Capitolo 23- Come sfere di vetro
9 gennaio, sera
Guardò l'edificio davanti a lei, e la prima parola che balenò tra i suoi pensieri fu asettico.
Candido, pulito, lineare.
Un biancore a cui Zelda non era abituata.
Tutto le sembrava così diverso dal suo palazzo colorato, dalle scale di metallo sul retro su cui a volte si sedeva, in piena notte, dal rumore della strada di fronte.
Era come se Mies Van der Rohe fosse un mondo a sè.
Un paradiso niveo e luminoso che non conosceva altro al di fuori dei confini della via, illuminati da luci soffuse, come ad indicare che da lì in poi la gente avrebbe incontrato una Detroit sconosciuta ed estremamente raffinata. Asettica nella sua eleganza.
Zelda si avvicinò all'edificio, controllando un'ultima volta che fosse quello indicatole da Liza.
Alzò il viso al cielo, osservando il tetto.
Un ologramma di Louise Brooks svettava sulla cima.
Era il palazzo giusto.
Liza piegò la lettera in due, poi la sistemò dentro a una busta di plastica e l'abbandonò sul comodino.
Tornò indietro, spostandola in uno dei cassetti del mobile vicino alla televisione.
Meglio che Zelda non lo sappia, si disse.
Una spasmodica attesa di parlare, di sapere che Zelda non era tanto grave quanto Xavier le aveva fatto credere, la stava consumando da giorni.
Ma ora che aveva ricevuto quel biglietto si accorse di quanto fosse impreparata.
Sarebbe veramente servito a qualcosa, parlare con lei?
Se Enigma avesse usato anche quello contro di loro?
Scacciò quell'idea insensata, per poi porsi un'altra, nuova domanda.
Se Enigma sa di Esther, quanto ci metterà a scoprire altre informazioni private?
Nessuno sapeva di Chicago, nessuno sapeva della Cohen.
Non ne aveva parlato nemmeno al colloquio ed era sempre riuscita a tenere certe cose per sè, sviando le domande con destrezza.
Il fatto che uno sconosciuto potesse aver invaso la sua vita così violentemente la fece sentire quasi umiliata.
In cosa aveva sbagliato?
Non si era mai lasciata sfuggire nulla.
Allora perchè quella nuova, semplice e irritante domanda continuava a vorticarle per la testa senza che trovasse pace?
Non aveva creduto nemmeno per un momento che Enigma potesse fare certe delle cose che gli altri avevano ipotizzato, ma ora un dubbio prese a strisciare e a sibilare come una serpe, aggrovigliandosi e stringendo la presa sempre di più: fin dove si sarebbe potuto protrarre, quanto sarebbe stato profondo, quel gioco di psicologia?
Il campanello squillò in un suono sordo.
«Aspetta ospiti, Liza Aster? Se la risposta è affermativa, procederò con l'apertura del portone. Se la risposta è negativa, avvierò il servizio di allarme. Se la risposta non viene data entro cinquantacinque secondi, avvierò il servizio d'allarme.»
«La risposta è affermativa, grazie.» A volte si pentiva di aver installato la funzione ClearCircle per appartamenti.
«Zelda, benvenuta!» Liza l'accolse dall'uscio, fece scorrere una mano sul suo braccio e le sorrise nella maniera più dolce possibile. La invitò subito ad entrare, poi disse: «Dammi pure il cappotto, altrimenti lascialo sull'attaccapanni. Vuoi qualcosa da bere?»
Troppe domande, pensò Zelda, mentre rimaneva all'entrata, con l'impermeabile nero e lucido ancora addosso, brillante sotto la luce dei led caldi del corridoio.
Sentiva un rintocco, sottile e indefinito, provenire da dentro alla stanza.
Un suono estremamente ritmico.
«Caffè.» Rispose.
«Perfetto. Allora accomodati pure, io vado un attimo a preparare del tè e il tuo caffè e arrivo.»
Zelda varcò la soglia e si guardò intorno. L'appartamento di Liza era esattamente in coordinazione con lo stile del palazzo, ma c'era qualcosa che lo rendeva più personale.
Come un'aurea unica con scritto sopra il suo nome.
Alle pareti aveva appeso dei quadri completamente in bianco e nero di un pittore moderno che si firmava con una semplice "E", una riproduzione di un Hopper che Zelda ricordava di aver visto a una mostra qualche anno prima e dei vinili incorniciati.
Zelda spostò lo sguardo su una delle mensole illuminate posizionate sopra la televisione, trovando la causa di quel ticchettio incessante.
Un metronomo di legno rossiccio era posizionato al centro della mensola, mentre la sua unica lancetta di metallo opaco oscillava da una direzione all'altra, lenta e perpetua.
Zelda lo osservò a lungo, ascoltando il suo rumore che si protraeva nello spazio come unico suono percepibile.
Diede altre rapide occhiate al metronomo. Occhiate fugaci, come se avesse paura che ammirarlo troppo a lungo l'avrebbe ipnotizzata.
Ticchettava, la lancetta ondeggiava, le lanciava un'occhiata.
Una sequenza di immagini continua, ripetuta.
C'era solo il silenzio vuoto, colmato da quel suono, insieme a lei: anche se Liza era in cucina, per un attimo Zelda credette che fosse sparita e che l'avesse lasciata da sola con il metronomo.
Ticchettava, la lancetta ondeggiava, le lanciava un'occhiata.
Poi, How long has this been going on?
Era partito quel brano dal nulla e la voce di Lena Horne si era stesa come un manto nella sala, coprendo in parte il ticchettio.
Si sentì senza aria.
Ancora peggio, si sentì impazzire.
Zelda prese la borsa con cui era arrivata, non posso farcela, pensò, mi sto solo forzando a fare una cosa che non voglio.
Camminò con leggerezza verso la porta d'ingresso, cercando di aprirla facendo meno rumore possibile.
«Impronte digitali non riconosciute. Apertura non autorizzata. Procedere con l'avvio del sistema d'allarme?»
«Cazzo!» sibilò Zelda, allontanandosi dalla porta con uno scatto.
Non è possibile, pensò, nel panico più totale, per poi sedersi sul divano con un fruscio, sperando che non fosse così evidente la sua tentata fuga.
«No, non procedere!» gridò Liza, accorsa in sala, «Zelda, cosa è successo?»
«Niente» Zelda si sistemò i capelli, poi puntò la sguardo verde sull'altra, «mi sono avvicinata alla porta e ha iniziato a parlare.»
C'era una naturalezza grandiosa nel suo tono, una convinzione leggiadra e rigorosa che fece sorridere Liza.
«Zelda» disse, «il comando non si avvia se la maniglia non viene toccata.»
Sono in trappola, pensò lei, mi ci sono messa da sola, in trappola.
La sua espressione rilassata si tramutò in una maschera di tensione, «Allora non so come-»
«Non c'è problema. Se vuoi andare sei libera di farlo, senza dover fuggire di nascosto.» Liza si sedette nella poltrona davanti al divano.
Dietro di lei si stagliavano metri di una vetrata che mostravano come la città e le sue luci si stessero preparando alla sera.
Se se ne fosse andata forse sarebbe stato meglio per entrambe.
Era quello che Zelda desiderava, e lei... lei avrebbe semplicemente lasciato un posto vuoto nella sua vita.
No, pensò Liza, non potrei.
E si spaventò di aver pensato, per un momento, che potesse lasciare che tutto le sfuggisse dalle mani senza reagire, forse essendone addirittura sollevata.
Zelda la guardò allibita, ma disse solo, calma, «va bene, allora. Di cosa devo parlare?»
Non sei obbligata a parlare di nulla, avrebbe voluto risponderle Liza, ma pensò che fosse meglio assecondarla, «bene» disse, mentre andava a recuperare la tazza che aveva lasciato sul tavolo, «sono stata informata su qualcosa, niente di che. Vorrei che fossi tu a descrivermi dettagliatamente come ti senti.» Spesso usava dire "descrivere il problema", ma credette che con Zelda il termine avrebbe creato solo ancora più distacco.
Sono stata informata... pensò Zelda, immagino cosa ti abbia potuto dire Xavier.
Zelda inarcò le sopracciglia e si lasciò sfuggire uno sbuffo, «Non bene. Mi sento stressata, non dormo, ho costantemente un senso di nausea e mal di testa.» Disse tutto d'un fiato, come se le parole le pungessero la lingua ogni volta che venivano pronunciate e lei volesse terminare quell'agonia il prima possibile.
Il suo tono era freddo, quasi annoiato, e aveva elencato i sintomi come se stesse leggendo per l'ennesima volta la lista della spesa.
Liza annuì, mentre squadrava i movimenti impazienti dell'altra.
Si stava chiaramente nascondendo dietro una barriera di cristallo da cui Liza poteva solo captare quello che lei permetteva.
«Da quanto tempo ti senti così?» chiese Liza, aspettando paziente una risposta.
«Da qualche mese.»
«La situazione è peggiorata?»
«Sì. Da almeno una settimana.»
«Quindi da quando avete accettato il caso Enigma. È comprensibile.»
«Noi non lo abbiamo mai accettato, il caso Enigma.» Chiarì Zelda, come a ricordarle che in qualche modo era stato Enigma stesso a scegliere loro, che lo volessero o meno.
Poi fermò quell'ondata di domande e risposte, chiedendo: «Posso?» indicò il pacchetto di sigarette e guardò Liza negli occhi.
«Certo» la autorizzò con un gesto della mano, «e per quanto riguarda l'umore?»
«Nel senso se sono felice o triste?» Accese la sigaretta e le sue pupille s'illuminarono davanti alla luce dell'accendino.
«Una cosa del genere, sì.»
Zelda rimase in silenzio, assorta.
Poi scoppiò in una breve risata, «pensavo sarebbe stato più semplice da descrivere.»
«Ma tu provaci. Se non so come ti senti, anche in questo momento, non posso capire veramente cosa fare» disse Liza, seria, mentre cercava di ricordare con chi avesse già usato una frase del genere.
Poi ricordò.
«Se non mi dici come ti senti, io non posso fare nulla per te. Perché non vuoi più parlarmi? Se continua così, dovrò assegnarti a un mio collega.»
Zelda inspirò, mentre teneva la sigaretta tra due dita, sopra al grembo, lasciando che dei grumi di cenere si depositassero sul tubino.
«È come se vedessi quello che mi circonda da lontano. E non ne fossi partecipe, perché sono concentrata a non pensare. E più cerco di non pensare più trovo altre cose di cui preoccuparmi.»
«A cosa pensi di solito?»
Zelda scosse la testa, «a qualsiasi cosa. Può essere qualcosa che ho detto e di cui mi pento, qualche ricordo, delle preoccupazioni in generale. Tante cose.» Sbrigativa. Il suo tono lo era, sbrigativo.
Voleva solo che Liza le cucisse addosso una soluzione che calzasse a pennello sia a lei che ai suoi demoni.
Nient'altro.
Niente chiacchiere inutili e dolorose.
E soprattutto niente particolari.
Liza si sporse verso il divano, sistemando il gomito sul bracciolo della poltrona, «ci sono dei momenti in cui riesci a non pensare a delle cose che ti possano mettere in ansia?»
Zelda guardò la sigaretta sgretolarsi, «prima. Adesso sono molto più rari.» Osservò la tazzina di caffè che Liza aveva lasciato sul tavolo, ma non si alzò per andarla a prendere.
Liza alzò lo sguardo verso di lei.
La situazione è veramente come l'ha dipinta Xavier, allora?
Il tono di Zelda le fece credere che sì, lui non aveva esagerato come pensava.
C'era qualcosa, nella voce di lei, che l'aveva messa quasi in soggezione.
Adesso sono molto più rari.
Lo aveva detto con una piattezza assoluta e angosciante.
«Tutti questi pensieri possono derivare anche dal fatto che tu non stia dormendo molto, negli ultimi tempi. Potresti aver accumulato troppo stress e il poco sonno peggiorerebbe solo la situazione.»
«No» Zelda abbassò lo sguardo, mentre il fascio di luce di una pubblicità proveniente dalla vetrata le impallidiva il volto, «non dormo perché non voglio. Sarebbe il momento in cui penso di più.»
«Quindi la tua insonnia è una conseguenza di questi pensieri?» Anche Liza fu investita dal neon della pubblicità, mentre quella faceva il giro del palazzo di fronte.
Era uno spesso cerchio che circondava l'edificio, tempestato di scritte viola che vorticavano in un movimento concentrico.
«Non dormo per via dei miei pensieri, sì.» Si rifiutò di parlare d'insonnia.
Perché lei non lo era, insonne.
Non poteva esserlo.
«Ho capito.» Liza rimase in silenzio, aspettando che l'altra continuasse a parlare. Sempre se l'avrebbe mai fatto.
«Liza» Zelda si voltò nella sua direzione, «potresti fermare il metronomo, perfavore?»
Liza, come colta di sorpresa, sbarrò leggermente gli occhi.
Tutto si aspettava, per un attimo aveva addirittura pensato che Zelda potesse iniziare a parlare sinceramente con lei, ma mai si sarebbe aspettata una richiesta tanto banale in un momento del genere.
«Sì, scusami.» Si alzò e allungò un braccio per fermare la lancetta del metronomo.
«Grazie.» Spense la sigaretta nel portacenere di cristallo posizionato sul tavolino vicino a lei. Per un attimo si chiese il perchè di quel posacenere in casa di una persona che probabilmente non aveva mai fumato in vita sua. Poi riportò la mente alla realtà.
Stava pensando a un posacenere.
Un posacenere in mezzo a tutto quel casino.
«Un'altra cosa che mi succede spesso è non riuscire a provare niente.» Dopo un'attesa che parve infinita, la voce limpida di Zelda spezzò il silenzio. Si stropicciò gli occhi con una mano. Avrebbe davvero continuato a parlare?
D'un tratto le sembrava che la sua voce fosse diventata parte della stanza, mimetizzandosi e incoraggiandola a continuare.
«Nel senso, vorrei tanto provare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non ci riesco perchè sono troppo assorta a pensare. Sì, pensare, ecco. Riesco sempre a trovare gli scenari peggiori per tutto, convincendomi che siano gli unici possibili.
Tutto mi sembra sempre troppo, quello che dico, le decisioni che prendo, tutto.
Poi ripenso a come avrei potuto fare diversamente qualcosa.
Non riesco a dirmi: "Oggi sto bene".
Se qualcuno mi chiede come mi sento, rispondo "Abbastanza".
Che razza di risposta è abbastanza?
È la risposta di una persona triste.
Ma io non voglio risultare triste agli occhi di nessuno.
Io voglio solo tornare a essere produttiva come prima, solo non capisco come mai questa volta sia diverso. Tutto diverso.
Le altre volte mi sentivo così, ma non troppo. Non influiva con il lavoro.
Adesso influisce con il lavoro e con la mia vita. Forse non ho più il controllo su me stessa.
O forse sto diventando sempre più grave ed è una cosa che prima o poi non potrò più sopprimere.
E la notte. Devo uscire, altrimenti non ce la faccio. Non ce la posso fare.
Esco e così mi dimentico di avere sonno.»
Le parole cadevano come foglie d'inverno, una dopo l'altra, sconclusionate, accavallate, senza il minimo filo logico.
E Zelda le lasciava scivolare, sputandole con sofferenza sul pavimento di marmo candido. Guardò Liza in cerca di conferme, come se sperasse solo che lei avalorasse le sue pessimistiche teorie, «poi arrivano i ricordi. Mi ricordo cose che pensavo di aver dimenticato da anni e ci sto male.
Mi ricordo di mia madre e mi deprimo.
Mi ricordo della mia cameretta e mi sento in ansia.
Mi sento in ansia e non so nemmeno per cosa. Anche quando credo di essere tranquilla torno a preoccuparmi, perchè ormai è l'unica realtà che io conosca.
È come se sentissi sempre che c'è qualcosa di sbagliato, dappertutto.»
La voce le si incrinava a ogni parola di più, ma lei continuava a parlare incurante del groppo che le stava percorrendo la gola.
Parlava e non si accorgeva nemmeno più che Liza fosse lì con lei.
Stava discutendo con se stessa, si stava incolpando dei suoi tormenti e sembrava stesse argomentando una tesi su quanto fosse ingarbugliata la sua mente.
I suoi occhi, in penombra, luccicavano come gocce di cristallo, e la sua chioma si scheggiava in piccole ciocche sempre di più, man mano che muoveva il volto da una direzione all'altra.
Liza era rimasta ad ascoltarla, in religiosa quiete, mentre spostava lo sguardo lungo la sua figura, osservando i gesti che compiva mentre parlava e soffermandosi sulla sua espressione spaventata.
Era quasi evidente, quale fosse il suo problema. Il suo e quello di Esther, pensò Liza.
Anche lei era iniziata così.
«La mia vita è fatta di preoccupazioni, bicchieri d'acqua e prozac.» Esther lo diceva spesso. A volte con ironia, altre volte...
Ma adesso non si tratta di lei, si rassicurò Liza, adesso si tratta di Zelda. Due persone diverse, due menti diverse, due sviluppi del disturbo diversi.
«Zelda, a volte ti capita di sentirti in pericolo senza che tu sappia precisamente il perchè?»
Lei annuì, improvvisamente ammutolita.
Come mi è saltato in mente di dirle tutto questo? Pensò, mentre sentiva le guance iniziare a pizzicarle e dei brividi insopportabilmente caldi salirle fino al petto. Doveva andarsene.
Come aveva solo potuto pensare che tutto si sarebbe risolto con una chiacchierata?
La verità era che voleva parlare con lei solo per sentirsi elencare a voce alta i suoi problemi. Pensava che ciò avrebbe potuto farla sentire meglio, più leggera, ma in quel momento si rendeva conto di quanto fosse stato inutile tutto quel teatrino.
«Stai provando una sensazione simile, in questo momento?» chiese Liza, con una fredda dolcezza nel tono.
Zelda si alzò, «no» deglutì, accarezzandosi la fronte con un gesto rapido, «no, non è niente. Allora, qual è il mio problema?» liquidò il tutto con un tono tremolante e paradossalmente deciso e una nuova domanda, dritta al punto, impaziente.
«Zelda» Liza le sfiorò il braccio, facendola sedere di nuovo, «credo tu soffra di un disturbo dell'ansia. I sintomi ci sono tutti, e penso potresti aver avuto alcuni attacchi di panico, in passato.»
Lei si sedette con lentezza.
Composta e inflessibile chiese: «Qual è la causa?»
«Questo è quello che dobbiamo capire. Potrebbe derivare tutto da un trauma passato» si soffermò qualche attimo su quelle ultime due parole, osservandò la reazione di Zelda.
«No, non lo so. Sono sempre stata così. Solo, non così grave.» Parlò come se quelle fossero le sue ultime parole prima della pena di morte.
Disturbo d'ansia.
Non era stress temporaneo, non era un periodo difficile.
Era qualcosa di classificabile, quindi concreto.
«L'ansia potrebbe essere sempre stata parte di te, ma qualcosa che non ti ricordi potrebbe averla risvegliata.»
Zelda annuì in un gesto impercettibile del viso, «come si può curare?»
«Non si può curare» Liza sorrise, «si può attenuare, controllare. Ci si può lavorare. Ma non potrà mai sparire del tutto. Il primo passo è imparare a conviverci-»
«Significa che non potrò mai essere normale? Equilibrata? Senza dovermi preoccupare di dover placare in continuazione qualcosa di implacabile come ho fatto per tutto questo tempo?»
Non era servito a nulla, allora.
Fino a quel momento aveva pensato che la sua fosse semplicemente una situazione temporanea, che prima o poi sarebbe riuscita a estirpare.
Si era preparata a lungo per quel momento, perchè dentro di lei era convinta che fosse così solo perchè non faceva niente per non esserlo. E se fosse andata da una come Liza, avrebbe trovato una soluzione.
Avrebbe potuto chiudere un capitolo della sua vita che era durato ventisette anni e iniziarne uno nuovo più spensierato, equilibrato, normale.
Ma quella soluzione che aveva ritenuto fosse da sempre dietro l'angolo ad aspettarla, quando avesse avuto il coraggio di raggiungerla, non esisteva.
Ne esisteva una copia sbiadita e consumata, fatta di forse, con niente di sicuro da prometterle.
A cosa erano serviti quell'autocontrollo, quel distacco e quei sacrifici che aveva stabilito nell'attesa di affrontare le sue paure per risolvere la situazione una volta per tutte?
In quel momento non solo sentì tutta la cieca speranza in cui aveva confidato abbandonarla, ma ebbe la terribile certezza che tutti i suoi sforzi fossero stati vani, stupidi e dannosi.
«No! Zelda, tu sei già normale. Devi solo abituarti all'idea che l'ansia sia una parte di te. Questo non pregiudica il fatto che tu, un giorno, possa addirittura dimenticarti di averla» Liza si alzò dalla poltrona per sederle vicino sul divano, «è una cosa frequente e banale. Capisco come tu possa sentirti adesso, ma se cercheremo di affrontare la cosa, riuscirai a essere molto più tranquilla con pochissimo.» Le cinse le spalle con un braccio, carezzandole le braccia con un gesto rassicurante.
«Non pensavo-» Zelda si fermò.
La sua voce non resse più, spezzandosi un'ultima volta.
Le parole si infransero prima di poter essere pronunciate, lasciando spazio a un sospiro teso e tremante.
Quando le prime due lacrime scesero insieme, scorrendo leggere sulle sue guance e incontrandosi sulla punta del mento, Zelda capì che non sarebbe servito a nulla continuare a fingere.
Fingere di avere tutto sotto controllo, fingere di stare abbastanza bene e fingere che tutto quello che era appena successo non l'avesse toccata.
Copiando le prime, altre coppie di lacrime le solcarono le guance, adornandole gli angoli degli occhi fino a straripare e strisciare come anguille trasparenti.
Era un pianto silenzioso.
Sofferto, ma pur sempre in perfetta sintonia con la sua personalità.
Zelda abbassò lo sguardo e il neon della pubblicità tornò a illuminarle il viso imperlato di gocce lucide, facendole bruciare gli occhi fragili e arrossati.
Rimase ferma, mentre Liza ancora sfiorava le sue spalle scosse da singhiozzi muti.
Non me lo aspettavo, pensò Liza.
Tra tutte le ipotesi che aveva programmato, quella della fragilità le era sembrata quella meno possibile.
Solo in quel momento si rese conto di quanto fosse stata superficiale a scartarla.
Perché si era aspettata qualcosa del genere da Xavier, ma guardando Zelda piangere pensò che potessero essersi scambiati di posto per un momento.
Oppure, semplicemente, lei non aveva ancora capito nulla di loro.
Che lo volesse o meno.
Lo credeva, ne era quasi certa, pensava di aver colto la vera essenza di entrambi, ma davanti a quella situazione iniziò a ricredersi e a dubitare di se stessa.
«Scusa» mormorò Zelda, forse nemmeno riferendosi veramente all'altra.
Scusa.
Forse si stava scusando con se stessa.
Scusa per averti illusa.
Poi tornò a piangere, senza fare nulla per fermarsi, senza preoccuparsi di asciugare il volto e senza rifiutare la vicinanza discreta dell'altra.
Era come se la sua figura fosse immobile, nella penombra, come una una fotografia, mentre l'unico dettaglio ancora in movimento fossero le lacrime, simili a sfere di vetro.
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