Capitolo 47- Cenere alla cenere
«Le rose. Non ti sembravano troppo appassite?»
Silenzio. Lei non rispose.
«Come sospettavo. C'è qualcos'altro che non ti ha convinto? Dimmelo ora.»
Valentine incrociò le braccia.
C'era un'irritazione nuova nel suo tono, qualcosa di trattenuto, continuamente soppresso.
Lei inclinò la testa, quasi una corona invisibile le pesasse sul capo.
«No?» Sospirò.
«Non c'è nient'altro da fare? Nessuna istruzione?»
L'acquario sibilava, riempiendo la sala di un ronzio tenue e fastidioso.
Lei si portò le mani sulle pallide labbra di marmo. Le sue dita si mossero a coprire la bocca, lente e scricchiolanti, quasi fossero rimaste immobili per ere intere.
Valentine rimase attento, fermo a osservare la sacralità di quella scena.
Lei abbassò il capo, le foglie che lo adornavano rilucenti, i capelli di pietra donanti l'illusione di muoversi davvero.
Nessun bisbiglio, nessuna parola spesa, quasi lui non valesse il suo tempo.
«Bene» sibilò Valentine, ormai disincantato, «allora agirò da me.»
Il suo tono riprendeva una domanda non fatta, quasi in fondo sperasse in una risposta.
La guardò ancora per qualche momento, immota davanti alla grande libreria di quercia, aspettando in un suo movimento.
Ma lei era tornata roccia, impassibile nella sua bellezza scultorea e antica, indifferente a un mondo che sembrava non appartenerle.
«Ho fatto quello che mi avevi chiesto!»
Un bicchiere s'infranse contro lo specchio, lasciando dietro di sé una nuova ragnantela cristallizzata nel vetro riflettente.
«Io ho seguito tutto. Io ho fatto tutto... tutto per te.»
I vetri a terra, i gesti febbrili delle mani a indicare qualcosa.
«Perché sembra che non vada bene? Perché ai miei occhi sembra che sia tutto terribile? E perché non mi parli?»
Non riusciva a capirlo.
I fiori, il messaggio, era tutto così sbagliato, così orrendamente posticcio, così semplicemente brutto.
Brutto, raccapricciante, se lo ripeteva e lo ripeteva a lei, che lo osservava in silenzio, ascoltandolo con una quiete giudicante.
Ma lui sembrava non farci caso.
«Io... io voglio che vada tutto bene. Di poter fare tutto come è designato che debba essere fatto. Ma così.. sento che non lo è. È tutto la copia di qualcosa di già fatto. E sto perdendo solo tempo!»
Fogli buttati a terra.
Volavano sul pavimento d'assi come ali pallide, maree di un oceano di carta in tempesta.
«Perché so che con te non potrà mai essere tutto come deve essere?»
Guardò davanti a sé, negli occhi un'ira antica e ardente.
«Devi lasciarmi esprimere» supplicò, con una passione disperata al limite dell'ossessione.
«Io so quello che deve essere fatto!» Era così.
Lui sapeva, conosceva ogni dettaglio.
Quello era il suo capolavoro, e nessuno poteva prendere il comando, nemmeno chi lo aveva inizialmente ispirato nell'opera.
La Musa si stava trasformando in Dittatrice, tagliando le ali del suo progetto con crudeltà.
E lui era solo il mezzo, il guscio attraverso il quale i suoi ordini venivano eseguiti.
Un tempo gli andava bene, un tempo scambiava quella servitù con devozione.
Ma no: Lei era come lui, ma era Lei ad essere al comando, quando nessun comando, nessun intralcio doveva esserci tra se stesso e il suo obiettivo.
«Io sono Andrew» disse Valentine, «io per te sono come Andrew» ripetè, schifato, trascendendo ogni limite per abbandonarsi alla paranoia più smodata.
Lui era... lui era l'aiutante.
Se ne rese conto quando lei voltò il capo.
La tunica scolpita nel marmo illuminata dalle luci dell'acquario, gli occhi cieci, coperti da meduse in procinto di sciogliersi.
Si era sbagliato.
Per tutto quel tempo non aveva fatto altro che seguirla in ogni sua orazione, in ogni suo sussurrato consiglio.
E in quel momento capì quanto in realtà lo stesse ostacolando.
Se Andrew era stato solo un ingranaggio, lui lo era altrettanto.
E come l'attore lo aveva divinizzato perdutamente, lui aveva fatto lo stesso con la Dea che ora capiva essere sempre stata sulla punta di quella gerarchia delle ambizioni.
La più vicina all'obbiettivo, accanto alla perfezione come ideologia che lui aveva creduto ingenuamente potesse essere sua.
No. Se Valentine era il mezzo, Lei era l'ostacolo.
Ma gli Dèi, vizi e virtù degli umani, così simili a loro, avevano davvero il diritto di possedere ciò che un umano aveva ideato?
Musa e Aedo, Divinità e mortale, si guardarono.
Valentine accennò a un sorriso rovinato.
Se c'era qualcosa con cui si trovava in disaccordo con Eschilo era l'Hybris. L'ira degli dei.
Nessuno poteva davvero punirlo.
Nessuno poteva rubare il suo obiettivo.
Era ciò di cui si convinceva, perso nella sua stessa dionisiaca follia dettata da un'abizione pungente e totalizzante, da una devozione per il fascino del perfetto che superava anche quella per la sua magistrale Dea.
Così rinnegava il suo credo, con la rapidità e la frivolezza di chi è troppo immerso nella propria cupidigia per riflettere sulle conseguenze delle sue azioni.
Se il suo piano era così abile da attirare gli Dèi, lui sarebbe diventato una divinità a sua volta.
Il Dio di se stesso.
«La vita è un Dono da amare, di cui usufruire nella sua interezza. Ma da Dio arriviamo, e a Dio torniamo...» diceva il prete, lo sguardo socchiuso, accecato dalla luce chiarissima di quella mattina.
Davanti a lui un gruppo di persone in silenzio, fisse su qualcosa posto al centro del loro religioso semicerchio.
«Ma in questo nostro incontro con Gesù, a cui riconsegnamo l'anima di una persona unica, lo ringraziamo ancora una volta per la grandezza della vita...»
Non era mai stato religioso.
Il credere in qualcosa non aveva mai sfiorato la sua quotidianità, quasi fosse una pratica completamente estranea al suo mondo, ma Xavier sembrava ascoltare quelle parole con attenzione, forse per rispetto, forse perché tutta quella situazione aveva un significato più ampio.
Vicino a lui Zelda, il fumo della sua sigaretta disperso in quel vento leggero e tagliente, il nero del suo androgino completo brillante sotto il sole. Entrambi lontani dagli altri, giacevano con la schiena appoggiata contro il tronco di una betulla. Profetici nei loro abiti scuri e nella loro dualità sibillina, quasi la Morte si fosse sdoppiata per apparire due volte al funerale di Carter.
Mulder era più vicino, poco distante dal crocchio di persone riunite intorno alla bara di Bennie, orribilmente decorata prima di essere deposta nella fossa.
Vide la moglie di Carter, ma distolse lo sguardo.
Da quando erano usciti dalla chiesa lei lo aveva pregato di descriverle l'autopsia di suo marito.
Lui le aveva detto che tutto era nella norma, ma non aveva mai saputo mentire bene come Zelda.
E non poteva nemmeno confessarle che nella gola di Carter avevano trovato delle pastiglie di Valium.
Con lui è morta anche la Omicidi, qualcuno aveva detto, e chi era Oscar per contraddirlo proprio il giorno del suo ultimo saluto?
La verità, quella che nessuno era in grado di affrontare, almeno non ancora, era che con lui era davvero morta la Omicidi, ma per motivi molto meno compassionevoli.
Con lui, o meglio, con il suo omicidio, si era suicidato l'ultimo barlume di sanità che avevano finalmente riacquisito con fatica in quei due mesi.
E il suo assassinio aveva distrutto quell'anfratto di pace, lasciando di nuovo spazio all'isteria collettiva.
Oscar si guardò intorno, teso.
Ogni tanto lanciava qualche occhiata a Liza -coperta di nero, solenne come un'Ecate- e lei rispondeva con un altro sguardo complice e freddo.
Spostò lo sguardo verso l'orizzonte, il cimitero che si stendeva quasi infinito, luminoso e privo di erba verde sul suolo.
Le tombe come grandi tessere di un domino coperto di piante infestanti e muschio, gli alberi stranamente rigogliosi, dalle fronde ombrose e oscillanti.
Mulder osservò a fondo una vecchia tomba di famiglia, su cui posava, placida, la statua di un angelo.
Teneva la testa tra il palmo di una mano e guardava lontano, quasi insofferente, come se si fosse stancata di rimanere a vegliare su quel posto.
«Voglio andarmene» disse all'improvviso Zelda, continuando a fissare il prete parlare, troppo lontano da loro per essere ascoltato davvero.
Xavier fece per rispondere, quando Mulder, a pochi metri da lui, scattò a cercare qualcosa nella tasca. La suoneria del suo clearcircle si sentì chiaramente per qualche secondo, prima che lui, sotto una schiera di sguardi offesi, rispondesse alla chiamata. Si allontanò dalla cerimonia, avvicinandosi di conseguenza a loro.
«Allora?» lo sentirono dire, mentre Liza, dall'altra parte, sembrava non prestare più ascolto all'orazione.
«Non mi frega un cazzo se ti hanno detto di no, non possono rifiutarsi» continuò, appoggiandosi al tronco d'albero occupato poco prima dai gemelli. Loro si erano spostati, vagando intorno a Mulder come spettri assetati d'informazioni.
«Cosa vuol dire "che non abbiamo la licenza"? Se non ce l'abbiamo noi chi cazzo ce l'ha?»
Oscar lanciò un'occhiata a Zelda, scuotendo la testa. «Chi è?» mimò lei, ma prima che le potesse rispondere, Mulder era già tornato a parlare.
«Ascolta, riferisci al gestore del carcere che va bene così. Capito? Non c'è problema, va bene così» concluse, più tranquillo.
Zelda e Xavier si guardarono, confusi.
Liza, intanto, si stava finalmente allontanando dal gruppo.
«Ce qui se passe?» mormorò, appena arrivata.
«Il carcere. Ci stanno negando di entrare in carcere, credo. Poi non ho capito che altro» rispose Xavier, laconico.
«Va bene. Va bene. Sì, ho capito, va bene. Ciao. Ciao, sì.»
Oscar buttò giù, per poi sciogliersi in un "e andate a fare in culo" sibilato.
Davanti al silenzio di tutti gli altri, sentì di dover loro dei chiarimenti.
«Era Alma. Il Carcere ha rifiutato la nostra richiesta di colloquio con Wilson per le prossime due settimane.»
«Che cosa?» Liza sbuffò in una risata incredula.
«Non possono farlo» disse Zelda, ma Mulder annuì.
«Possono, invece. Anche se facciamo causa, troveranno mille modi per non farci vedere Wilson, se vogliono.»
«E tu hai accettato la cosa con quella tranquillità?»Xavier inarcò il sopracciglio, guardando Oscar con un mezzo sorriso.
«Secondo te?» lui gli scoccò un'occhiataccia in cambio.
«Se ci presentiamo lì senza preavviso, forse riusciamo a ricavare qualcosa da tutta 'sta faccenda di merda. Ma non dobbiamo avvisare nessuno, nemmeno un minuto prima» ordinò lui, incrociando la mani al petto.
Poi diede uno sguardo al lontano gruppo di gente che aveva abbandonato.
«Possiamo anche andare. Nessuno sentirà la mancanza della mia suoneria» disse, prima di allontanarsi. Lo seguì Liza, che intanto toglieva lo scialle che le aveva coperto le spalle fino ad allora.
Zelda e Xavier rimasero ancora qualche attimo a osservare davanti a loro, una a fianco all'altro.
«Quindi che ora torni tutto all'Origine, cenere alla cenere.»
Qualcuno buttò una manciata di terra sulla bara di Bennie Carter.
«Le chiavi di riserva. Ho annaffiato le piante due volte a settimana.»
Zelda lasciò cadere un piccolo mazzo di chiavi sulla scrivania.
Nell'altra mano teneva una bottiglia e dei bicchieri che aveva portato direttamente dall'ufficio di Mulder.
«Non dovevi» Xavier le prese, «ma grazie.»
Lei si versò da bere.
Mezzo bicchiere si riempì di brandy, sotto lo sguardo di Xavier.
«Vuoi?»
«No.»
Zelda si tolse la giacca, lasciandola accartocciarsi al bordo del tavolo.
Si sedette vicino alla finestra, la luce della strada a illuminarle i vestiti.
«Com'era, Chicago?»
«Hai notizie sul carcere?» ribatté Xavier, accavallando le sue parole con le sue.
«No. L'unico che può sapere qualcosa è Mulder. Com'è andata a Chicago?» ritentò lei, inflessibile.
«Bene.»
«Liza mi sembra preoccupata. E anche tu» azzardò Zelda.
Dentro di lei stava maturando una tensione sincera, un'oppressione che sapeva di aver provato raramente per cose che non la riguardavano.
Xavier scoppiò in una risata nervosa.
«Lo siamo tutti.»
La guardò, come se la sua fosse un'ovvietà.
«Sai cosa intendo.» Bevve un sorso di brandy.
Poi buttò il collo all'indietro, a guardare il soffitto. «Non dirmi che è successo qualcosa.»
Sembrava una vera implorazione, quasi volesse scongiurare con genuina preoccupazione quella probabilità.
Xavier si morse la lingua.
La forza dell'abitudine gli suggeriva di applicare una risposta velenosa, salvo poi ricordarsi tutto quello che era successo alla stazione di Detroit. «Nulla di importante.»
Zelda tornò a guardarlo.
«Mi dispiace» mormorò, e sembrava davvero amareggiata, addirittura spaventata.
«Non fa niente. Non è successo niente.»
Lui abbassò lo sguardo a osservarsi le dita sottili. Erano solcate da microscopiche ferite, un tempo pellicine, sradicate per placare una tensione costante.
Con quelle parole falliva nel convincere se stesso, come poteva pretendere di persuadere Zelda?
Ma lei non aggiunse altro.
Prese un bicchiere, e disse solo:
«Non farmi bere da sola.»
«Ah, ecco dov'era la mia bottiglia.»
Mulder, stretto nel suo funereo completo, era sull'uscio.
Le mani sui fianchi, un'espressione di falso rimprovero sul volto.
«Se volete ubriacarvi avete il mio consenso, dopo stamattina.»
«Non è nemmeno niente di che» rispose Zelda di rimando, alzandosi di scatto mentre guardava la bottiglia.
«Era di Carter.»
«Il carcere?» chiese invece Xavier, portandosi una mano al collo per sistemare il colletto della camicia.
Oscar distorse le labbra in un sorriso sghembo.
«Tra venti minuti. Ci presentiamo e non possono dirci un cazzo.»
Zelda spense il motore, rimanendo a guardare fuori dal finestrino abbassato.
Un portacenere vicino a lei, la cintura di sicurezza appena slacciata, uno scolorito biglietto del Lullaby abbandonato sul cruscotto.
«Che cosa abbiamo intenzione di dire, a Andrew?»domandò.
Mulder la guardò dapprima stupito, quasi fosse evidente la risposta.
Poi sbuffò, rendendosi conto del contrario.
«Come ha conosciuto Enigma.»
«E a quel punto?»
«A quel punto dovrà confessare dove si trova, adesso.» Xavier lanciò un'occhiata attraverso lo specchietto retrovisore.
Nemmeno lui credeva alle sue stesse parole.
«È questa la parte difficile» ironizzò Liza, amara, prima di aprire la portiera dell'auto e tastare la terra arida davanti all'entrata del carcere.
Le luci dell'entrata sfarfallavano, i led erano coperti da uno spesso strato di polvere che oscurava le loro luci già deboli.
Passava poca gente per i corridoi del primo piano. Sembrava che tutti si fossero presi una pausa nello stesso momento, o forse erano solo nascosti da qualche parte, dietro una delle tante porte socchiuse da cui filtravano scie di sintetica luce.
«Abbiamo un incontro con Andrew Wilson. Era per oggi.»
Mulder stava attaccato al muro, le sopracciglia inarcate in un'espressione attenta.
Aveva addocchiato la guardia più giovane, "questo non sa nulla" aveva dedotto, e si era avvicinato con tutta la sicurezza e l'autorità di cui era capace.
Zelda guardava la scena da dietro la macchinetta del caffè, insieme a Liza.
Entrambe si mormoravano qualcosa di segreto.
Xavier, invece, si avvicinava a Oscar un passo alla volta con una cautela felina, discreto ed esilarante.
«Capisco. Dovrei chiedere di sopra, se mi date un attimo» rispose la guardia.
Osservava intorno, le mani a scivolare lungo le gambe, nervose.
«Certo, certo, ma comprende che andiamo di fretta. Con noi c'è anche la criminologa, necessitiamo di interrogare al più presto Wilson» lo informò Oscar, sfoderando la sua migliore faccia da poker.
Il ragazzo annuì, spostando il suo sguardo su Liza. «Va bene, allora chiedo un secondo e-»
«Intanto che chiede, potremmo fare già qualche domanda? Ora c'è poca gente, ma ho paura che dopo arrivino i giornalisti» esclamò Liza dal fondo del corridoio.
Si avvicinò, mentre lo sfondo dietro di lei sembrava diventare sempre più sfocato, tra i led poco illuminati e l'ambiente del carcere, statico e irreale nella sua vuotezza.
«I giornalisti?» Il ragazzo sembrò sbiancare, quasi fosse diventato il protagonista di un corto in bianco e nero.
«Sì. Di certo vorranno parlare dell'omicidio del capo della polizia, di tutti i dettagli sul ritrovamento del corpo, eccetera. Temo che saranno qui tra poco»disse, mentendo e sperando che il suo tono fosse abbastanza convincente per riuscire a dissuadere l'altro.
«No, ascoltate, credo che adesso non sia possibile avere un colloquio con Wilson.»
La guardia indietreggiò, accerchiata come la preda inconsapevole di un branco di giaguari.
«Perché, no?» Zelda assunse un'espressione vagamente confusa.
«Non aveva detto che sarebbe andato a chiedere, due minuti fa?»
«Sentite, non credo sia il momento adatto, se ci sono i giornalisti.»
«Se avete qualcosa da nascondere ai giornalisti, è molto meglio che prima ne veniamo a conoscenza noi» gli consigliò Xavier, severo e benevolo, mentre gli sorrideva.
Mulder gli scoccò un'occhiata, pensando.
Era ovvio che quelli del carcere stessero incespicando su loro stessi per trovare una scusa. Non volevano far parlare Andrew, il grande attore, lo straordinario Omero Moderno complice d'omicidio.
La guardia scosse la testa.
«No, sentite, potete tornare in settimana. Troveremo sicuramente un momento più adatto. Ma adesso non credo sia possibile-»
«Dov'è Andrew» Liza scattò con lo sguardo sul cartellino di riconoscimento del ragazzo per un rapido secondo, tornando subito a guardarlo in faccia.
«Dov'è Andrew, adesso, Micheal?» chiese.
Lui negò, «non è reperibile. Ma se poteste-»
«Non reperibile? È nel carcere, giusto?» domandò Xavier, falsamente confuso, inclinando la testa in un gesto lento e provocatorio.
«O è stato per caso spostato?» Gli fece eco Zelda, assumendo il suo stesso, dolciastro tono.
«Se fosse così dovreste avvisarci subito, giornalisti o meno.»
«No, sentite-»
«Loro lo verranno a sapere comunque.»
«Dipende sempre da come.»
Micheal negò ancora, lanciò un'occhiata esasperata ai Lynch, poi i suoi nervi – evidentemente non abbastanza allenati per sostenere i netti attacchi dei gemelli- cedettero, e si disfò in uno sbuffo sfinito.
«Porca puttana!» sussurrò, probabilmente rinfacciandosi di non essersi preso una pausa come tutti gli altri.
«No, non lo hanno trasferito» confessò, il volto preparato a una paura ancora più grande di quella che già lo contorceva.
Guardò Zelda e Xavier, poi passò a Liza e si fermò su Mulder, che aveva iniziato a osservarlo con un timore graffiante e malamente celato.
«Si è suicidato ieri notte. È in obitorio.»
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