Capitolo 36- Pàthei màthos

Il freddo delle manette si fuse col calore quasi bollente dei suoi polsi, ma Andrew non sussultò, non fece nulla se non sbattere più volte le ciglia. Due agenti lo accompagnarono fuori dalla sala interrogatori, camminando veloci, mentre lui stava al passo come se si lasciasse trasportare dalla corrente di un fiume in piena.

Uscì dalla stanza interrogatori senza dire nulla.
Non guardò Liza, né Mulder.
E quando si avvicinò ai Lynch, sembrò quasi che nemmeno non li avesse visti.
Zelda lo seguì con lo sguardo lungo quel tragitto infinito, lasciando che i suoi occhi vagassero per la sua figura, liberi di poter esprimere silenziosamente tutto l'odio che avevano tenuto represso fino ad allora.
Andrew incespicò nei suoi passi, spinto forse troppo dai poliziotti che lo succedevano.
Si fermò per qualche secondo, con lo sguardo basso.
Sfarfallò le ciglia una, due volte.
Poi alzò il viso.
«Pàthei màthos» disse, guardando i detective. All'improvviso gli sembrarono semplici sagome, una vicina all'altra, immobili.
Sorrise.
Nemmeno sapeva se l'avessero capito, ma non importava.
Solo lui doveva comprendere il significato delle sue parole.

Liza dischiuse la bocca per parlare, ma Andrew riprese a camminare, un passo dopo l'altro, deciso, come se avesse stabilito che il suo momento di quiete era finito.

Scomparve dietro la porta.

Di lui rimase solo il tintinnio lontano delle manette.

«Mulder! Mulder, qui, vieni qui!»
Un braccio era sbucato dall'ufficio della Bailey, attirando l'attenzione del detective.
La mano schioccò le dita smaltate più volte per farsi notare, fino a quando non fu certa di aver richiamato a sé tutti i diretti interessati.

«È per te» disse Alma appena Oscar varcò la soglia, indicando l'ufficio comunicante al suo, quello di Carter.
La porta scorrevole nera era spalancata, mostrando un bagliore acceso proveniente dalla stanza in penombra.

Mulder si guardò alle spalle incrociando lo sguardo di Xavier, prima di avvicinarsi a quell'accecante luce artificiale.

«È veramente lui?»
Era l'ologramma di Carter ad aver illuminato la stanza, spettrale e cenereo in mezzo a quel buio denso.

«Porca puttana» soffiò Oscar, fingendosi stupito, «allora sei vivo. Pensavamo fossi la quarta vittima e che Wilson ti avesse seccato.»

Lui non accennò a cambiare l'espressione seria che gli contorceva i lineamenti, «è lui?»

«Certo che è lui, Bennie» Mulder gli rifilò un'occhiataccia, «si può sapere dove cazzo sei?»

«A Manhattan. Lo avete arrestato?»

«Sì, certo che lo abbiamo arrestato» poi Mulder si fermò a pensare per qualche attimo, come se dovesse realizzare la situazione, «sei partito la sera degli omicidi, è passata una settimana e tu eri a Manhattan» ripetè, come se non volesse crederci.

«No, Mulder, ascolta.»

«Lui non deve ascoltare, Carter» i tacchi di Liza si erano fatti spazio lungo il silenzio dell'ufficio. Come una lucertola era apparsa con una velocità fulminante dove prima c'era il vuoto, sorprendendo entrambi gli investigatori.

«Ti abbiamo ascoltato anche troppo, tous» guardò l'ologramma, avvicinandosi, «ma sono stanca di sentir parlare chi è stato così schifosamente codardo. Il quindici gennaio hai preferito sfuggire alle tue responsabilità lasciando la centrale senza un punto di riferimento, in balia dei giornalisti, e adesso vuoi che ascoltiamo cosa hai da dire?
Va bene.»
Annuì, mentre rimaneva ferma sul posto, lasciando che le parole fluissero senza filtri come tanto desiderava da giorni, «bien. Dicci cosa hai fatto in questa settimana. Dicci come hai lavorato e come ci hai aiutati. Sono certa che ci sia un motivo validissimo per la tua fuga, voglio convincermi che sia così. Quindi, spiegaci le tue motivazioni. Ascoltiamo.»
Espirò mentalmente, continuando a guardare la figura di Carter muoversi nervosa nella poltrona di pelle su cui sedeva.

«Io sono dovuto andarmene. Era pericoloso.»

«No, non provarci nemmeno, cazzo.»
Liza lo indicò, severa.
Mulder le lanciò un'occhiata che non sapeva se essere meravigliata o ammirata.

Bennie voltò lo sguardo di lato e il suo ologramma ebbe un'interferenza, «non datemi tutte le colpe. Non cambia nulla, no? Lo avete preso comunque.»

«Esatto. Noi lo abbiamo preso» ringhiò Mulder, mentre la fronte iniziava a imporporarsi.

«Va bene. Vi riconoscerò la maggior parte dei meriti, quando sarà il momento.»

«Non ce ne frega un cazzo dei tuoi riconscimenti. Devi riportare il tuo culo a Detroit, Bennie» sputò Mulder, lasciando per strada il contegno che avrebbe dovuto mantenere in quella situazione.

In un momento normale, Bennie Carter avrebbe trovato inaccettabili delle offese del genere.
Tutti avevano pensato che non avrebbe lasciato da parte l'orgoglio nemmeno quella volta, ma la sua paura superava qualsiasi rispetto, qualsiasi gerarchia sociale.
La sua intera personalità era atrofizzata davanti a una situazione di cui non vedeva la via d'uscita. Fuggire gli era sembrata la soluzione migliore, a patto che non avesse più dovuto scontrarsi con la realtà.

Liza pensò esattamente ciò, realizzando in un breve e pungente attimo quanto lei e Carter fossero simili. Vedere da fuori come appariva una persona che aveva scelto di evitare i problemi era stato brutale e destabilizzante.

«Certo, ora posso tornare» Bennie alzò le mani in segno di resa, lasciandosi sfuggire una spigolosa verità.

«Wilson è in carcere, grazie al cazzo» Mulder si portò una mano alla fronte.
Mi potrebbe venire un infarto, pensò.

I Lynch, nell'altra stanza, scambiarono un giro di sguardi con Alma.

Zelda fece un mezzo passo verso la porta scorrevole, tentata di intervenire.
Anche lei sentiva il bisogno di scaricare la rabbia, e Carter era capitato esattamente al momento giusto.

Avrebbe potuto benissimo dire la sua e soffiargli contro tutto ciò che pensava.
L'allettante proposta di poter sputare veleno senza conseguenze le stringeva il cuore in una morsa ferrea e galvanizzante, le faceva battere il petto con la pragmatica vitalità di un predatore intento a scattare sulla preda.

Forse si sarebbe sentita meglio.
Era certa che fosse così, ma un impulso fulmineo la fermò dall'entrare nell'ufficio.
Si sentì confusa.
Come se una delle sue più grandi certezze su se stessa si fosse improvvisamente incenerita fino a scomparire.
L'idea di entrare in quella stanza e di litigare, di sentirsi viva fino a che non ne avesse più avuta voglia le sembrò all'improvviso immotivata.
O, almeno, noiosa.

Arretrò di un passo.

«Va bene» sbottò Liza dall'altra stanza, insofferente, «Bennie, ma chère, siamo contenti che tu sia vivo. Ti aspettiamo in centrale.»
Con le ultime parole pronunciate come gelida promessa, chiuse la conversazione.
Spense l'ologramma con rapidità, interropendo la chiamata.

«E vaffanculo» Mulder si allentò il collo della camicia, sbuffando.
Aveva un estremo bisogno di energizzante.

«Vuoi un tè?» Xavier si appoggiò allo stipite della porta.
Teneva lo sguardo basso, giocando con le pellicine dell'indice.

«No, grazie.» Liza lo squadrò in volto per qualche secondo, notando come il naso appuntito e lentigginoso fosse arrossato per il freddo.
Distolse lo sguardo, tornando a fissare il palazzo di fronte alla centrale.
Diede un'occhiata alla strada, e senza sorpresa si accorse di come si stesse riempiendo di giornalisti dai modi concitati.

Lui inspirò come se volesse dire qualcosa, poi si fermò.
Prese a vagare per la caffetteria.
«Allora preparo il caffè» disse al vuoto, avvicinandosi alle mensole vicino all'entrata.

Liza lo guardò con la coda dell'occhio, per poi tornare a guardare davanti a sé, inflessibile.

«Il Detroit's Article è già in prima fila, immaginavo» Xavier si sporse per vedere dalla finestra quello spettacolo che lo divertiva tanto, «l'ultimo articolo non è stato male. A parte che hanno sbagliato il mio cognome e affermavano che tu fossi Canadese.»

«Hanno detto che ero Canadese?» Liza si lasciò sfuggire un breve sorriso.

Xavier annuì, tirando un sospiro di sollievo impercettibile, ammirando quel segno di confidenza come se fosse un quadro impressionista.
Era terrorizzato.
La paura folle di aver sbagliato, di non poter rimediar almeno con lei, lo paralizzava.

Era stato autodistruttivo.
Aveva sbriciolato ogni possibile felicità che il futuro poteva riservargli, dubitando di lei in quella maniera così scriteriata.
Cercava di convincersi che fosse stato a causa della pressione del momento, ma sapeva che la colpa era da ricercarsi nel suo egoismo.
Troppo egocentrico per rendersi conto di quello che stava facendo, insensibile, sì, per come non si era curato di nulla se non delle sue convinzioni.

«Sì, li adoro. Sono così convinti di essere sempre i più informati tra le testate giornalistiche.»

«Eppure sono il giornale più importante di Detroit» Liza spostò la sua borsa dal tavolo per lasciare che l'altro ci deponesse la tazza di caffè.

«Non riesco a capirlo» espirò lui, non sapendo come proseguire, improvvisamente insofferente a quella conversazione vuota.
Si guardò intorno per qualche secondo, poi incrociò lo sguardo di Liza.
I suoi occhi dorati ricambiarono l'occhiata con severità.
«Ti devo delle scuse.»

«Direi di sì.»
Liza alzò le sopracciglia in un'espressione sarcastica, voltandosi di nuovo a guardare la strada.

«Ho fatto il gioco di Enigma. Di Andrew» continuò lui, sospirando, «ho fatto il suo gioco senza ragionare a mente fredda.»

«Esatto.»

«E ho dubitato di te, senza rendermi conto di quanto fosse tutto stupido e insensato.»
Incrociò le braccia per cambiare subito dopo posizione.
Appoggiò il mento sul palmo della mano, avvicinando la sua sedia a quella di Liza. Inconsciamente, stava facendo di tutto per starle vicino.
Per analizzare ogni suo minimo movimento, ogni piccola espressione, ogni stella che le attraversava lo sguardo.
«Non voglio dubitare di te, Liza. Non posso» scosse la testa, come se l'idea gli provocasse una genuina paura.

Lei si morse l'interno della guancia, sistemandosi sulla sedia.
Osservò la scarpa di Xavier battere sul pavimento come una scheggia impazzita.
Era un dettaglio che mostrava senza filtri la sua preoccupazione.
Che lo rendeva tenero.
Fragile fino al midollo, vulnerabile.

«Non mi aspetto il tuo perdono, non subito.
Posso aspettare» la rassicurò lui, mantenendo una fredda professionalità nel tono.
No, non poteva attendere, doveva sapere subito, in quel preciso istante, se si poteva rimediare.
Ma non disse nulla.

«Volevo solo chiarire le cose.»
Aggiunse, stendendo le labbra in un mezzo sorriso frutto del nervosismo e del rammarico.

Liza annuì, abbassando e alzando il capo con lentezza, più volte.
Si portò il dorso della mano alle labbra, nel tentativo vano di nasconderle alla vista.
«Grazie. Apprezzo il tentativo» disse, guardando con un malsano divertimento l'espressione delusa di Xavier.
Quella soddisfazione boriosa lasciò subito spazio all'affetto.

In un moto di leggerezza lasciò sfuggire quel sorriso che aveva domato per tutto quel tempo. «Accetto le scuse» esclamò, poi si fece più seria.
I suoi lineamenti si contrassero in una breve e pensosa espressione prima di tornare neutri, come se un pensiero spiacevole le avesse attraversato la mente in un tuono improvviso.
«Non dovevo dire nulla su vostra madre» scosse la testa, aprendo i palmi delle mani davanti a se, «che cosa orribile. E poco professionale.»

«Ora che mi ci fai pensare è vero» ammise Xavier, fingendo una rabbia che in quel momento non riusciva nemmeno a concepire, «allora potevo evitare tutte queste scuse» scherzò poi, lanciandole uno sguardo sprezzante e mantenendo un tono estremante serio, come prevedeva il suo umorismo facilmente fraintendibile.

«Ovviamente, in realtà la colpa era mia. È solo manipolazione» lei stette al gioco per qualche secondo, prima di alzare gli occhi al cielo come a cercare il senso di quella conversazione assurda.

Qualcosa fischiò alle loro spalle.
Xavier si voltò, con in viso un'espressione che sapeva perfettamente di essere simpatica e accattivante.
«Non volevi ammettere che ti andasse un tè per orgoglio, così ho preparato l'acqua comunque.»

Entrambi scoppiarono a ridere.

«Io non esco. Non voglio finire di nuovo sulla prima pagina del Detroit's Article.»
Mulder prese l'ombrello, guardando oltre la grande vetrata della porta d'entrata della centrale.

Fuori attendeva un'onda di giornalisti, come era solito succedere da almeno una settimana a quella parte.
Erano disordinati, persi nei loro pensieri.
Nemmeno si erano accorti della presenza dei detective nella hall, ma appena avrebbero messo un piede fuori, Mulder era certo che si sarebbero riattivati come vecchi automi polverosi.

«Voglio rimanere ancora un po'. Torno di sopra.»
Zelda s'appiattì contro il muro, quasi volesse fondersi con la sua stessa ombra.

Liza le si avvicinò, «posso rimanere anche io, se preferisci.»

«No,» lei scosse la testa, lasciando scorrere una mano lungo la superficie ruvida del muro, «non serve. Voglio solo aspettare che se ne vadano i giornalisti.»

«Non succederà così presto.»

«Posso sempre dormire qui.»
Poi scoppiò in una risatina limpida, per una rara volta trattenuta solo dal suo classico e sano rigore.

Liza sorrise.
Prese a osservare un punto ignoto davanti a lei, assorta.
«Non riesco a pensare,» disse, «è come se...»

«Non realizzassi ancora ciò che è successo, ma al contempo ne fossi sollevata» Zelda la indicò con la sigaretta, prima di accenderla, «hai scoperto come ci si sente ad aver risolto un caso. È una bella sensazione.»

L'altra voltò il capo, nascondendo un'espressione tra il teso e il divertito. «Può darsi.»

Rimasero in silenzio.
La loro attenzione fu rapita dai movimenti spazientiti di Mulder.
Camminava per la sala senza meta, e il suo tono subiva picchi sempre più colmi di irritazione.

Xavier passeggiava lungo il tappeto sotto la porta d'entrata, come se volesse quasi calcolare quanto tempo avrebbero impiegato a notarlo le persone fuori.
Testava la loro disattenzione allo stesso modo in cui un gatto testa la pazienza di un cane, quando cammina lungo un muretto a cui l'altro non può arrivare.

«L'uscita secondaria? Non si può passare dall'uscita secondaria?» tentò Oscar, osservandosi intorno, innervosito.

«Sono anche lì, Mulder» Xavier lo riportò alla realtà, sorridendogli con un cipiglio quasi altezzoso.

«Fai un bel sorriso!» esclamò al detective, prima di aprire la porta e buttarsi in mezzo alla marea di giornalisti con la classica fretta gentile che loro si aspettavano da una persona importante come lui.

Voleva andarsene il prima possibile, lasciandosi dietro ogni possibile frangente di ciò che era stato. Voleva andare a casa, accendere le luci e dare da bere alle sue piante ormai secche.
Voleva ricominciare quella quotidianità che era stata violentemente interrotta per troppo tempo.

Si lasciò investire dai flash, mentre gli occhi iniziavano a lacrimargli.
Faceva finta di ascoltare le domande, annuiva, e poi diceva a tutti le stesse, affascinanti e misteriose frasi ad effetto.

«Com'è allegro» ironizzò Zelda d'improvviso, mentre guardava il fratello compiere quel suo strano esperimento sociale.

Liza scosse la testa, «si è tolto un peso.»

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