Capitolo 38- Difendersi e anticiparli
Marzo.
Un sole più quieto e docile batteva sulle vetrine, una brezza più leggera e tiepida faceva innalzare sottili ciocche di capelli.
L'atmosfera aveva una fragranza dolce, fiorita, nuova.
Anche in mezzo al traffico e a palazzi che quasi oscuravano il cielo, l'aria sembrava più limpida e fresca, non ancora abbastanza calda per far sbocciare l'estate, ma con la promessa che presto sarebbe arrivata.
Mid-Town era affollata.
Un miscuglio di voci, di completi primaverili e di alberi radi ma rinati e rigogliosi dopo la loro temporanea morte invernale.
Nei megafoni posti ai lati della via rimbombava Baby, won't you say you love me.
Brani romantici e sognanti si ripetevano lungo tutte le strade principali del centro, in un circolo infinito di spensieratezza.
Due tacchi di vernice bianca entrarono sull'uscio di un negozio d'abiti, per poi fare subito marcia indietro, ritornando sull'asfalto asciutto del marciapiede.
Zelda stava in piedi di fonte a una vetrina da cui traspariva la luce color albicocca dell'interno, ammirando quel vestito da cocktail che da mesi non aveva mai smesso di desiderare.
«Baby, won't you say you love me
Till you do I can't be right»
Sibilava le parole della canzone, distrattamente, guardandosi intorno con annoiata classe.
«Credi che abbiano calato il prezzo?» domandò poi, mentre abbassava gli occhiali scuri e rotondi che aveva iniziato a indossare da poco più di una settimana.
Le conferivano un'aria discreta e raffinata, utile per passare inosservata tra la folla.
Portava una camicetta azzurrina dallo scollo a cuore e una gonna candida che le scendeva poco più sopra del ginocchio.
Colori chiari per uniformarsi alla massa di abiti pastellati che aveva iniziato a riempire le strade di Detroit appena i raggi del sole erano diventati più docili e confortabilmente caldi.
«Non ne ho idea. Vai a chiedere» rispose Xavier.
Si allontanò di qualche passo, andando a guardare la vetrina all'angolo del palazzo.
Lei mormorò qualcosa tra sé e sé.
Si guardò nel riflesso della vetrina, sistemando il foulard che teneva attorcigliato intorno al collo. C'era troppa gente, e non voleva essere riconosciuta.
Si diede una rapida ravvivata ai capelli, e per la prima volta il loro colore così acceso le sembrò sbagliato.
Un rosso vivo, sanguinolento, decisamente troppo appariscente.
«Non avevi detto che volevi chiedere?» Xavier le si affiancò.
Teneva tra le mani il quotidiano del giorno.
Aveva smesso di leggere i giornali da settimane. Non che servisse molto, visti i continui ologrammi con la loro immagine che troneggiavano su gran parte dei palazzi del centrocittà.
Non che servisse, viste le continue lettere che venivano spedite in centrale e che sistematicamente erano gettate dopo una rapida e superficiale occhiata.
«È uguale» rispose Zelda, piegando il mento a sfiorare lo sterno, mentre, tenendo le mani nelle tasche della gonna, dava piccoli calci a una sigaretta spenta per terra.
«Non c'è nessuno, nel negozio» Xavier le sfiorò le scapole, invidandola con una spinta inconsistente a superare l'uscio.
Un raggio di sole filtrante dall'insegna in ferro battuto sopra di loro gli illuminò una porzione di volto.
«No... no, è uguale» ripetè lei, «non potrei permettermelo comunque.»
In quelle ultime settimane aveva speso l'inverosimile per qualsiasi cosa le passasse per la mente.
Si era attivato uno strano meccanismo per cui ormai niente aveva più molta importanza, perciò era inutile tentare di trattenere i risparmi per dei piani talmente futuri da essere sfocati.
E non darsi limiti in niente era stato, in un primo momento, quasi terapeutico.
Una volta fatta l'abitudine era diventato solo un senso di colpa in più da aggungere alla sua infinita lista, e quell'assuefazione anarchica si era spenta con la stessa rapidità con cui si era infiammata. Così, in un mese si era ritrovata con un guardaroba completamente nuovo, un arredamento più elegante e un vuoto cosmico nel petto.
«Piuttosto, guarda qualcosa per te» propose lei, graziandolo con un breve sorriso.
Lui rispose con un'alzata di spalle, «vediamo,» disse, sorridendole di rimando.
Dopo l'episodio al Dream sembrava custodire Zelda in una teca di cristallo.
La osservava, le sorrideva, scherzava e annuiva. L'accompagnava nei suoi giri vuoti e infiniti per la città standola ad ascoltare e trattandola con gentilezza.
Gentilezza, niente di più.
Non riusciva a trasformare quella cortesia in affetto, per quanto ci provasse.
Ma agli occhi di lei doveva sembrare qualcosa di più simile possibile.
Doveva, glielo ordinava un senso di colpa ancora sconosciuto, una sensazione di tradimento di cui prima o poi Zelda sarebbe venuta a conoscenza.
E voleva attutire la caduta, per quanto fosse stato possibile. Se fosse stato possibile.
«Avanti» lo incoraggiò Zelda, «ho visto un gessato di un bellissimo colore.»
Negli occhi le si alternavano bagliori tranquilli ad alcuni, meno percettibili, più inquieti.
Ma non sapeva, ignorava tutto quello che ancora Xavier non aveva avuto il corraggio di dirle, e quella cortesia che le mostrava era come acqua fresca gettata sui suoi rimorsi, fatta apposta per alleviarli.
Sentì quasi di volergli bene, o forse scambiò solo l'affetto con il senso di libertà che quella pace le donava.
Una spirale di vento leggerò scorse per il vicolo, facendole muovere gli orli della gonna.
«Ti accompagno» insistette, ricompensandolo moralmente per tutte quelle piccole attenzioni ingiustificate.
Xavier la guardò per qualche secondo, prima di annuire e tornare a osservare la vetrina.
Nel riflesso del vetro vide due persone avvicinarsi, lentamente.
Silenziose come pantere, si erano mimetizzate nella folla come fosse la loro giungla personale.
«Eccoli» Xavier scoccò loro un'ultima occhiata, prima di passare il quotidiano da una mano all'altra.
Un momento prima che la macchina fotografica del giornalista potesse scattare, lui si coprì il volto con i fogli di giornale.
Quelli rotearono davanti al suo viso come una ruota di pavone.
Zelda si trovò a pochi centrimentri dagli occhi la pagina sportiva, mentre l'odore della carta e dell'inchiostro fresco le invadeva le narici.
L'unico scopo utile che i quotidiani avevano, per Xavier, era quello di protezione.
Difendersi e anticiparli, diceva lui, riferendosi a quei giornalisti che in qualche modo riuscivano sempre a trovarli.
«Una foto per il Jasmine?» chiese l'uomo dietro alla macchina fotografica.
«Incremento del tasso di omicidi?»
«Dieci percento.»
«Omicidi e aggressioni registrati sul territorio di Detroit negli ultimi trenta giorni?»
«Trecentocinquantasette.»
«Quanti di questi sono collegabili al caso Enigma?»
«Approssimativamente duecentodieci.»
«Cazzo» soffiò Mulder, portando le mani sui fianchi.
Aveva le maniche della camicia arrotolate sui gomiti e si lamentava del caldo fottuto, che se era l'unico ad averlo notato.
«Lo so, c'est de la folie» Liza buttò sulla scrivania i resoconti delle ultime statistiche.
Sì, era una follia.
Un delirio tanto incredibile quanto reale.
«L'altro ieri abbiamo arrestato tre ragazzi, te l'hanno detto?» Mulder tirò su col naso, mentre si passava una mano sul collo.
«No»
«Tre studenti di biologia. Avevano rapito una loro conoscente, volevano bruciarle le pupille. Ti ricorda niente?»
Liza distolse lo sguardo, portandosi le mani agli occhi come se volesse scacciare un brutto sogno che le veniva proiettato davanti.
«Settimana scorsa? L'omicida di Harmonie Park District? Lo cercavano da anni, sono riusciti a prenderlo per il suo ultimo omicidio. Si è detto ispirato da Enigma per il Jazz.»
«Lettere.» Xavier superò l'uscio dell'ufficio, abbandonando sul tavolo una pila disordinata di buste.
Erano tutte indirizzate alla Centrale, ma non era raro che alcune venissero spedite ai loro appartamenti.
Le prime volte erano state dei colpi al cuore, dei piccoli principi di infarto che avevano smesso di avere senso man mano che le lettere aumentavano e venivano smentite.
Le dichiarazioni d'amore più disparate si intervallavano a creative minacce di morte e finti messaggi di Enigma.
La maggior parte delle volte Zelda le spediva direttamente nella spazzatura, quando le trovava.
Di solito era Xavier a prendere anche le sue e buttarle per lei, prima che potesse vederle.
Mulder raccolse la prima busta, «questa è per Liza.»
Lei scosse la testa, «non voglio leggerla. Sarà come tutte le altre.» Poi però la afferrò, scartandola nel modo più silenzioso possibile.
«Questa» Mulder la osservò.
Lesse il nome di Zelda, «è per me» disse.
«Lascia stare,» rispose lei, quasi infastidita, «passamela.»
Odiava che le si mentisse così spudoratamente, con lo scopo di proteggere quell'essere indifeso e fragile che appariva agli occhi degli altri.
«Grazie» sospirò poi, calando di tono.
Mulder non lo faceva con cattiveria.
Era mosso da un senso di compassione che ormai tutti provavano per lei, e se non avesse davvero voluto arrivare a quei punti, si sarebbe dovuta comportare in maniera diversa molto tempo prima.
Xavier prese le sue.
Le degnò con una breve occhiata, prima di aprire una.
«Ammiratrici?» chiese Mulder, sghignazzando per stemperare la tensione.
«Se la promessa di tagliarmi la gola può essere considerato un gesto romantico, allora direi di sì.»
«Ti è andata peggio della scorsa settimana.»
Zelda distese le labbra in un sorriso esile, Liza rise mentre osservava con velata preoccupazione il testo della lettera.
«Sempre meglio che darti del vecchio da pensione.» Oscar accartocciò la sua lettera, prima di lanciare un'occhiata al muro.
La tabella di sughero del caso era ancora lì, con le foto di Wilson e degli altri sospettati, insieme alle instantanee delle scene del crimine e agli appunti scritti nella calligrafia sottile di Xavier.
«O della truffatrice raccomandata» si accodò Liza, alzando le sopracciglia, ironica.
Zelda espirò mentre teneva lo sguardo basso sul foglio indirizzato a lei.
"Pensi di essere una celebrità del cazzo? Sei fottuta, rossa."
Per un momento credette di voler ridere di fronte a quella che era una delle provocazioni più pacate che avesse ricevuto.
Lettere di congratulazioni, di ammirazione e di adorazione ossessiva si mischavano a quel veleno fatto di insulti e cattiverie, quotidianamente.
Non aveva la più pallida idea di cosa la gente pensasse di lei.
E ne era terrorizzata.
«Che puttanate» Mulder le strappò la lettera dalle mani, prima di strapparla.
«Piuttosto, andiamoci a prendere qualcosa da bere in caffetteria, così discutiamo bene di questi» disse, guardando controvoglia i resoconti appoggiati alla scrivania, «anche se mi sono già rotto il cazzo.»
Xavier si staccò dal muro con una spinta dei reni, balzando come un gatto verso l'uscita.
Una figura, apparsa a pochi centimetri dal suo petto, lo bloccò con una spinta agitata.
Lui rimase confuso per qualche secondo, «Alma?» la guardò, preoccupato.
La Bailey era diventata la messaggera di sciagure della Omicidi.
Lei si appoggiò al muro, guardandosi intorno.
«L'ho saputo da Carter,» disse, sottovoce, «c'è stato un omicidio al Detroit Opera House.»
«Porca puttana!» sputò Mulder, poco prima di essere zittito da Alma.
«Shh, cazzo, Oscar! Se scoprono che ve l'ho detto finisco nella merda.»
Scoccò un'occhiata alla sua destra, prima di continuare.
«Ho sentito che sul posto ci sono già due detective, li ha mandati Bennie.»
«Quando è stato compiuto il delitto?»
«L'omicida si è autodenunciata poche ore fa.»
«Si è autodenunciata?»
Lo sguardo di Zelda incontrò quello del fratello, in un guizzo di preoccupazioni simili.
«Sì, cioè, questo è quello che ho sentito. Non so altro, io vi ho detto tutto quello che sapevo» poi sporse la testa verso il corridoio, accertandosi ch fosse deserto.
«Se andate sul posto adesso, avrete la scusa di averlo sentito dai colleghi di Carter. Prima si sono lasciati sfuggire qualcosa» poi incurvò i lineamenti in un'espressione severa, «ma non scendete nei dettagli. Altrimenti mi sgamano subito.»
Aggiunse, lasciandosi sappare una risatina isterica, colma dell'adrenalina che l'essere d'aiuto le procurava.
Mulder e Liza si scambiarono un'occhiata.
Lei prese il foglio dei resoconti e lo appallottolò, buttandolo nel cestino insieme ai ritagli di lettere.
«Omicidi» Mulder mostrò il distintivo all'agente che sorvegliava il teatro, per correttezza, seguito a ruota dagli altri.
Come se la loro persona non fosse già conosciuta da tutti.
Nessuna pattuglia della polizia, almeno non lì.
Xavier era certo che si fossero appostate sul retro, per mantenere più discrezione.
Ma quando si guardò intonro notò che la via era stranamente deserta.
Un vuoto e un silenzio così compatti non erano più contemplati nella sua quotidianità, almeno non quando usciva.
Allora perché la notizia di un omicidio non era ancora giunta ai giornalisti?
Poi capì, in una scarica di coscienza.
Gli omicidi di Enigma non avevano lo stesso valore degli omicidi compiuti da un emulatore di Enigma. Sui primi si poteva fare cronaca, rendendoli casi mediatici.
I secondi, invece, erano più impegnativi da trattare, perché nessuno voleva vedere i frutti di quella pubblicità sfrenata e modaiola di un serial killer. Tutti volevano godersi la febbre di Enigma nella maniera più frivola e divertente.
Xavier alzò lo sguardo al cielo.
Sopra di loro troneggiava una scritta antica.
Detroit Opera House.
La facciata di cemento bianco stava da tempo subendo delle ristrutturazioni per tornare alla struttura in stile Liberty dei primi del novecento.
Dalle vetrate del secondo piano proveniva un bagliore violetto, come se le luci che utilizzavano per le prove fossero ancora accese.
Ma non si udiva nessun arco di violino tendersi, nessuna voce intonare qualche nota di riscaldamento.
«Dov'è l'omicida, adesso?» chiese Mulder all'agente.
«L'hanno portata via venti minuti fa. Il corpo è ancora qui.»
Xavier e Zelda si lanciarono un ennesimo sguardo tristemente complice. Era tutto la copia di qualcosa di già avvenuto.
Il portone di legno li invitò ad entrare, abbracciandoli con le sue ante cupe e stritolatrici.
E il teatro sembrava dar loro il benvenuto, lasciando che un sorriso sornione gli attraversasse ogni vetro delle sue finestre, facendole scricchiolare in un gesto di sadica gioia.
Zelda salì i tre grandi gradini dell'entrata, esitando sull'ultimo.
Poi scomparve nel nero dell'ingresso, accolta con famelicità dal buio dell'Opera.
Un detective dal trench color cammello si avvicinò al gruppo.
La sua voce bassa e roca rimbombava lungo i cassettoni del soffitto scuro.
L'ambiente riluceva di una luce ultravioletta fredda, che donava a tutta quella situazione una parvenza quasi conturbante.
Le sedie vuote, mischiate a quel viola e al silenzio profondo che colmavano l'Opera, erano qualcosa di onirico e sbagliato.
Come se tra quel colore denso che impregnava la sala potessero nascondersi le idee più scorrette.
L'investigatore si rivolse a Zelda, la prima ad essersi avvicinata.
«Il corpo è dietro le quinte, attenzione alla scena.»Le scoccò una rapida occhiata, velata da una punta di timore.
«Quali sono le dinamiche?» chiese lei, e le parole si persero lungo la strada, arrivando flebili al suo interlocutore.
«La regista di un'opera di lirica. Ha ucciso il soprano in uno scatto d'ira.»
«Uno scatto d'ira?» ripetè Zelda.
La sua espressione tetra sembrò accentuarsi sotto i led del palcoscenico.
Il suo viso era una maschera blu, incupita e affilata da quella penombra colorata.
«Ecco,» lui si mise una mano in tasca, poi prese a camminare, «quando ha chiamato, ha ammesso di averla uccisa perché non era soddisfatta della sua interpretazione.»
«Ha usato dei termini specifici?»
«Perfetto. Ha detto che non era perfetta per il ruolo e che non andava bene.»
Zelda annuì, disillusa, mentre si passava due dita sul mento in un gesto nervoso.
Incrociò il suo sguardo con quello di Liza.
Stava parlando con l'altro detective.
Mulder e Xavier ascoltavano.
Lei la osservò di rimando per qualche attimo, prima che Zelda si tuffasse dietro le tende pesanti delle quinte, lasciandole oscillare sotto il suo tocco.
Indietreggiò di qualche passo.
Il nastro della scena del crimine le solleticò la caviglia, prima che si ritraesse in un movimento istintivo.
Zelda deglutì, prima di tornare a pensare.
Il soprano aveva ancora l'abito di scena.
Il sangue si propagava, cangiante, il colore mutato dai led.
Contornava il corpo quasi fosse lo sfondo per il suo autoritratto.
La vittima stava scomposta, sdraiata sul parquet del pavimento, mentre tra la mano gelida stringeva ancora la forbice la le aveva squartato un polmone.
Non le avevano abbassato lo sguardo.
I suoi occhi puntavano il soffitto, semiaperti, quasi cercassero la pace negli affreschi sopra di loro.
Zelda si avvicinò, squadrando la scena in un un misto poco equilibrato di impressione e professionalità.
Sentì qualcuno camminare dietro di lei.
Il rumore di passi che conosceva meglio: felpati e regolari.
«L'ha pugnalata tre volte.»
Xavier le si affiancò, discreto, osservando le ferite sul torace della ragazza.
Il suo vestito vittoriano di damasco era strappato e scucito in diversi punti.
«Era un'emulatrice, Xavier. L'ha ammazzata perché diceva che non fosse perfetta.»
Zelda si portò una mano al collo, stringendolo con una forza irrisoria.
«Non è la prima.»
«No.»
Lei si raddrizzò, ispirando fino a quando le clavicole non le si rivelarono, tese, da sotto la pelle pallida come un fiore.
Xavier prese a fissare una ciocca di capelli della vittima intrisa nel sangue e focalizzandosi su quel dettaglio i suoi pensieri presero a fluire, finalmente liberi.
Era questo, ciò che davvero odiava.
Xavier aveva cercato per tutto quel tempo un motivo per poter odiare Detroit, spendendo giornate intere a detestare ogni avvenimento e al contempo giustificando ogni cosa che non andava per il verso giusto, ritrattando all'ultimo quel suo sentimento d'astio nella città della sua vita.
Ma in quel momento, guardando quella donna morta stingersi il petto nel disperato tentativo di bloccare l'emorraggia, un'emozione di amarissimo sollievo lo liberò da tutti i dubbi.
Non poteva più sopportare gli strascichi di un incubo che sperava, voleva essere terminato.
«Può bastare» mormorò dal nulla Zelda, forse più a se stessa che al fratello.
«Può bastare» ripetè, allontanandosi dalla scena del crimine e sfiorando la mano di Xavier, quasi volesse portarlo con lei per sottrarlo a quella vista. «Chiedi che qualcuno le chiuda gli occhi, per favore» ordinò poi prima di voltarsi, lasciando dietro di sé una tenue scia di vaniglia.
Xavier rimase in silenzio. Non aveva più dubbi. Avrebbe solo dovuto trovare il coraggio.
Le luci erano spente.
I neon sul soffitto erano scuri e grigi, e i bagliori caldi dei lampioni venivano riflessi sui vetri macchiati d' impronte.
Zelda si dondolava sulla sedia, i talloni coperti dalle scarpe di lucente vernice erano appoggiati sul bordo della scrivania.
Restare in ufficio fino a quell'ora non aveva più molto senso, e riguardare morbosamente le istantanee dell'omicidio non avrebbe guarito quel senso di pungente fastidio che le pizzicava la coscienza.
Ma allo stesso tempo tutti quei piccoli gesti masochisti erano un posto sicuro in cui rifugiarsi, sfuggendo ai cambiamenti che avvenivano, inesorabili, al di fuori di quel piccolo microcosmo che era il suo studio.
Si portò alla bocca una sigaretta nuova e intonsa, mentre giocava con l'accendino, esitando ad accenderla.
Poi riprese il filtro, agguantandolo con pollice e indice, prima di rimetterlo nel suo portasigarette rettangolare.
Lo appoggiò vicino a una scatola di plastica arancione.
Le venne in mente Liza.
Il loro prossimo appuntamento era per il pomeriggio del giorno dopo, ma cosa le avrebbe detto?
Era da almeno una settimana che si sentiva allo stesso modo.
Non stava male, non stava bene, stava e basta.
Ma non le dispiaceva, che i suoi sentimenti più turbinosi si fossero anestetizzati, almeno per un po'. O almeno si costringeva a pensarlo.
Si alzò, svogliata, e le punte dei capelli le ricaddero lentamente ai bordi del mento.
Inspirò, prima di appoggiarsi all'uscio.
Non controllò l'ora che segnava l'orologio di legno appeso al muro, ma sapeva di per certo che fosse tardi.
Quando i corridoi scuri della centrale diventavano un ammasso di cuniculi vuoti e l'unico rumore percettibile era quello del condizionatore non ancora spento, era sempre tardi.
L'orario non le vietava di prendere un ultimo caffè, almeno non quella volta.
Quando voleva, utilizzava una strana filosofia per la quale alcune regole che di solito avrebbe seguito ciecamente potevano essere infrate, se l'unica testimone di quel tradimento non era che se stessa.
La caffetteria le sembrò vuota.
Le luci erano spente, ma uno scintillio sbiadito proveniente dall'esterno lasciava intravedere comunque alcuni dettagli della stanza.
«Non glielo hai ancora detto?»
Zelda si congelò a pochi passi dall'entrata, fermandosi sul bordo del corridoio.
«Glielo dirò domani. Se lo avesse scoperto prima, sarebbe stato ancora peggio.»
Xavier teneva le mani incrociate.
La sua camicia bianca, sotto quel chiarore spettrale, sembrava un manto di luna inconsistente.
«No, non sono d'accordo. Doveva avere il tempo di assimilare la cosa, credevo che lo avessi capito» lo rimproverò Liza.
Nel suo tono brillava un aspro rimorso.
«L'avrebbe presa male comunque. Qualsiasi cosa faccia, lei ne è irritata o ne soffre. Credevo che lo avessi capito.»
«Ne abbiamo già discusso. Non mi piace il modo in cui parli di lei.»
«Certo, immagino che invece lei di me parli in tutt'altra maniera» sibilò Xavier, prima di chiudere gli occhi ed espirare.
Rimase così, fermo tra i suoi pensieri cupi.
«È più complicato di quanto pensassi.»
Zelda stava ad ascoltare.
Nella sua mente, il vuoto.
Nessun'idea circolava all'interno di essa, come se la vena in cui fluivano le idee si fosse all'improvviso tappata.
Solo le parole che ascoltava sembravano avere un senso, in quella temporanea vacuità difensiva.
«Devi dirglielo domani» ordinò Liza, lapidaria, prendendo a girare intorno all'altro come un'orca. «Cerca di essere il più ragionevole possibile. E non farti prendere dal risentimento» chiarì, «l'ultima cosa che serve a Zelda adesso è il tuo disprezzo.»
«Parli come se fossi nel torto, a trattarla come merita.»
«Non merita-» poi si fermò, passandosì una mano sulla parte destra del viso.
Sembrava esausta.
Una stanchezza fisica le irrigidiva i muscoli delle spalle e le sfiancava lo sguardo, una mentale lasciava che non finisse le frasi.
«Per favore. Per una volta metti da parte l'orgoglio.»
«Non si tratta di orgoglio» iniziò Xavier, poi si fermò. Stava solo risultando un arrogante del cazzo.
«Va bene» disse infine, abbassando gli occhi a terra. Poi sbuffò in un sospiro infelice, guardandola negli occhi sfiniti, «mi dispiace. Non dovresti preoccuparti di noi.»
La strinse a sé in una fragile stretta, mentre le sfiorava i capelli con un gelido e delicato tocco della mano, subendo l'amarezza di un orribile spina nel cuore.
«No» Liza gli parlò con quella sua voce armonica e ferma, «smettiamola di ricadere nei sensi di colpa. Abbiamo concordato un mese per fare in modo che Zelda si stabilizzasse, ma adesso sarebbe dannoso per tutti continuare a rimanere qui» disse. «Pensiamo a Chicago.»
Xavier abbassò le palpebre, rasserenandosi sotto all'influsso melodico delle parole di Liza, quasi fossero la formula ipnotizzante più efficace. «Domani le dirò della partenza.»
Zelda si ritrasse.
Le sue labbra esangui fremettero sotto l'impulso di un qualche nervo della bocca, e si contrassero in un'inconscia posa sofferente.
Sentì l'immaginaria lama di un coltello squarciarle il velo di certezze e tranquillità che in quel breve periodo aveva tessuto con così tanta fatica intorno al cuore, come un bozzolo di seta che ne avrebbe dovuto proteggere le arterie dai graffi dell'esterno.
Rimase immobile per qualche secondo, come la statuina di se stessa, prima di indietreggiare. Cercava di fare meno rumore possibile e ogni passo faceva male.
Ogni volta che il tacco della scarpa batteva il suolo, insonoro, sentiva un nuovo ago conficcarsi nel suo volto.
A fine corridoio si voltò, con le guance ardenti e lo sguardo perso, alienato e paradossalmente talmente consapevole da essere disperatamente cupo.
Avrebbe dovuto invitarlo a cena.
Sì, avrebbe invitato Xavier a cenare da lei.
E avrebbero trovato tantissime cose da dirsi.
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