Capitolo 41- Hai presente Thelma Grant?

Non si era mai accorto di quanto Liza fosse ricca, finché non era arrivato a Chicago.
Gli aveva mostrato la residenza che aveva rinominato come estiva, una splendida villa dagli intonaci color panna che affacciava su un immeso e obroso giardino a labirinto.
Le ampie scale dell'ingresso, il roseto curato maniacalmente, il salotto a cupola, colmo di vetrate sempre pulite e lucenti.
Tutto era al suo posto, tutto era intonso e al contempo vissuto, come nella più elegante delle case signorili.
E Xavier si guardava intorno, perso tra le luci delicate e la preziosità di qualsiasi cosa su cui posasse lo sguardo, intimorito e sedotto da quel mondo finemente ammaliante.

Liza lo avrebbe lasciato osservare ogni singolo infisso della cucina se lui avesse voluto, pur di mantenere nel suo sguardo quella luce di fascino nell'osservare e sfiorare ogni tenda che adornava la serra interna del piano terra.
«Le piante le curerai tu, d'ora in poi.»
Gli si avvicinò mentre era intento ad ammirare un'immensa dracena dalle foglie ordinatamente rigate di giallo.

Lui rise, «le farei morire tutte. Non credere che abbia il pollice verde.»
Lasciò andare dalla mano una delle spesse foglie.
Un sorriso candidamente contento gli addolciva le labbra.

«Non credo proprio» disse Liza, accomodandosi sul divano di pelle bianca posto al centro della stanza, contornato da begonie rosa.
Xavier le si sedette vicino e lei appoggiò la tempia sulla sua spalla, lo sguardo rivolto verso la vetrata del tetto.
Inspirò a fondo, poi chiuse gli occhi, sfiorati da un petalo di begonia di un ramo troppo lungo.

Xavier giocava coi capelli dell'altra, attorcigliando una ciocca scura in un piccolo vortice di pece. Amava quei fili di carbone, amava chi li portava e amava i suoi occhi in un modo segreto, ardente e ai limiti del poetico.
E anche se non c'era nessun dubbio su quei sentimenti che lo rasserenavano insieme al lontano e mischiato profumo dei fiori, Xavier riflettè sul perché non li avesse mai davvero esternati nella maniera di tutti.
Del perché entrambi non si fossero mai, esplicitamente, detto di amarsi.
C'erano stati tanti attimi, alcuni non più lunghi di uno sfarfallio di ciglia, in cui era stato tentato di ammetterlo, quasi fosse una confessione.
Vederla inarcare le sopracciglia mentre leggeva, sfiorarle la schiena nuda e pallida, ascoltarla parlare mentre indossava uno dei suoi orecchini di perle. Tutti momenti perfetti per un semplice ti amo innocuo, detto senza troppe pretese, per puro affetto.

«Stasera siamo invitati a un gala, dagli Hayes. Io devo andare per forza.» Liza prese dal comodino una copia di Belli e Dannati, da cui sbucava un segnalibro bianco.
Girò il voltò, guardando l'altro.
«Ma se non ti va di accompagnarmi, posso sempre darti per malato, mon cher» aggiunse.
«Una terribile allergia.»

«Febbre alta?» Continuò Xavier, sorridendo.

«No, che figura farei? Lasciarti a casa mentre rischi di morire, in preda alle allucinazioni? Meglio un semplice raffreddore.» Iniziò a sfogliare il libro.
È come un raggio di sole che guizza qua e là in una stanza, lesse.

«Andata.»

Vivevano di un amore insolito, in facciata freddo e distante, quasi quello di una coppia sposata da anni. Eppure era vivo in ogni occhiata pungente, in ogni battuta e in ogni attimo di convivenza.
Avevano unito i loro caratteri senza cambiarli di una virgola, in un risultato bizzarro eppure così intimo da essere assolutamente naturale.

Forse rimpiazzavano quell'esternazione dei sentimenti con la complicità.
Forse non serviva loro ripetersi ogni giorno quanto fossero legati per comprenderlo.

"Enigma: La Perfezione"

Era il titolo del mese, svettante sulle pareti scure e patinate del Dionysus.
L'ologramma del Dio del Teatro indicava la pubblicità col suo sorriso beffardo, quasi a consigliare quell'esibizione.
E mentre beveva da una coppa, contornato da proiezioni lontane di Baccanti, esclamava i nomi degli attori coinvolti.

Spettacolo inedito, regista che si diceva ispirato dal caso, biglietti venduti in pochissimi giorni a persone da tutto il Michigan.

«Ma che rincoglioniti.» Mulder camminò davanti alla facciata del teatro, strizzando gli occhi nel tentativo di osservare meglio le locandine.

«È già sold out» constatò Zelda, spettro pallido nel suo coppotto bianco primaverile, coperta dal fumo inconsistente di una sigaretta appena accesa.

«Che branco di rincoglioniti.»
Si corresse lui, prima di avvicinarsi all'entrata dell'edificio.
Raccolse un depliant da uno dei porta giornali di metallo posti vicino alle transenne.

"Enigma: La Perfezione. Un artista, un attore, un uomo tormentato. Cosa passa veramente nella mente di Andrew Wilson, il presunto omici-"
Mulder accartocciò il foglio in una morsa scricchiolante.
«Non hanno nemmeno aspettato un anno. Si comportano come se lo conoscessero da sempre. Come se sapessero per certo che è innocente» disse.

Zelda contemplava la vetrata davanti a lei, un caleidoscopio di vecchie e nuove locandine.
Fissava quella su Wilson.
«Ci siamo anche noi» disse monocorde, indicando foto di attori sorridenti che li avrebbero interpretati nello spettacolo.
Un frammento di un gelido sorriso le attraversò le labbra.
Non si poteva fingere ciò che era successo risultando convincente.
Era impossibile improvvisare dettagli nascosti a qualsiasi occhio esterno, sarebbe stato come recitare seguendo un copione non finito.
Nessuno poteva interpretare quei ruoli se non i reali attori di quell'assurdo e ancora incompleto secondo atto.

C'era odore di erba tagliata.
Un giardiniere, sotto di loro, stava potando le aiuole della centrale, e il profumo del prato si arrampicava sul cemento caldo della Centrale, infiltrandosi nelle finestre pigramente socchiuse.

«Zelda!» Liza si sistemò i capelli.
Li aveva tagliati di qualche centimetro, dall'ultima volta che l'aveva vista.
Era stato cinque, sei giorni prima, e si erano sentite per la loro chiacchierata.
Ogni chiamata, ogni volta in cui appariva il suo ologramma, Liza non faceva altro che essere felice. Era felice a Chicago, era felice dell'estate che si stava avvicinando, era felice di sentirla per parlare. Assolutamente e terribilmente felice per tutto.

Zelda le lanciò qualche occhiata.
Sì, si era decisamente tagliata i capelli.

«Come stai?» chiese lei, radiosa, alle sue spalle delle vetrate riflettenti un giardino immenso, come cristallizzato nel tempo.

Zelda ricambiò quel sorriso con una sua più incrinata e ombrosa copia, «tutto bene» disse, prima di appoggiare i gomiti alla scrivania.

«Da voi fa' ancora freddo? Qui è estate. Devi venirci a trovare, ma chérie
Un raggio di sole le illuminava l'occhio sinistro, facendolo brillare di un riflesso ambrato e prezioso.

«Vorrei tanto» Zelda si fermò, riempiendo quella pausa con una breve risatina, «ma qui c'è troppo da fare.»

«Cosa sta succedendo?» domandò Liza, mentre un'espressione più contrita si faceva spazio tra i suoi lineamenti illuminati, «da quello che dicono qui, state tutti impazzendo.»
Continuò, ironizzando appena.

«Può darsi. Credo sia colpa dei giornalisti.»

Cadde un lungo silenzio, durato qualche teso secondo di troppo.

«Bien» soffiò alla fine Liza, sistemandosi sulla sedia, «lasciamo da parte cosa succede là fuori. Come ti senti?»

Zelda scosse la testa, mentre si versava un bicchiere di acqua e limone da una caraffa di plastica che teneva su una pila di fogli.
Alzò la brocca, e cerchi umidi, quasi fossero ideogrammi di una nuova lingua, rimasero impressi sulla carta.
«Non sto particolarmente male, Liza.»
La rassicurò, prendendo il bicchere tra le mani.
«Sta succedendo di tutto, è vero, ma non mi sento sopraffatta.»
Le sembrava così strano sentirsi dire cose del genere, che credette di essere riuscita a mentirsi da sola.
Forse era arrivata a un livello di bravura per cui riusciva ad ingannare anche la più infinitesimale parte del suo subconscio.
Ma se non fosse stato così, se davvero le sue parole fossero state autentiche, per quanto lo sarebbero rimaste?
L'oppressione con cui aveva convissuto ora riposava, esposta ai rumori.
E aveva un sonno molto leggero.

Liza pensava, si sfiorava le labbra con una mano. «Ho capito» disse, ma prima che potesse continuare Zelda la interruppe.
«Non lo so, forse sono solo guarita» esclamò.
Forse erano le medicine, -Liza aveva deciso di aumentarle di poco le dosi quando era partita, quasi dovesse accertarsi che non sarebbe successo nulla- forse stava solo perdendo il contatto con la realtà, sbiadendola a suo piacimento per renderla più sopportabile.
Ma se serviva a farla sentire tranquilla, vuota, almeno, perché no.

Liza si sciolse in una breve e ironica risata,
«no, non credo proprio» ammise con un cinismo gentile, per poi scoccarle una strana occhiata, quasi avesse intuito che c'era qualcosa di sbagliato in quella conversazione.
«Come ti trovi con le nuove dosi?» chiese, secca, prima di prendere quello che sembrava un block-notes, «vanno bene, o sono troppo

Zelda si versò di nuovo acqua e limone, «vanno benissimo.»

«D'accordo, senti, io direi-» Una nuova e cadenzata voce si era sovrapposta a quella di Liza.
Sembrava abbastanza vicina per essere udita, come un suono sottile e incomprensibile, ma troppo lontana per comprendere le parole che pronunciava.

Liza si voltò di lato, rispondendo con qualche veloce e coincisa frase a quella voce.

«Xavier è lì?» chiese d'impulso Zelda.
Aveva provato a rintracciarlo, ad aspettare quella lettera che le aveva promesso, ma lui era diventato una chimera rara e introvabile, mimetizzata tra le tende di velluto e le grandi vetrate della casa di Liza.

Lei rimase ferma, immobile come una sfinge. Sorrise, «ah, sì, è qui» ammise, «ti saluta.»
Poi si scusò: doveva assolutamente riagganciare, aveva da preparare ancora tutto per una festa della sera stessa.

L'ologramma scomparve, e Zelda rimase a guardare davanti a sé per qualche minuto, contemplando la mite staticità del suo ufficio.

«Come sta, la francese?»
Dei passi si fecero spazio lungo le mattonelle tiepide e irraggiate di sole del pavimento.

Zelda si alzò in un fruscio, voltandosi con la rapidità di una serpe alla quale è stata pestata la coda.
«Benissimo» disse.
Inarcò le labbra, mostrando i denti in un sorriso acre e affilato, quasi potesse sprizzare veleno dai canini lucenti.

Carter oscillò fino alla caraffa d'acqua, e se ne versò un bicchiere.
Sembrava accaldato, quasi fosse stato fuori, sotto al sole, per ore.
«Sai, tuo fratello si è preso due settimane di ferie.»

«Lo so.»

Bennie battè le dita sul bordo del bicchiere, prima di bere un sorso.
«Ho come l'impressione che ci resterà di più.»

Zelda inclinò il viso, mantenendo un'espressione neutra, «questo lo deciderà lui» affermò, con un tono morto e lapidario.

«Certo, certo», Bennie fece per passare il suo bicchiere vuoto a Zelda, ma lei rimase a braccia conserte, «però vorrei che si ricordasse che lavora ancora qui. Non può scomparire per troppo tempo, capisci?» la fece ragionare amichevolmente, quasi stesse parlando con uno dei suoi.

Zelda gli scoccò un'occhiata con la coda dell'occhio, «Xavier non ha mai chiesto ferie. Credo che ne abbia diverse arretrate» gli ricordò solo, prima di far morire un'altra volta quella surreale conversazione.
Era scattata in difesa di Xavier senza nemmeno rendersene conto, un riflesso istintivo, come se nessuno a parte lei avesse mai potuto insinuare nulla sul suo conto.

«Vero», Carter annuì, odiosamente diplomatico, «è davvero un lavoratore modello» aggiunse, con un incomprensibile tono.

Lei si limitò a guardarlo, senza la minima idea di come ribattere.
«Direi di sì.»

«Vi sentite ancora?» attaccò di nuovo lui, sfacciato, «voglio dire, dopo che è partito non ci sono stati rancori, giusto?»

«Che cazzo di domanda è?» Zelda lo fissò, incredula che quello davanti a lei fosse il Carter che conosceva, disinteressato a tutto se non alle sue conquiste.
No, in lui c'era qualcosa di assurdamente sbagliato, ancora più sbagliato di quanto già di per sé non fosse.
Nella sua voce non c'era curiosità, quanto più necessità di sapere.
Quell'atteggiamento insolito, gentile e quasi remissivo stava a nascondere qualcosa di diverso.

«Non ti scaldare, uccellino» l'attaccò lui, «è solo per sapere. Sai, è un discorso che gira in centrale, voglio dire, ti ha lasciata qui a Detroit e sembravate così affiatati» esclamò, dimenticandosi completamente dell'esistenza della punteggiatura.

Zelda rimase in silenzio, la bocca dischiusa, quasi le parole da pronunciare non riuscissero materialmente a crearsi.
«Che cosa vuoi, Bennie?» domandò infine.

«Ascolta» lui le afferrò senza forza un avambraccio, lei si ritrasse subito, «hai presente Thelma Grant?»

«Mi prendi per il culo?»

«Ecco, vuole scrivere un libro sul caso Enigma. Ovviamente ha chiesto a me di fare da portavoce per i fatti, vuole essere realistica e tutto il resto, sai.»

Zelda scoppiò a ridere. Acida, esclamò:
«Ma se non hai assistito a nemmeno un terzo delle indagini!»

Non riusciva a capacitarsene.
Cosa si sarebbe inventato?
Avrebbe riscritto la storia nel senso più letterale possibile, ne era certa, e non osava immaginare con quanti dettagli egocentrici avrebbe farcito tutta la vicenda.

«Mi ha chiesto di raccogliere informazioni, quelle sul caso ovviamente le avevo già», continuò lui, imperturbabile, «ma lei vuole fare una cosa più... come la chiamano gli scrittori... più introspettiva, ecco.»

«Più introspettiva?»
Zelda sbattè lentamente le palpebre, come ipnotizzata dalle sue stesse, lente e scandite parole. Sapeva dove voleva andare a parare.

«Sì, sì, ha intenzione di raccontare la vita dei detective», Carter annuì, sfregandosi le mani sudate, «e le servono vostre informazioni.»

Davanti al terribile silenzio di Zelda, Bennie aggiunse:
«Non so... aneddoti su voi due, sulla vostra vita, su come avete vissuto il caso. Pensavo di proporle la notte del quindici gennaio, con la cabina spaccata e tutto, hai presente. Ma non credo basti, quindi se puoi-»

Zelda era sull'uscio, il pacchetto di sigarette in mano e la certezza di non poter reggere ancora una parola.

«Dove stai andando?» chiese Carter, una lieve irritazione che stava iniziando a mostrarsi lungo i linementi.

«A prendere un caffè.»
Zelda fece scorrere la mano lungo lo stipite della porta, prima di scomparirne all'esterno.

«Non è un favore, quello che ti chiedo.»
Bennie la seguì lungo il corridoio, lei si fermò.
Un gruppo di detective esperti e studenti in prova dall'Accademia stavano passando, come uno stormo di aquile e pettirossi.

«Potevi darmi qualche particolare innocuo, e io avrei usato quello, capisci? Lo avrei fatto per avantaggiarti. Ma la Grant vuole quei dettagli, e io posso dargliene quanti ne desidera.
Posso raccontare ciò che voglio, sai.
Di certo mi crederà. Ci sono così tante cose interessanti da dire, partendo dalle scatole di Valium.»
Le scoccò un sorriso mellifluo e disgustosamente complice.

Il gruppo davanti a lui rallentò di poco il passo, con discrezione.
Alcuni tra gli studenti si voltarono, ma furono subito messi in riga dai detective che li accompagnavano.

«Bene», disse Zelda, «racconta ciò che vuoi»dichiarò, inflessibile.
Continuarono a osservarsi per qualche secondo, sfidandosi in un'orribile gara di freddezza.

Carter fu il primo a cedere, e mosso da un impeto di fastidio si voltò, avviandosi verso l'ufficio di Mulder.
Lo trovò chiuso, così continuò a vagare per il corridoio, fino a svoltare a destra e scomparire.

Zelda espirò, buttando il collo all'indietro, arretrando quasi le avessero sparato.
Si portò il palmo della mano alla bocca, riflettendo, non smettendo di farlo nemmeno per un frenetico secondo.
Immobile in mezzo al corridoio, anche i detective che prima l'avevano ignorata per professionalità inizarono a tirarle qualche occhiata perplessa.

«Va tutto bene?» una ragazza vestita con l'uniforme dell'Accademia si era staccata dal gruppo, avvicinandosi.

Zelda scosse la testa, annuendo, «sì, grazie»esclamò, fredda e autorevole, tanto che l'altra rimase quasi confusa, sicuramente intimidita, da come avesse cambiato attitudine in così poco tempo. 

Non poteva dare confidenza a una cadetta di massimo vent'anni, Zelda lo sapeva bene, ma sperò per tutti quegli angoscianti secondi in sua compagnia che al suo posto ci fosse stata Liza.
«Sì, grazie» ripetè più secca, quando notò che quella non si muoveva dal posto.
La vide fare retromarcia, come una piccola e spaventata saetta, per tornare al sicuro in mezzo al suo branco.

Si chiese cosa sarebbe successo.
Cosa avrebbe causato quel libro, cosa avrebbe saputo la gente su di lei, cosa avrebbe pensato la gente su di lei.

Quanto successo avrebbe conquistato, quel romanzo? Tanto, troppo, già lo sapeva.
Se fino ad allora era stato relativamente semplice nascondere veramente la sua persona, con la storia filtrata secondo Carter si sarebbe rovinata.
La sua carriera, la sua immagine, la sua vita, tutto spazzato via come un mucchio di foglie secche da bruciare.

Bloccò con violenza quel flusso incontrollato di pensieri.
Ci avrebbe pensato dopo.

Doveva pensarci dopo, se non voleva svenire davanti alle reclute in visita.

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