta appresso, come un'eredità, almeno una.
Ed è destinato a compierla, così come i suoi figli, così come i suoi nipoti.
In seguito scoprì che la díkē, la giustizia, era ciò che gli Dèi attuavano per regolare questo serpente che si morde la coda: erano loro che si occupavano di ristabilire l'equilibrio, soppesando le colpe con i castighi, rendendo perfetto l'ordine immutabile, casuale, eppure così pianificato degli avvenimenti.

Un pomeriggio piovoso, in cui avevo deciso di rimanere nella mia camera del college, decisi di chiudere definitivamente il mio libro di filosofia. Credo ne fossi diventato morbosamente spaventato, a quel punto.
Sentivo che in me stava crescendo un'idea pericolosa, su cui non avevo mai, nemmeno sovrappensiero, riflettuto.

La voce che un tempo mi era solamente a fianco stava cercando di inglobarmi, o, peggio, di prendere il mio posto. Avevo letto troppo, su quell'idea?
Forse.
Fino ad allora avevo sempre saputo quando fermarmi, riconoscendo quando un concetto mi stava diventando ossessivamente familiare.
Ma quella volta era diverso, e avevo ceduto al fascino dell'imparare in segreto.

All'improvviso pensai che c'erano troppe colpe non scontate.
Troppi castighi non compiuti, troppo disordine, forse troppa giustizia non fatta.
Mi chiesti se quel Fato che studiavo esistesse davvero, se quegli Dèi amministratori di equilibrio compissero ancora il loro lavoro.
E poi in me nacque un'ipotesi, credo l'ipotesi che diede inizio al tutto.

Forse, mi dissi, forse esistono.
Ma hanno bisogno che qualcuno si sacrifichi per aiutarli.

Seduto sul mio letto, mentre fuori le nuvole si agglomeravano in densi banchi, pensai per la prima volta al compiere un omicidio.

Decisi di abbandonare il Vinson all'inizio del terzo anno.
Il motivo ufficiale era che avevo perso interesse, ma chiunque mi conoscesse anche solo di vista sapeva quanto ancora bruciassi davanti a un pezzo di Lettera a Meneceo da tradurre.

Me ne andai a fine settembre, quando il Vinson iniziava a popolarsi e un cupo crepuscolo gli si stendeva addosso come una stola, illuminando d'oro le sue bellissime colonne.
Dicevo addio all'unico posto in cui, ad adesso, io sia mai stato felice.
E lo feci perché ero troppo spaventato da me stesso.

Gli anni che seguirono sono piatti, vuoti, e li ricordo come un vago luogo inconsistente abitato da formule, teoremi e una terribile nostalgia.
Mi ero trasferito a Detroit, mi ero iscritto alla facoltà di Fisica e Matematica perché sapevo che materie razionali mi avrebbero ancorato a un mondo razionale, e la cosa orribile era che ero anche molto bravo in quello che studiavo.
Ciò mi rendeva irritabile, nervoso di fronte al fatto che la mia bravura nelle materie classiche non fosse poi così speciale.

I primi tre anni passarono quieti, statici.
Avevo dimenticato le mie riflessioni sulle colpe e la giustizia, ma ancora ricordavo con una dolce sofferenza le ore di mitologia classica, ormai una testimonianza vuota, di una felicità sfumata. Talmente offuscata da dubitare che io l'avessi mai provata, o fosse stata la memoria ad avermi ingannato in un illusorio regalo.
La mia mente era ormai sterile.
Sembrava che non riuscissi più a pensare nello stesso modo di un tempo, quasi ne avessi perso la facoltà.

Forse mi ero obbligato a rimuovere quella parte di me stesso, costretto fino a che non aveva funzionato, ma al quinto anno capii: quel mio lato non era mai definitivamente scomparso.
Lo avevo solo eclissato con la mia luna di postulati e grandezze fisiche.
Il mondo che avevo lasciato tornava a reclamarmi, mostrandosi ovunque.
Il titolo di un giornale, la lettera per indicare un angolo, il nome di un teatro.
Così ricominciai a studiare ciò che avevo sempre amato, e lo feci da solo, di nascosto, ancora una volta.

Quella presenza che mi aveva sempre guidato era tornata a trovarmi, e io compresi quanto la sua influenza fosse stata decisiva per farmi essere ciò che ero diventato: dietro a ogni mio ragionamento, dietro ogni pensiero che cercavo di scacciare, c'era sempre lei.
Fu in quel momento, credo, che mi resi conto di essere fortunato.
Lei era colei che avevo sempre ricercato, quella spinta che facesse davvero liberare ogni mia idea, anche quella che più reprimevo.
Così decisi di darle, per la prima volta, ascolto. Sapevo di non poterle sfuggire.
E nei momenti in cui avevo creduto possibile il contrario, stavo solo ritardando il momento della mia liberazione.

Mi stava chiedendo di dar ascolto alle idee di un me stesso di qualche anno prima, seduto sul suo letto del college pensando a come sarebbe potuto essere fare il lavoro degli Dèi, e in cambio di guidarmi lungo questo compito mi poneva una sola condizione: quella di sottostarle.

Io accettai, e per la prima volta ebbi il coraggio di darle un nome.
Era diventata la mia Musa.»

«È possibile avere un bicchier d'acqua, prima di continuare?»
Maximilian, coi suoi occhi incolori e attenti, i capelli opachi e folti, stava seduto composto davanti a Mulder.
Si sporse di qualche centimetro per porre la domanda, quasi dovesse rimanere un segreto tra loro.

«Certo.» Oscar annuì, gelido.
Poi si alzò, raggiunse la porta e se la chiuse alle spalle.
«Comincia a delinearsi qualcosa?» chiese a Liza,
soprappensiero.

Lei stava scrivendo, frenetica, le nocche sbiancate per la pressione.
Sembrava che non si fosse mossa per tutto il discorso di Maximilian, quasi volesse trascrivere ogni particolare con sommessa frustrazione.
«Credo di sì. L'iconomania. Ve lo avevo detto. L'ossessione per un'idea. Lo... lo avevamo già detto.»
Non alzò lo sguardo, mentre gli occhi
seguivano il filo d'inchiostro che si stendeva sulla carta.

«Gliela prendo io, l'acqua» disse Xavier, sorprendendosi delle sue stesse parole.
Si era davvero offerto di prendere un bicchiere d'acqua a Enigma?
Tutta l'assurdità della situazione sembrava venire a galla attraverso quelle frasi, quelle centellinate prese di coscienza che si stavano accumulando dentro quella stanza.

Ma Xavier non ne fece parola, uscendo dalla sala interrogatori senza pensarci due volte.
Il corridoio era tappezzato di persone, tra chi giaceva appoggiato al muro a chi, direttamente, si era seduto a terra.
Ad attendere, con trepidazione, c'era chiunque: dai detective con più anni di servizio alle spalle, agli agenti in prova.
Tutti con la stessa espressione ansiosa in viso, tutti con la medesima adrenalina a scorrere lungo le viscere.

Appena si chiuse la porta alle spalle, Xavier venne accolto da una tempesta di occhiate inquiete, in cerca di risposte.
«Sta confessando l'omicidio Rivera.»

«Si sa come l'ha trovato?» chiese una detective.

«Ancora no. Ha chiesto un bicchiere d'acqua.»

Un unico sospiro sembrò innalzarsi lungo le mura del corridoio, teso e sollevato al contempo, forse, per non sapere ancora la verità.

«Ecco» Xavier appoggiò il bicchiere davanti alle mani di Maximilian, lui gli rispose con un grato cenno del viso.
«Allora» iniziò il detective, sistemandosi sulla sedia.
Si sciolse in uno sbuffo mentale, pronto a tornare glaciale e concentrato, bloccando ancora una volta tutta la frana di pensieri che bussavano, insistenti, per avere il loro posto nella sua mente.
«Con il detective Mulder eravate rimasti al tuo quinto anno di università.»

Mitchell sorrise, quasi una memoria fosse di colpo riemersa dal fondo dei suoi ricordi.
«L'anno in cui incontrai Andrew. Sì, continuiamo.»

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