Capitolo 29, prima parte- Siamo simili

Una pillola bianca cadde sul suo palmo, Zelda la osservò.

Uno, due, inspiro.

Così le aveva insegnato Liza.
Tecnica della respirazione, aveva detto. Quando senti che i pensieri sono troppi, respira.
Conta i secondi che divido l'inspirare dall'espirare.

Era ciò che in quel momento stava facendo. Chiusa nel bagno elegante e cupo del Dionysus, da sola, con l'opprimente sensazione di dover al più presto piangere o vomitare, quando in realtà sapeva che non sarebbe riuscita a fare né l'uno né l'altro.

Perché era di un limbo che si trattava.
Un limbo in cui brividi freddi e al contempo incandescenti le serravano la bocca dello stomaco, mentre la testa le girava, come se troppe idee stessero volteggiando al suo interno e stessero mettendo a repentaglio il suo già precario equilibrio.

Tre, quattro, espiro.

Si forzava di distendere i muscoli per qualche secondo ed era una sensazione bellissima ed effimera in cui la tensione sembrava scomparire.

Cinque, sei.

Bastavano due secondi per far tornare tutto come prima, meno di un fruscio e i tremori c'erano, ancora più forti.
Forti e insopportabili, partivano dalle gambe e le devastavano il corpo fino a trovare il loro apice in una scarica di piccole saette che sembravano scorrererle fino al cervello.

Inspirò un'ultima volta, trattenendo il respiro fino a sentire una pressione sempre maggiore formarsi nei polmoni.

Espiro.

Si guardò intorno, non incrociando lo specchio ed evitando quel riflesso che le avrebbe fatto troppo male osservare.

Si faceva pena? Credette che forse era così. Pensò a tutte le cattiverie che aveva detto e all'improvviso volle urlarsi contro decine di insulti, decine di parole che le si addicevano orribilmente bene e che di certo l'avrebbero ferita, ma era giusto così, era giusto che soffrisse, perché non sapeva fare la scelta...

«Mulder ti stava cercando.»

In un attimo la pastiglia scomparve dalla sua mano, come nel più classico dei trucchi di magia.
La pasticca candida giaceva a terra, vicino alle sue tanghere scure.
La schiacciò con il tacco sottile della scarpa appena Xavier le si avvicinò.

Non sapeva perché lo avesse fatto.
Credette che fosse per semplice vergogna, ma presto si rese conto che forse era perché aveva paura. E non per lei.

È meglio non mostrarsi spaventati.
Il primo, immediato pensiero che le era balzato in testa quando la porta si era aperta e aveva scorto il viso pallido di Xavier.

«Arrivo. Dammi un secondo.»

Lo specchio li rifletteva vicini, uno di fianco all'altro, simili e splendidi nei loro abiti eleganti.
Due ritratti altezzosi, dipinti con pennellate affilate, tanto seducenti quanto completamente ignorati dagli sguardi di entrambi.

Nessuno dei due ebbe il coraggio, nemmeno per un attimo, di guardare il quadro che avevano davanti, di osservarsi e di mettere a confronto i loro volti.

Così lo specchio mostrò ancora per qualche attimo quel dipinto che non erano stati in grado di affrontare, prima che tutta la sua bellezza si disfasse nel momento in cui Xavier lasciò la stanza.

E la scena tornò quella di prima, mentre Zelda alzava il tacco della scarpa rivelando una pastiglia frantumata.

«È rimasto nel suo appartamento per tutto il giorno. Adesso mi hanno riferito che è uscito per andare al supermercato vicino al suo palazzo.» L'argomento era Andrew Wilson. Niente di sospetto, da quello che diceva Carter. Tutto sotto controllo, continuava.

Il teatro era vuoto.
Statico e più cupo del solito.
Perfino le spesse tende del palcoscenico sembravano di una tonalità di rosso più scura.

Tra i sussurri e gli sguardi dei presenti si poteva scorgere un'attesa quasi ossessiva.
Tutti aspettavano l'inizio di quella serata che li aveva tormentati per così tanto tempo con un'adrenalina quasi paralizzante.

«I musicisti stanno per arrivare. Verranno scortati fino al camerino.»
Carter si passò una mano tra le ciocche inumidite dalla brillantina con nervosismo.

«Lo hai già detto trenta cazzo di volte.»
Mulder si guardava intorno, camminando placido tra le file di sedute in velluto, e sembrava quasi che fiutasse l'aria come un bracco da caccia.
Le mani in tasca giocavano con le chiavi della macchina.

«Per favore, un attimo di attenzione!»
Da dietro le quinte apparve Liza, estremamente seria e concentrata.
La sua voce rimbombò squillante e vibrò lungo le pareti del Dionysus.
Quando vide che il brusio si era placato, osservò gli agenti davanti a lei, lasciandosi sfuggire un mercì di tiepido ringraziamento.

«Come abbiamo già concordato, non dovranno esserci interazioni tra la polizia e i detective dall'inizio dello spettacolo per tutta la durata della serata» annuì, «nel limite del possibile.» Guardò davanti a lei e, seppur accecata dai fari e impossibilitata a vedere la platea, Carter seppe per certo che stava osservando lui.

Nel limite del possibile, visto che sulla prima pagina del Detroit's Article di oggi ci sono le nostre facce, avrebbe voluto dire Liza, ma si contenne come aveva imparato a fare magnificamente, nel tempo.

Una sfilza di volti annuirono, composti e rigorosi, almeno all'apparenza.
Qualche secondo di silenzio, poi il brusio era tornato a riempire l'atmosfera.

«Oh, guarda chi c'è. La coppia vincente.» aveva sputato uno degli agenti, etichettandoli in quel modo con disgusto.
«Quelli non li sopporto proprio, cazzo»
lo aveva seguito l'uomo vicino a lui, guardando oltre Liza, mentre le tende si spostavano e Xavier e Zelda muovevano i primi passi sul palcoscenico.
Qualche mormorio di assenso seguì le loro parole, scemando man mano che i due detective si avvicinarono e mostrando come più gente del previsto avesse una repulsione nascosta per i Lynch.

Liza decise di ignorare la situazione, andando in contro a Zelda.

«Comment ça va, ma belle?» le chiese, appena si trovarono vicine e distanti dagli altri, stringendo con delicatezza le sue mani gelide.

Lei esitò qualche attimo, guardandosi intorno con discrezione.
«Male.»

Liza la guardò sorpresa, ma se da una parte quella confessione la preoccupava, dall'altra era quasi felice che fosse riuscita ad ammetterlo.
«Hai fatto come ti ho detto?» chiese, con una sottile patina di freddezza che rese la sua domanda quasi simile a un rimprovero.

«Sì. Ho contato i secondi.» Zelda liberò le sue mani da quelle di Liza, insofferente.
Era inquieta, angosciata.
Forse addirittura spaventata.
«Ho paura.» Ammise, con una semplicità che inteneriva e al contempo turbava.

«È normale. Anche io sono spaventata» Liza sorrise, «ma quello che potevamo fare lo abbiamo fatto. Ciò che succederà da adesso in poi non è colpa tua.»

«Sì, invece» Zelda la guardò negli occhi, «se fallisco, è ovvio che la colpa sia mia.»
Lo disse quasi con cattiveria.
Come se volesse colpirsi con le sue stesse parole.
Liza stava parlando di Enigma, ma lei aveva proiettato il discorso su un altro piano più personale, di cui non avrebbe mai potuto parlare.
Un piano in cui regnava il suo crescente senso di colpa e la fulminea consapevolezza di essersi comportata come una merda per tutto quel tempo.
Aveva paura, sì.

«Ma qui non si tratta di fallire» Liza finì la frase nel momento esatto in cui la schiera di agenti furono richiamati da Mulder e Xavier.
I due detective parlavano, ma l'eco del teatro era troppo forte per sentire cosa stavano dicendo.
Oscar indicò le due donne e tutti gli agenti si girarono, per poi annuire.

«Mi aspettano dai camerini. Devo parlare con i musicisti.» Zelda guardò ancora una volta Liza.

«Hai preso il Valium, vero?» chiese lei, richiamandola a sé e parlando di nuovo con quel tono gelido.

Zelda rimase ferma davanti a lei.
No, non lo aveva preso.
La pastiglia che avrebbe dovuto ingoiare ora era polverizzata sotto al tacco della sua scarpa ed era troppo tardi, e c'era troppo da fare per tornare in bagno a prenderla.

«Sì.»
Ma non valeva la pena di dire la verità.

«La pianista ci ha chiesto l'autografo, ha detto che entro stasera saremo diventati celebrità» Xavier rise e la sua breve risata echeggiò a lungo.
«Non ho più parole per esprimermi, davvero.» Aggiunse, con qualche grammo di sottile disprezzo.

Liza lo osservò parlare, sorridendo, ma non rispose.
Vagava per il palcoscenico vuoto che in quel momento, e ancora per pochi istanti, sarebbe stato solo suo.
«Mi sarebbe davvero piaciuto fare l'attrice» confessò, guardando il pubblico invisibile davanti a lei.

Xavier dapprima sembrò quasi non sentire l'affermazione di Liza, poi diventò sempre più serio.

«Ho fatto non so quanto provini. Da quando ero ancora una ragazzina, fino all'Università. Facevo parte di una compagnia teatrale, ma non mi bastava.» Camminava in cerchi sconclusionati, assaporando lo spazio attorno a lei come in una danza solitaria.
Xavier la ascoltava e gli sembrò che ogni sua parola gli vibrasse nella cassa toracica.

«Ogni volta mi veniva detta la stessa frase. Come se tutti si fossero messi d'accordo. Puoi fare di più» i suoi occhi vagavano irrequieti,
nemmeno una volta osservò Xavier, «ma come potevo fare di più se quello era già il mio massimo? Così sono giunta alla conclusione che semplicemente mi mancava qualcosa. Probabilmente non avevo quel tocco speciale che riusciva a convincere, al contrario di ciò che mi era sempre stato detto da chi mi era vicino.» Fece una pausa che parve infinita.

«Forse non l'ho mai avuto e tutti cercavano solo di convincersi del contrario.» Inspirò, guardando direttamente nei fari chiari e accecanti, poi rise e si scusò, scacciando il discorso con un gesto distratto della mano.

«Finisco sempre per fare monologhi. Il teatro mi ha lasciato comunque qualcosa.»
Fece per scendere dal palco, ma Xavier la anticipò venendole in contro.

La osservava con estrema serietà.
«È possibile che tu non abbia niente di speciale per il mondo dello spettacolo.» Constatò, diretto, avanzando leggero verso il centro del palco.
«È anche possibile che semplicemente non sia la tua strada.»
Erano uno davanti all'altro.
Illuminati dalle luci del Dionysus, sembrava che stessero recitando la scena finale di uno spettacolo.

«Sì, è vero. Me lo hanno ripetuto in tanti.» Avrebbe voluto continuare, eppure si zittì.

«Ma come faccio ad affermare che tu non abbia nulla di speciale se sei la persona più interessante che conosca?» le sue parole pacate si erano schiantate nel silenzio innaturale del teatro con violenza.
Non c'era niente di melenso nel suo tono: era una domanda pronunciata come se volesse veramente una risposta, decisa ed estremamente seria.

Liza rimase immobile, ripensando a quell'affermazione e riassaporando ogni parola con meraviglia.

«Ci tengo che tu sappia una cosa, prima che non abbia più il coraggio di dirlo» Xavier le sistemò la spilla di zaffiri che le decorava l'abito, poi si ritrasse a pensare.
«Credo di essermi innamorato.»

Era un peso che doveva togliersi.
Una cosa che doveva essere finalmente chiara.
Un fatto immutabile e troppo ingombrante per essere soppresso.
E quello era il momento per parlare, nonostante quello che stava succedendo al di fuori delle pareti scurissime del Dionysus.

Tutto sembrava fermo e surreale. Estremamente surreale.
Come un sogno strano e confuso, in cui le parole non venivano mai realmente pronunciate e ogni cosa sembrava essere distaccata dalla realtà.
Erano come due figure eteree e immote.
Due modellini raffinati posizionati dal miniaturista in quella posizione immobile.

«Solo... avrei preferito che mi avessi conosciuto qualche anno fa. Ero meno triste
Confessò poi Xavier, osservando il silenzio prolungato di Liza.

Lei non sorrise. Non come le volte prima.
Non come aveva sempre fatto davanti alle parole dolci.
Fu in quel momento che capì quanto il tempo fosse passato velocemente e quanto le fosse sfuggito di mano.
Credeva impossibile la scena che invece le si stava parando davanti in quel momento, perché era ancora rimasta a quella sera gelida al Lullaby, quando in realtà erano successe altre mille cose senza che lei se ne fosse veramente accorta.
«L'importante è averti conosciuto» disse di getto, non ragionando su quanto potesse risultare sdolcinata.
Non si dichiarò a parole.
Non aveva importanza dire cose che già brillavano come neon dentro alle sue iridi.

Erano vicini esattamente come era già successo tante volte, ma in quel momento, davanti a quel pubblico invisibile e bramoso di assistere alla scena finale, ebbero l'audacia di sfiorare l'uno le mani dell'altra, come a barattare con un tocco l'energia che li pervadeva, e di scambiarsi quel bacio che avevano inconsciamente sperato di ottenere da sempre. Un bacio febbrile e ardente nella sua leggerezza, che diventava sempre più vitale man mano che si prolungava, come se fosse l'unica cosa importante da assaporare in quel momento insieme al profumo agli agrumi di Liza e la stoffa ruvida della giacca di Xavier.

Era la sera del quindici di gennaio.
Pochi istanti e sarebbero tornate tutte le preoccupazioni.
Ma non prima di uno scrosciante applauso da parte di quel pubblico invisibile che riempiva il Dionysus e osservava lo spettacolo più importante della serata.

Il brusio di poche persone si era trasformato gradualmente nell'assordante, unico e spaventoso verso di centinaia di ospiti intenti a trovare i propri posti, mentre confabulavano sul fatto che la polizia fosse ovunque.

Il teatro che aveva sorpreso gli investigatori la prima volta, in quel momento era solo qualcosa di quasi familiare, qualcosa di già conosciuto, ma che si mostrava con un'essenza più inquietante della volta precedente.

«Wilson è a casa. Se continua così, dovrete dire addio ai sospetti su di lui» mormorò Carter mellifluo, prima di sedersi in uno dei posti dell'ultima fila.

«Aspetta a dirlo» disse solo Mulder, sbuffando, «spero solo che 'sto spettacolo non sia una merda come quello di Andrew. Non lo reggerei» confessò poi a Liza.
Lei sorrise alla sua battuta, ma con la mente sembrava altrove.

Le mie battute non piacciono più, si trovò a pensare il detective, mentre sistemava la giacca con un lieve imbarazzo.

«Mulder,» Bennie si diede un tono, alzando il mento, «ti ricordo che non siamo qui per piacere. Vedi di fare il tuo lavoro senza commenti personali.»

Oscar lo guardò, poi scoppiò in una risata irriverente e fragorosa, «mi fai morire, Bennie» disse, continuando a sghignazzare.

«Sei teso?»
La voce cristallina di Zelda lo fece voltare, e Xavier rimase a osservarla per una frazione di secondo.

«No» mentì, secco, mentre appoggiava la giacca alla testata della sedia.

«Come, no?» rise Zelda, incredula, smascherando quell'insulsa bugia con un tono che si pentì subito di aver usato.

«No. Non sono teso. E non capisco perché ti interessi.» I loro sguardi si incrociarono e Zelda si sentì invadere da una vergogna bruciante.
«Cosa? In che senso non dovrebbe-»

«Non ho voglia di litigare» sibilò lui, brutale, guardandosi intorno e sopprimendo subito quelli che pensava fossero i tentativi di iniziare una lite.

Zelda indietreggiò di qualche passo, inconsciamente.
Le mani sfioravano i bracciali sottili che le serravano gli avambracci, in un movimento impacciato e nervoso.
«Non voglio litigare.»

Questa volta fu il turno di Xavier di scoppiare a ridere. Una risata sommessa e disillusa.
«Certo.»

«Davvero, Xavier» Zelda gli si avvicinò di nuovo.
Un tormento muto e confuso le volteggiava in viso, mentre lo guardava con un'espressione funerea e rara, che muoveva i suoi lineamenti di rado.

«Davvero, cosa?» lui non si scompose, si sedette soltanto, aspettando di ricevere una risposta che sapeva non sarebbe mai arrivata.

«È semplice far così. Fare finta che vada tutto bene, vero?» domandò infine con una cattiveria fredda e velata.

Zelda incassò il colpo come si può incassare un pugno nello stomaco. Trattenne il respiro. Sentiva che se avesse osato buttar fuori l'aria dai polmoni, anche delle lacrime roventi avrebbero iniziato a colare.
Prese posto senza aggiungere altro, sedendosi vicino a Xavier.
Entrambi rigidi e nervosi, mentre evitavano in tutti i modi che le loro braccia si sfiorassero quando le appoggiavano al bracciolo della poltrona che avevano in comune.

«Signori, signore. Attenzione, prego.» Una donna era sbucata dalle quinte, iniziando a parlare nel microfono circolare al centro del palcoscenico.
Dietro di lei le tende ancora chiuse e i suoni discordanti dei vari strumenti musicali che provavano, mischiandosi in una sinfonia distorta.

«Sono Myrtle Baker, l'organizzatrice del concerto. Innanzitutto grazie per essere qui.» Sorrise, mostrando i denti bianchissimi e simmetrici.
«Lo spettacolo di stasera si svolgerà in due atti, ma per questioni di sicurezza vi preghiamo di non lasciare l'edificio alla fine del primo atto. Sono certa comprenderete.» Un altro sorriso.

«Detto questo, vi lascio alla nostra Detroit Jazz Orchestra. Godetevi lo spettacolo!»
disse la frase con la stessa impostazione con cui aveva presentato Andrew.

Godetevi lo spettacolo, pensò Mulder.
Un cazzo di robot.

Fu quando le tende si aprirono, le luci si spensero e il borbottio dell'orchestra cessò, che tutti rimasero ad osservare il palco con attesa.

Il direttore salì rapido gli scalini che portavano al palcoscenico.

Xavier diede un'ultima occhiata a Liza.

Liza diede un'ultima occhiata a Xavier.

La pianista appoggiò le dita sui tasti lucenti del piano.
I violinisti accomodarono la mandibola sul fondo dello strumento.

Andrà male, pensò Zelda, in un ultimo angosciante pensiero.

Il direttore guardò l'orchestra davanti a sé, come se vi ci stesse scambiando qualche informazione con lo sguardo.

Un sussurro prima del fragore.
«Uno, due... tre!»

Una cosa che aveva imparato dall'omicidio era che tutto quello che succedeva dopo risultava semplicemente... difficile.
Quando gli occhi della vittima erano diventati finalmente vitrei e i pensieri erano tornati a fluire nella sua mente, Valentine aveva subito fatto un riepilogo mentale di ciò che sarebbe dovuto essere fatto da lì in poi.
Teneva un'agenda.
Un'agenda dove aveva appuntato passo dopo passo cosa avrebbe dovuto fare, perché prevedeva che dopo l'omicidio avrebbe potuto non essere abbastanza lucido da ricordarsi perfettamente tutto.

In quel momento stava ripetendo, a bassa voce, il contenuto di quel diario.

«La cera... le piume. Va bene

L'asfalto raschiava contro il sacco di tela.
Il rumore era insostenibile.

«I guanti... l'orario. Va bene

Era stanco.
Ansimava e i suoi respiri affaticati erano l'unica cosa percepibile insieme al rumore di qualcosa che veniva trascinato.

«La lettera... va bene.»

Arrivò davanti al luogo concordato.
Non c'era nessuno nel raggio di miglia, e lui lo sapeva.
In quel posto, a quell'ora, non c'era mai nessuno.
Era uno dei tanti e vantaggiosi motivi che lo avevano spinto a sceglierlo.

Solo un silenzio infinito e un'atmosfera fatta di buio e di freddo.

Aprì la cerniera del sacco che aveva trasportato di peso fino ad allora.
Un viso di un pallore malato venne rivelato sotto la luce lattea della Luna.

«Va bene?» chiese Valentine, scoprendo il volto dai capelli incrostati di sangue rappreso che si erano incollati alla fronte.

E una figura lucente e longilinea, simile a un'ombra luminescente, annuì.

Valentine sorrise gioioso.
Era sempre un piacere ricevere i complimenti della Dea.

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