Capitolo 46- Rifiorisce la terra al mio passaggio


«...ora un brano che Charles Mingus scrisse come elogio per il sassofonista Lester Young. Rilasciato nel '59, si tratta di Goodbye Pork Pie Hat...»
La radio prese a ronzare la sinfonia affilata del sassofono.
Delle cicale frinivano dietro alle siepi di alloro, sepolte sotto alle loro foglie lucide.
Xavier stava seduto al bordo del gazebo, le scarpe inondate di sole, il braccio placidamente lasciato andare a sfiorare gli steli d'erba cresciuta.
Teneva tra le mani un bicchiere colmo di ghiaccio sciolto, vicino a lui una caraffa a metà di gin fizz e un vassoio con due tartellette al limone rimanenti.

Liza leggeva Fitzgerald, dall'altra parte del tavolo. Regnava un teso e al contempo rassegnato silenzio, interrotto solo dallo sfogliare delle pagine e accompagnato dalla musica proveniente dalla radio appoggiata a terra.

Nessuno dei due osava iniziare una conversazione, immobili come figure di un quadro surrealista, sospesi nell'asettico sfondo del giardino.

La mente di Xavier era ancora fissata alla sera prima.

Promettete di attendermi?

Con cuore fedele.

La vita può essere bella.

E tante altre battute che gli erano rimaste incollate addosso, che aveva incredibilmente sentito e rese sue lungo quella discussione infinita.

Liza, invece, cercava senza tregua di seguire le parole che leggeva.
Come tante formiche in fila scorrevano, tutte uguali, indecifrabili al pari di lettere di una lingua antica.

L'intelligenza è poco più di un decimetro... più di un doppio decimentro... col quale vengono misurate le opere infinite delle circostanze.
Opere infinite delle circostanze...

Xavier si girò, versandosi un altro bicchiere di gin fizz, lasciando che qualche goccia gli scivolasse lungo il polso, fermando poi la sua corsa all'incontrare la stoffa leggera della camicia.

«Ho deciso di annullare il gala di domani sera.»
Liza chiuse il libro, appoggiandolo sul bracciolo della poltrona di ferro battuto.

«Perché?» chiese Xavier, senza nemmeno dare alla parola un tono interrogativo.
Bevve un sorso, mentre il ghiaccio tintinnava.

Liza si spostò i capelli dal mento, buttandoli dietro al collo.
«Credo ci serva un momento per staccare.»

Lui rimase in silenzio, limitandosi a un mh incerto.

«Possiamo lasciare da parte gli altri, le feste, per un po'» continuò lei, mentre mangiava piccole schegge di ghiaccio.
«Capisco quanto possano essere disorientati, all'inizio.» Rise sotto tono.
«Potremmo anche andare nell'altra casa. È nel centro città. Vicina a tanti locali, ci sono un sacco di negozi interessanti.»
Quasi volesse tenere alta la fiamma della reputazione di Chicago, Liza elencava ogni suo splendido e nuovo aspetto con una felicità debole e sommessa.

Xavier la ascoltava con attenzione, annuendo appena.
Poi sorrise, -un sorriso mite e comprensivo-.
«Liza» disse, mansueto, quasi volesse svegliarla da quell'illusione con tutta la dolcezza di cui era capace.
«Non può funzionare. Non a Chicago.»

Con quella dichiarazione qualcosa si era irrimediabilmente rotto.
Infranto, spezzato, caduto a terra e frantumato in migliaia di pezzi scricchiolanti.
La realtà, vera e brutale, aveva vinto.
L'unica cosa a cui non avevano mai dato peso, pensando che potesse adattarsi ai loro sentimenti, si era rivelata essere la causa di una crisi che sarebbe perdurata all'infinito, diventando sempre più aspra e vertiginosa, se non fosse stata cinicamente recisa sul nascere.
Dopo Enigma sembrava essere tutto rovinosamente declinato, come entrambi avevano segretamente iniziato a pensare da tempo, cercando ovunque un appiglio per sfuggire da quella verità.

Liza dischiuse le labbra, nel possibile tentativo di dire qualcosa, poi si portò una mano a coprire la bocca.
I suoi occhi erano fissi sulla radio sotto alla poltrona di Xavier.
«Grazie» esclamò, il tono della voce tinto di un sofferente sollievo.
«Io non» si fermò, voltandosi e forse strofinandosi un occhio, «io non avrei mai avuto il coraggio di ammetterlo.»

Xavier lasciò il bicchiere sul tavolo, alzandosi per sfuggire all'insopportabilità di quelle parole.
«Voglio che-»
La sua voce fu sovrastata dal suono acuto della suoneria del clearcircle.
Lui si mosse verso la sua luce fluorescente con lentezza, turbato da quel rumore improvviso.

«Sì?» Dapprima rimase serio, quando la figura di Zelda gli si proiettò davanti.
Ma c'era qualcosa di sbagliato sul suo viso, una paura radicata e totalizzante scorreva lungo i suoi lineamenti sbiancati.

«Xavier» chiamò, atterrita, senza nemmeno rendersi conto della presenza di Liza.

«Cosa è successo?»
Il cuore prese a battergli incontrollato, impazzito di fronte al suo tono smarrito.
«Cosa è successo?»

Il blu e il rosso di luci lontane le facevano da sfondo insieme a un sole quasi accecante, e Zelda si avvicinò al clearcircle, i capelli come lamine di rosso ingarbugliate.
Lo guardò dritto negli occhi.
«Enigma» disse.
«C'è stato un altro omicidio. È suo.»

Liza rimase seduta.
Abbassò le palpebre, concentrandosi sul suono della radio.

«È il ventuno di Marzo, l'inizio della primavera. L'atmosfera è soleggiata, le giornate più lunghe, la musica più pacata. E adesso Puttin' on the Ritz, di Ella Fitzgerald!»

Tutto si era svolto con l'allucinata qualità di un sogno.
Il telefono dell'ufficio di Mulder aveva squillato per un minuto, prima che lui rispondesse con uno scocciato "Chi è?".
Poi lo svolgersi della chiamata, i lineamenti di Oscar farsi sempre più contriti, il suo parlare ridursi a brevi mormorii.
La sua esclamazione attonita, "lo hanno trovato al Pandora" la sigaretta di Zelda che cadeva a terra, la porta che si apriva rivelando l'isteria collettiva del corridoio.
La consapevolezza e la realizzazione che quel giorno Carter non era in ritardo, e che non si sarebbe mai più presentato in centrale.

Fiori.
Fiori tra i suoi capelli biondi, fiori a coprirgli i vestiti.
Fiori intorno a lui, fiori al posto dei suoi bulbi oculari.
Carter stava immobile, congelato, morto sotto alle colonne ioniche del teatro.
Un'esplosione di genziane, rose, gelsomini e tanti altri fiori colorati e sporchi di sangue gli volteggiavano attorno in una danza macabra, come il vestito di scena di una perfetta rappresentazione del Sogno di una notte di mezza estate.
Un sole crudo batteva sul marmo dell'entrata del Pandora, le sue ombre a distendersi sulla strada come lunghi fiumi di buio.

«Rifiorisce la terra al mio passaggio. La primavera accoglie il mio ritorno.»
Zelda teneva la lettera che poco prima Carter aveva stretto tra le mani.
Lesse quelle frasi per due volte, a voce alta, davanti a Mulder.
Lui la guardava con preoccupazione.
Poi Zelda spostò lo sguardo al bordo del foglio. Ispirò, trattenendo a stento un sospiro spezzato.
«A Pandora. Che dal vaso possa uscire anche la speranza.»

Era lui.
Quella calligrafia curata, quelle metafore, quell'assoluta certezza che solo una persona potesse ideare un omicidio così personale.

La vide portarsi una mano al viso, sorridere di disperazione, e Oscar non fece nulla se non sciogliersi in una miriade di imprecazioni sussurrate, grondante di rammarico davanti al tetro silenzio di Zelda.

La speranza, pensò lei, osservando i floreali resti di Bennie, irrimediabilmente attratta dall'intenso profumo di quell'ammasso di fiori.

La prima cosa che le venne in mente fu la Grant.
Un pensiero vile, egocentrico nel suo cinismo, ma terribilmente gratificante.
Nessun libro, almeno per adesso, nessuna versione dei fatti se non quella che lei voleva dare.
Sentì come se una preoccupazione se ne fosse finalmente andata, abbandonata dalla sua mente troppo provata per realizzare davvero cosa stesse succedendo. Si sentì sollevata.

Poi arrivarono i sensi di colpa.
Attutiti, quasi promettessero di tornare più tardi, e Zelda li sentì avvicinarsi quando uno degli agenti chiese se qualcuno sapeva come contattare la moglie di Carter per darle la notizia.

«Penso sia a New York. Sua figlia inizia la prima elementare lì.»
Rispose un altro, e Zelda credette di vomitare. Quasi fosse lei la colpevole di quel crimine, quasi avesse strappato con le sue mani gli occhi di Bennie e decorato il suo corpo con quelle rose rosse.

Riuscì a capire Xavier.
La rabbia, il terrore e la follia disperata di una persona normale, tutte riflesse nei suoi occhi.
Il ricordo vivido e paradossalmente confuso del quindici gennaio, in quel momento davanti a lei, come pagine di un libro già letto che scorrevano, sottolineate, sotto la spinta del vento.

Desiderò di non sapere, di non aver mai visto un tulipano cadere dall'occhio di Carter, svelandone la cavità vuota.
Di non aver mai dovuto assistere all'arrivo dei primi giornalisti, al panico della centrale, a Mulder che notava con angoscia come le telecamere di sicurezza fossero state messe fuori servizio.
Ma aveva visto tutto, ed era stata trascinata da quel caos lungo la scena del crimine, dove Carter sembrava solo aspettare il suo arrivo.

Le rose la chiamavano a sé col loro profumo dolce, le margherite la ipnotizzavano con quei dischi d'oro contornati di petali candidi.
Tutto era così disgustosamente bello e curato per essere un omicidio, quasi un crimine del genere dovesse obbligatoriamente essere marcio e raccapricciante, senza alcuna parvenza di una perversa arte al suo interno.
Eppure quello davanti a lei era un grande elogio all primavera, alla sua poesia.
A Persefone, la sua triste regina.
Ma era anche un regalo: dietro quel macabro bouquet si celava un dono liberatorio.

A Pandora, lesse, e si sentì complice.

Quello era l'omicidio che Enigma aveva cucito su misura per lei.

Il treno comparve da oltre l'ultima galleria, scorrendo ancora di qualche metro lungo i binari. Stridette, prima di fermarsi bruscamente davanti a un cartellone digitale recante la scritta "Chicago/Detroit".

Le porte si aprirono. Gruppi di persone uscirono, disordinate come tante colorate biglie, lasciate sparse a rotolare sopra un tavolo.
Vigeva una confusione persa tra le chiacchiere della gente e la polvere del suolo sopra cui venivano sbattute decine di valige e suole.
Ma c'era uno strano ritmo, lento e misurato, in ognuna di quelle azioni che sembravano comporre l'affresco della stazione.
Il rumore battente dei passi, la risata lontana di una donna, il cinguettare di una tortora che aveva fatto il nido tra i cartelli di ferro del binario.
Tutto sembrava avere una poesia propria, una musica vibrante ad accompagnare ogni minimo, microscopico dettaglio.

Xavier fu il primo ad uscire dal vagone.
Appoggiò la valigia a terra, davanti a lui.
Vestito con un completo di tela bianco, come di ritorno da una festa antica, era una piccola imperfezione in quella grandine di abiti colorati.

Guardandosi intorno, era alla ricerca di qualcosa di incerto, qualcosa che probabilmente nemmeno si trovava lungo i binari di quella ferrovia.
Si spostò sotto a una chiazza d'ombra offritagli da un cartellone pubblicitario appena installato, recante il beffardo titolo del nuovo spettacolo del Dionysus. Lanciò un'occhiata distratta alle meduse sopra di lui, troppo assorbito nella sua personale marea di pensieri per preoccuparsi di quell'inserzione pubblicitaria.

Zelda apparve dalle scale sotterranee.
Le punte dei capelli visibili sotto il cappello, l'orlo del vestito color pesca mosso dal vento, sottile come l'ala rosea di una libellula.
Quando notò Xavier si fermò, togliendosi gli occhiali a rivelare lo sguardo esausto, contornato da un velo di occhiaie.

Lui, invece, fece per avvicinarsi di pochi e insignificanti passi, lasciando la valigia distante, dimenticata all'ombra.

Zelda percorse lo spazio che li divideva.
Lanciò una breve occhiata al cartellone, poi tornò a guardare davanti a sé.

Si osservarono, assorti a contemplare i tanti minuscoli cambiamenti che avevano subito.
La mantella di raso di Zelda, che aveva tanto desiderato e che le oscillava addosso, finalmente sua.
Il volto di Xavier, che invece di essere rifiorito appariva ombroso e dimagrito.

Lui si passò il polso sulla fronte, distogliendo lo sguardo.
Sentiva di dover dire qualcosa.
Qualsiasi cosa potesse giustificare tutte quelle settimane spese in una spirale di indifferenza.

Ma Zelda, il viso rischiarato da una striscia di sole, le labbra contorte quasi stesse cercando di non piangere, fu la prima a parlare.
«Ti do una mano con le valigie?» chiese.
L'altro scosse la testa.
«Non serve» riuscì a dire, prima che lei lo stringesse a sé, d'istinto, spaventata e sollevata al contempo.

Lui ricambiò immediatamente la stretta, quasi aspettasse quel gesto di riappacificazione da una vita intera.
L'accolse in una morsa frenetica e disperata, bisognosa di essere corrisposta a lungo.

Zelda, il mento sopra la sua spalla, chiuse gli occhi. Le ciglia umide, le mani congiunte una all'altra, arresa a un'inquietudine offuscata.

Tutti i rancori, i sensi di colpa, le parole che un tempo avevano punto come scorpioni in quel momento avevano lasciato spazio a un urgente bisogno di scusarsi.
Un'ombra più cupa e densa si posava sul loro prossimo futuro, il ritorno di una memoria che cercavano di dimenticare, ma che aveva strappato i punti della ferita che avevano tentato in tutti i modi di risanare.
Non c'era spazio per i torti, il tempo scarseggiava per potersi rinfacciare gli errori commessi.
Così quel gesto, quel silenzio consapevole, assumeva un significato molto più intimo: insieme a quella quiete si stavano scambiando anche il perdono, o ciò di più vicino al perdono che fossero in grado di esprimere, assolvendo i loro sbagli come se ne avessero avuta davvero la facoltà.

Almeno per adesso, pensò Xavier, anche se desiderava fosse per sempre.
Almeno per adesso necessitavano di sentirsi al sicuro, di illudersi che tutto si potesse azzerare per gli istanti che passavano lungo quei binari.

Ma da fuori erano solo due persone felici di rincontrarsi, strette in un comune abbraccio illuminato dal sole freddo di quella mattinata d'inizio primavera.

Liza scese dal vagone, e il treno ripartì per Chicago.

«Tu... hai avuto un sacco di guai, vero? Oltre questo... ho saputo di tua moglie.»

«Mh, già. Forse non sarebbe successo, se lei avesse mantenuto la parola.»

Il bacio della Morte scorreva lungo il piccolo schermo dell'unica televisione dell'area ricreativa.

Tutti fissavano in alto, a guardare i due protagonisti parlare.
Avvocato e criminale, entrambi in prigione, e Andrew trovò la cosa abbastanza divertente.
Aveva già visto quel film tre volte, e sembravano darlo sempre nelle ore in cui era concesso loro di guardare la televisione, come uno scherzo di cattivo gusto del destino.
Andrew sorrise: forse era davvero così.

Lui non ascoltava, sentiva quelle parole dall'accento transatlantico scorrergli addosso senza distrarlo da ciò che stava leggendo.
Gli avevano concesso di tenere un libro, dicevano per buona condotta. Forse era solo perché era lui, odiato per quanto fossero evidenti i favoritismi nei suoi confronti.
Aveva accettato la proposta, scegliendo il Prometeo Incatenato di Eschilo.
Lo teneva sopra alle ginocchia. Il gomito sul tavolo, la testa appoggiata al palmo della mano, dove riccioli lucidi gli serpeggiavano lungo le dita.

«Cambia, metti un po' di telegiornale» disse uno seduto vicino alla finestra, per poi bestemmiare contro il ragazzo che teneva il telecomando.
Quello cambiò canale tra un'imprecazione e l'altra. Apparve la schermata del telegiornale nazionale, la giornalista intenta a presentare la notizia più recente, lo sfondo di una città illuminata dietro di lei.

«Un caso che sembrava risolto, torna a preoccupare Detroit. È arrivata la notizia che il killer denominato dalla stampa e da lui stesso "Enigma" possa aver colpito di nuovo ieri pomeriggio. La vittima è stata riconosciuta, e si tratterebbe del capo del dipartimento Omicidi della metropoli, Bennie Carter...»

Sussulti increduli, occhiate scambiate, teste che si voltavano nella stessa direzione, attratte da un evento tanto assurdo quanto avvincente.

Andrew chiuse lentamente il libro, tenendo il segno con un dito. Alzò lo sguardo, fissando il televisore.

«Il cadavere è stato ricoperto di fiori, e il messaggio lasciato da Enigma sembra essere: "rifiorisce la terra al mio passaggio. La primavera accoglie il mio ritorno"» esclamò la giornalista, monocorde.

Andrew sorrise, devoto, folgorato da quelle parole.
Guardò la copertina del libro, gli occhi che gli brillavano di una luce fosca e alienata, i lineamenti distesi in un'espressione di tacito accordo.

«Questo fu il giorno del ritorno di Persefone, proprio all'inizio della generosa primavera» mormorò.

Poi tornò a leggere.

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