Capitolo 24- Come ti sentirai, dopo la caduta?
10 gennaio, mattina
«Per l'insonnia:
Vai a letto sempre alla stessa ora.
Non bere caffè.
Non bere tè prima di andare a letto.
Elimina l'alcol.
Zaeplon- da prendere 5-10 grammi prima di dormire. (Per adesso solo 7-10 giorni. Puoi ridurre di 2-3 giorni se le ore di sonno sono stabili.)
Per l'ansia:
Valium (dai cinque ai sei giorni) 2 mg tre volte al giorno.»
Zelda leggeva la ricetta di Liza sottovoce, come un mantra. All'angolo del foglio giaceva il timbro del suo studio di Chicago, "Prima o poi lo aprirò anche a Detroit" aveva detto Liza.
Era un timbro nero e semplice, a cerchio e con il suo nome scritto in corsivo.
Studio psichiatrico, dottoressa Elizabeth Aster.
Elizabeth, pensò Zelda, perchè ci tieni tanto a farti chiamare Liza?
Non voglio ancora darti nulla di sicuro per l'ansia. Preferisco rivederti settimana prossima, o anche prima, se vorrai, per capire meglio la situazione.
Per adesso posso solo darti del Valium per qualche giorno, per ristabilire un minimo la situazione.
Così le aveva detto, con un tono freddo e professionale che l'aveva messa quasi in soggezione, mentre scriveva su quel foglio candido e il suo polso si muoveva rapido insieme alla stilografica.
Se hai degli incubi frequenti, delle allucinazioni, ti senti irascibile o estremamente agitata, chiamami subito e vedremo di interrompere il trattamento.
È importante che ti mi avvisi, capito?
Aveva esclamato, poi, tranquilla.
E Zelda aveva pensato che sarebbe scoppiata a piangere una seconda volta.
Ma se il trattamento avrà esito positivo potremmo continuarlo, monitorando la situazione, per massimo quattro settimane. Poi dovremmo interromperlo gradualmente.
Le aveva proibito il caffè.
Potrai bere, esclusa la sera, il tè e qualsiasi tipo di bevande senza alcol o caffeina, le aveva detto, sorridendo.
Il tè, per fortuna poteva bere il tè.
Come avrebbe fatto, senza.
Però Liza le aveva concesso di bere quello decaffeinato, che (ne era certa), sarebbe stato un perfetto sostituto.
Zelda osservò il foglio ancora per qualche istante, poi alzò lo sguardo sulla croce illuminata e lampeggiante della farmacia.
«Questi.» Fece scivolare sul bancone la ricetta. Guardò la farmacista negli occhi per un momento, poi distolse lo sguardo e prese ad osservare il negozio, con le mani nelle tasche del cappotto.
Muoveva un passo dopo l'altro, allontanadosi sempre più del bancone, dandogli le spalle. Ogni tanto si voltava, controllando la situazione da lontano.
Vide che la farmacista che l'aveva servita stava parlando con un'altra donna.
Entrambe erano davanti al magazzino, in penombra, e Zelda fu certa che parlassero di lei.
Sicuramente stavano chiacchierando della sua prescrizione, di ciò che le serviva e di quanto fosse problematica una persona per richiedere ansiolitici e farmaci per l'insonnia in una volta sola.
La stavano guardando, dicendo: «Poverina!», osservandone i movimenti e ipotizzando quali fossero le cause dei suoi mali.
Sentiva che era così, avvertiva i loro sguardi puntati in cerca di qualche dettaglio che le facesse comprendere il perché di quei farmaci. E più il tempo passava e Zelda camminava, formando cerchi sconclusionati, più aveva la certezza che le sue convinzioni fossero reali.
«Ecco a lei.»
La voce della farmacista la fece voltare.
Si avvicinò rapidamente al bancone e prese, in un momento, il sacchetto che l'altra aveva appena appoggiato.
Sentì il prezzo del suo acquisto, il prezzo dei suoi problemi.
Versò davanti a lei la somma, tra spiccioli e banconote spiegazzate, poi osservò la commessa prendere ogni moneta con una lentezza che le parve infinita ed esasperante. Avrebbe voluto raccoglierle lei, al suo posto, metterle nella cassa, farsi lo scontrino e firmarlo, poi scomparire il più in fretta possibile.
Era certa che ci avrebbe messo mezzo minuto scarso, pur di andarsene.
«Firmi qui, perfavore.»
Zelda prese la penna, e per un secondo si preoccupò addirittura di non riuscire a fare la sua firma normalmente.
Poi iniziò a scrivere, lasciando un sottile e rapido filo d'inchiostro sulla carta.
«E questo è il suo scontrino.» La farmacista lo disse al nulla, perchè appena terminata la sentenza non c'era più nessun cliente a cui porgere quel foglietto di carta.
Solo una farmacia vuota e una donna con un sacchetto in mano, ormai dall'altra parte della spessa porta di vetro.
«Quindi» Mulder si sporse verso Liza, osservando le proiezioni di quattro biglietti diversi davanti a loro, «stasera alle otto. Al Dionysus.»
«Esatto» assentì lei, mentre memorizzava i loro posti.
Fila sette, dal ventinove al trentadue.
«Anche Zelda? Intendo, verrà anche lei?» Xavier puntò lo sguardo su Liza.
Era davvero necessario che Zelda ci fosse?
«Ha insistito affinchè potesse esserci.»
Lo informò Liza, portando una mano sopra l'altra e facendo tintinnare i bracciali che aveva ai polsi.
Per un momento il suo anello di zaffiro riflettè il led del soffitto in un forte luccichio.
«E tu cosa le hai detto?»
«Che andava bene.»
«Che andava bene? Liza, sei sicura che vada veramente bene?» domandò Xavier, quasi agitato.
Andava veramente bene? Se lo chiedeva.
Non era ancora certo del suo comportamento, anche se una parte più inconscia di lui gli suggeriva che fosse ancora provato dal suo ultimo diaologo con lei.
«È un semplice spettacolo teatrale. La farà sentire di nuovo integrata nel gruppo, potrà distrarsi e non starà da sola. Non arriverà a casa troppo tardi e la rappresentazione non influirà sulle ore di sonno stabilite» Si voltò e aggiunse, in uno strano tono di sfida, «Sì, sono sicura, Xavier.»
Doveva esserne certa, perchè ormai le aveva detto di sì.
«Non ti preoccupare.» Aggiunse, calma, posandogli una mano sulla spalla.
Mulder, che era stato forzato a osservare la scena come spettatore, cercò di far tornare la situazione al punto di partenza.
«Zelda o non Zelda, che cosa pensi di trovare nello spettacolo di Andrew? Qualche indizio nascosto?» Non lo disse con cattiveria, solo con semplice curiosità.
Liza alzò lo sguardo su di lui, «Qualsiasi cosa possa collegarlo a Enigma.»
10 gennaio, pomeriggio
«Ho provato a chiamarti, stamattina. Ma non mi hai risposto. Poi Liza mi ha detto che con lei hai parlato.» Xavier stava davanti all'uscio dell'appartamento di Zelda, osservando le luci soffuse provenienti dalla cucina.
«Non ho visto le tue chiamate.» Zelda aspettò qualche secondo prima di invitarlo ad entrare, poi lo fece con un disinteressamento più simile alla riluttanza.
«Va bene. Non mi interessa. Tu come stai?»
chiese lui, mentre abbandonava la giacca su una delle sedie.
Si sedette e il suo sguardo non potè evitare i contenitori di plastica arancione delle pillole.
«Liza non ti ha detto ancora nulla, allora» disse lei, sorridendo, «soffro d'ansia. Di un disturbo d'ansia. E di attacchi di panico. Non posso curarli e devo imparare a conviverci. Liza mi ha prescritto quelle» indicò le pillole, tranquilla, «ma per il resto bene, dai.»
Si sedette anche lei, davanti a Xavier, guardandolo senza espressione.
Prese una sigaretta dal pacchetto che giaceva in un angolo del tavolo, poi l'accese.
«Ansia?» domandò lui, come se stesse cercando un filo logico nelle parole di Zelda. Aveva elencato i suoi problemi con troppa tranquillità, quasi menefreghismo, come se fosse un ennesimo dei suoi attacchi sarcastici.
«Sì. Tu lo sospettavi?»
«Non lo so. Non sono abbastanza bravo per capire qual è il problema nello specifico.»
Lei rise, «Certo che no.»
Certo che no. Lo aveva detto con cattiveria. Senza ironia nascosta o vaghezza. Semplicemente perchè lo pensava.
Lo pensava o forse voleva solo ferirlo.
«Zelda, c'è qualcosa che non va?»
«A parte la mia instabilità mentale, credo nulla.» Gli sorrise per una frazione di secondo, tenendo lo sguardo acceso fisso su quello di Xavier.
Lui rimase in silenzio per qualche secondo, poi parlò, e quando lo fece vide dello stupore balenare nello sguardo dell'altra.
«Non fare la drammatica, Zelda. Poteva essere qualcosa di peggiore.» Sorrise anche lui, parlando con un tono falso e sibillino. Ricambiò lo sguardo di Zelda per così tanto tempo che lei fu costretta ad abbassarlo.
Se vuoi giocare con la cattiveria, almeno lascia provare anche me, aveva pensato lui in un impeto di rabbia acerba, mentre si adattava alla piega surreale che Zelda aveva voluto che prendesse la conversazione.
«Bene,» Zelda alzò le braccia in segno di resa, mentre le lunghe maniche del suo vestito scivolavano e lei allungava le labbra in un sorriso, «sei diventato bravo a rispondere.»
«Devo difendermi, in qualche modo.»
Lei si stirò e, alzandosi, disse: «Ho appena fatto il caffè, ne vuoi una tazza?»
Xavier scivolò lungo lo schienale di plastica della sedia, poi alzò lo sguardo e, inarcando le sopracciglia in un'espressione tra l'ironico e il sorpreso, prese a squadrare l'altra.
Sarebbe mai arrivato il giorno in cui lui avrebbe avuto l'ultima parola con Zelda?
Anche in quel momento, sommersa da pillole e da problemi, non era possibile trovare una risposta a cui lei non potesse controbattere.
«Va bene» assentì lui, secco, mentre continuava a spiarla da oltre la piccola vetrata della cucina.
«Ecco a te» gli posò davanti una tazzina colma di caffè fumante, «attento, è bollente. Non vorrei mai che ti scottassi» aggiunse con una lieve preoccupazione nel tono, mentre appoggiava i gomiti sul tavolo e attendeva che Xavier dicesse qualcosa.
«Grazie, Zelda.» Evidenziò il suo nome come a farle intendere una consapevolezza nascosta. La consapevolezza che tutto quell'atteggiamento non era altro che la premessa per discutere, e che di lì a poco sarebbe stato ovvio il suo vero intento.
Ripescò più volte negli avvenimenti recenti, ma non riuscì a trovare una ragione per tutta quella parte finta e sdolcinata che lei stava recitando.
Forse non c'era, quel motivo che Xavier si ostinava a cercare, e quella gli sembrò subito l'ipotesi peggiore.
«Allora, com'è?» chiese Zelda, indicando la tazzina, dopo che Xavier ebbe bevuto il primo sorso, mentre lei osservava ogni suo gesto muovendo gli occhi con dei microscopici scatti e abbassando le ciglia in movimenti irrisori.
«Normale» Xavier abbandonò la tazza sul piattino e quello tintinnò in un suono sordo.
«Non c'è davvero nulla di diverso?» Zelda sfiorò il caffè come a indicarlo, però si trattenne all'ultimo dal toccare la tazzina, sfiorandola soltanto con le dita pallide e scosse da un impercettibile tremolio.
«Non credo» rispose lui, «a meno che tu non mi stia dicendo che lo hai avvelenato.»
Guardò la bevanda e per un brevissimo, unico attimo credette davvero che fosse avvelenata.
Zelda scoppiò in una risata programmata e sterile, «non sono ancora disposta a rischiare così tanto. E poi in fondo mi dispiacerebbe.»
«Che gentile, grazie. Liza non ti dovrebbe aver proibito il caffè per l'insonnia, a proposito?» Questa volta sentiva di aver fatto centro.
Zelda non si sarebbe potuta aspettare un colpo del genere, era improbabile.
Si sentì fiero delle sue brillanti e sarcastiche parole, mentre una parte di lui gli urlava che si stava solo comportando nella maniera peggiore possibile.
Zittì quella voce, pensando che in fondo si meritava una piccola rivincita e la prima ad aver inizato la partita era stata Zelda, non lui.
«Esatto. I dettagli non sfuggono al tuo lato perfezionista.» Prima che Xavier potesse rispondere a quella freccia incandescente che erano state le sue parole, Zelda continuò:
«Mi ha proibito caffè e alcolici, mentre posso bere il tè. Ma non di sera. La sera acqua. Però il tè è già una grande conquista.»
Xavier la ascoltava.
Faceva roteare il caffè nella tazzina, in cerci concentrici, mentre dei granelli di zucchero s'agglomeravano sul fondo.
In quel momento, forse, aveva capito quale fosse lo scopo di Zelda.
Se ne sarebbe accorta, dovevo aspettarmelo.
«Però Liza mi ha consigliato di provare il decaffeinato.» Zelda agguantò il cucchiaino abbandonato vicino alla tazza e prese a giocarci.
«Così l'ho comprato, l'ho assaggiato, ma il gusto non mi sembrava nuovo» fermò il cucchiaio e lo lasciò tintinnare sul tavolo, mentre il suo tono si faceva sempre più calmo e basso man mano che continuava, «e ho capito che lo stavo già bevendo da qualche giorno, tutte le volte che tu ti offrivi di portarmi il caffè in centrale. E io mi sorprendevo della tua gentilezza.»
Si zittì e lo guardò.
Osservò il suo viso come se volesse cibarsi dello spavento e della delusione che lo stavano affondando.
Lo scrutava, vedeva tutto quello che stata passando e non faceva nulla per migliorare la situazione, mentre due parti diverse del suo essere si contendevano le parole da esclamare.
Si sentiva umiliata.
Provava una rabbia fredda e incolore, perchè Xavier aveva fatto per l'ennesima volta quello che lei non poteva sopportare.
Aveva cercato di aiutarla con l'inganno quando lei era l'unica che potesse decidere se voler essere aiutata o meno.
Era stato sleale, quasi un vigliacco, compiendo un gesto acerbo e sciocco, e pensando che lei non se ne sarebbe accorta l'aveva involontariamente definita stupida.
Se avesse pensato alla sua, di vita, lasciando che ognuno risolvesse i propri problemi, in quel momento non si sarebbero trovati lì, uno di fronte all'altro, osservandosi senza poter dire nulla, e lei non si sarebbe sentita così confusa e indecisa su come agire, senza poter sapere quale fosse la scelta giusta da fare: se seguire l'ira e liberarsene, pensando a se stessa, oppure lasciare spazio alla paura di poter far soffrire e rimanere in silenzio.
Qualunque fosse la sua scelta, sentiva che sarebbe stata inevitabilmente sbagliata.
«Cosa credevi che sarebbe successo, con un cazzo di decaffeinato? Che sarei improvvisamente guarita?» rise per qualche attimo, sforzandosi di non piangere come una debole, mentre la voce prometteva di spezzarsi. Non poteva lasciarsi andare proprio in quel momento.
«Non provare a giocare allo psicologo, Xavier. Lascialo fare a Liza. Non credo tu sia adatto, troppi problemi...» Dopo aver parlato si rese conto che la scelta giusta era quella che non aveva compiuto, era sempre stata quella e non l'aveva seguita.
Lei non sapeva scegliere.
Un'indecisa. Un'indecisa del cazzo. Ecco quello che sono.
Lo ripeteva, come se farlo e autopunirsi a quel modo potesse alleviare la situazione.
Lo pensava, mentre distoglieva lo sguardo.
«Ma io non sto giocando allo psicologo. Sto solo cercando di fare quello a cui tu non hai pensato di fare con me» rispose Xavier, calmo, mentre rimaneva immobile sulla sedia, «ti sto aiutando, ma forse sei troppo presa da te stessa per accorgertene.»
Non poteva davvero avergli fatto pesare una cosa del genere.
Dopo tutte le volte che i suoi pensieri avevano dovuto lasciare spazio alla preoccupazione e per quelle altre in cui aveva sofferto con lei come se i problemi di Zelda fossero anche i suoi.
E adesso gli rinfacciava di essere stato troppo presente, forse addirittura...
Opprimente.
Si dimenticò dell'ansia.
Del fatto che lei fosse in un momento delicato. Delle sue preoccupazioni, della fragilità, di tutto.
Zelda accusò il colpo con un sorriso contenuto, poi prese una sigaretta dal pacchetto e l'accese, mentre il suono scricchiolante della fiammella dell'accendino riempiva la cucina.
Questa volta l'ho colpita. Almeno fatta vacillare. È impossibile il contrario.
È impossibile.
Xavier la osservava da dietro il manto di fumo e sapeva con certezza di averla ferita.
«Puoi fare tutto quello che vuoi, con la tua vita. Licenziati. Cambia lavoro.» Zelda si alzò e si versò altro caffè dalla brocca che giaceva vicino al lavandino, mentre tra le dita teneva la sigaretta.
Ogni tanto colpiva il filtro con un gesto secco. Aspirava brevi e nervose, scocciate, boccate di fumo grigio, mentre quello stava annebbiando l'atmosfera della stanza.
«Cambia stato. Sparisci. Vattene a Chicago con Liza» un'ultima boccata, mentre appoggiava la caraffa e quella faceva ondeggiare il caffè rimanente al suo interno, «non mi interessa minimamente.»
«Ma non provare a mischiare la tua vita con la mia. Non tentare di fare il misericordioso cercando un rimedio ai miei problemi, sempre, perchè l'unico risultato che ottieni è di essere noioso. E ripetitivo.» Zelda prese il caffè, ne bevve un lungo sorso, poi abbandonò la tazza, come se avesse perso tutta la sua attenzione.
«Ripetitivo e noioso. Non mi è nuova. Forse lo diceva sempre anche mamma?» Xavier si alzò per prendere la giacca.
Non avrebbe tollerato un altro minuto lì, davanti a Zelda, perché era certo che avrebbe detto qualcosa di cui si sarebbe pentito.
Le hai risposto a tono. Hai superato le sue provocazioni. Adesso fermati.
Fermarsi. Sapeva che doveva farlo.
Anche se sentiva un odio cupo e profondo che non pensava fosse capace di provare per Zelda.
La stessa Zelda che gli aveva regalato un calendario per annaffiare le piante perché vedendolo aveva pensato a lui.
Dov'era quella persona?
Dov'era, adesso, la sua Zelda?
Forse non era mai esistita.
Un'illusione dettata dall'affetto.
«Forse. Ma non aveva tutti i torti, in fondo.» Zelda sistemò il drappo di seta verde che la avvolgeva dalle spalle fino a chiudersi in maniche larghe e sottili, e le piume di pavone, che adornavano i bordi finali della veste, ondeggiarono come sotto la spinta di un lieve vento.
«Non so come, ma me la ricordi sempre di più. Prima o poi sarebbe dovuto accadere, suppongo, che diventassi come lei.»
Xavier continuò a parlare monocorde, apparentemente tranquillo.
Perché era così che i Lynch discutevano.
Come se non lo stessero facendo.
Se qualcuno li avesse osservati da un palazzo di fronte al loro, guardandoli attraverso la finestra illuminata della cucina di Zelda, avrebbe pensato che stessero semplicemente conversando.
Perchè quel qualcuno era troppo lontano per scorgere i loro sguardi a tratti irati, a tratti glaciali, e costantemente feriti.
E non poteva sentire le parole che si scambiavano con così tanta calma e crudeltà, aprendo punto per punto degli squarci mai rimarginati e perennemente infetti.
«Non ti ostinare a mantenerti calmo quando in realtà non lo sei veramente.» Zelda lo zittì quasi, mentre le sue parole s'accavallavano con quelle di Xavier.
Spense la sigaretta sotto alla corrente del rubinetto, poi l'abbandonò nel lavandino, lasciando che si sgretolasse lentamente.
Non volevo arrivare a questo punto, si disse. Poi rise di se stessa.
Certo che volevo.
L'avrebbe smessa, ora? Davvero Xavier avrebbe smesso d'infiltrarsi nella sua vita, cercando di estirpare i suoi problemi come si strappa un'erbaccia?
Sì.
Aveva fatto del suo peggio.
Era stata, per qualche momento, quella persona che aveva cercato di sopprimere da sempre.
Quella che era continuamente presente, ma che non trovava mai valvola di sfogo perchè c'era Zelda a contenerla in un piccolo vaso dei difetti.
Lo stesso in cui comprimeva, con difficoltà, tutte le sue psicosi.
Da troppo tempo quel vaso si era infranto sul suolo della sua mente e di lui restavano solo i cocci, freddi e senza più significato, mentre tutto ciò che un tempo era stato al suo interno si era liberato come da un vaso di Pandora.
«Ora, se permetti, vorrei prepararmi per lo spettacolo di Wilson. Perchè non fai lo stesso anche tu?» Zelda chiuse il discorso così, prima che Xavier potesse dire qualsiasi cosa.
Poi, semplicemente, lo ignorò.
Andò in sala, prese un vinile di Glenn Miller e lo posizionò sul piatto.
Le note di Doin' The Jive furono improvvise e violente.
Tentando di riportare la situazione a uno stato normale crearono un'atmosfera ancora più surreale e malsana.
Zelda tornò dalla camera da letto con due vestiti luccicanti.
Guardò il primo, di un dorato pallido, lungo e semplice, cosparso di frange.
Poi puntò lo sguardo sul secondo, nero, con drappi dietro alla schiena che, scendendo come cascate di pece lungo tutta la lunghezza dell'abito, creavano uno scollo profondo.
Li squadrava entrambi, mentre nella mano teneva un fermaglio a cui avrebbe dovuto abbinare uno dei due.
Li contemplava mentre sussurrava il testo del brano, assorta.
If you can't play Romeo or?
Don't let it bother you
Cause you'll be the King
When the band begins to swing.
Xavier guardò un'ultima volta la cucina.
La luce led che sfarfallava, la ventola che si muoveva leggera, ronzando.
Le ombre di colori sgargianti e sfocati fuori dalla finestra.
Avrebbe imparato che con Zelda non sarebbe mai stato capace di competere, anche quando aveva la certezza di aver già vinto?
Un mito. Un collegamento. Una persona.
Era questo che Valentine si era prefissato.
Uno schema.
Certo che aveva dovuto creare uno schema. Come poteva, uno come lui, non avere uno schema?
Come poteva, un piano come il suo, non necessitare di uno schema?
Una pagina aperta, proiettata davanti a lui.
«Ecco che cosa ho trovato per: La leggenda di Icaro e Dedalo» rispondeva una voce vuota e meccanica.
Icaro.
Che ti sei spinto troppo oltre.
Eri sicuro di potercela fare anche se avevi paura.
«Ma non è stato così» sussurrava Valentine all'acquario.
Ti facevi coraggio, ma il Sole è sorto all'improvviso e la cera che ti proteggeva fino a quel momento si è sciolta.
Il Sole ti ha fatto cadere.
«Ti ha fatto cadere» ripetè Valentine, mentre con i polpastrelli sfregava la carta lucida e liscia di un volantino.
Programma Dionysus, stagione invernale.
Fino ad ora sei stato bravo. Ma come ti sentirai, dopo la caduta?
«È quello che voglio sapere» si disse, mentre guardava la parete vicino a lui, deturpata da una scritta dalla calligrafia impeccabile.
Il primo, sarà quello generico.
Si avvicinò, prese il pennarello nero deposto sul tavolo tenendo lo sguardo fisso sul muro in penombra, dove la scritta s'illuminava e poi tornava nell'ombra in un ritmo perpetuo e calmo.
Scosse il pennarello e poi tolse il tappo.
Scrisse.
Le parole si formavano mentre il volto di Valentine veniva rischiarato dalle luci tenui dell'acquario.
Il secondo, scrisse, mentre il tratto del pennarello scorreva sulla superficie liscia del muro.
Simile, concluse.
Chiuse il pennarello.
Si allontanò per osservare il lavoro.
Il secondo, dedicato a qualcuno di simile.
Gli servivano delle piume.
Candide.
E della cera.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top