Capitolo 14- Una vecchia foto di Lee Miller

Un rumore dapprima soffuso, poi sempre più insistente e fastidioso, fece svegliare Oscar Mulder.
Era la suoneria del suo ClearCircle, deposto sul comodino la notte prima.
Mulder guardò l'orario.

Le sei e mezzo, cazzo! Pensò il detective, riuscendo a malapena a tenere gli occhi aperti. Sentiva le palpebre pesanti e l'abbozzo di un forte mal di testa sulla fronte.

Realizzò dopo pochi secondi di essere in una stanza d'hotel nel centro della città e non nel suo cottage.
La sera prima aveva preferito restare nei paraggi per affrontare un possibile interrogatorio il giorno dopo.

Accese l'abat-jour, guardò il dispositivo, accettò la chiamata, ma mise in modalità di solo audio.
Non poteva farsi vedere in quelle condizioni, al buio, appena sveglio, con la faccia devastata dal sonno.

L'ologramma del volto snello di Xavier si mostrò in tutto il suo severo fascino, illuminando una porzione di stanza.
Si guardava intorno con compostezza, muovendo gli occhi verdi e scrutatori da una parte all'altra.
«Mulder, ti chiamo col ClearCircle di Zelda. Non ti vedo, hai disattivato l'ologramma?» chiese con una punta di rimprovero nella voce, mentre, con una mano guantata, si sistemava una porzione del colletto bianco della camicia che sbucava dalla giacca.
Era impeccabile in tutto e per tutto già alle sei e mezzo del mattino e questo Mulder faceva difficoltà a comprenderlo.

«Eh... sì sì, l'ho disattivato io. Ti sento, dimmi.»

«Stamattina, per le cinque, è tornato a Detroit Francis Allen. Lo stanno portando in centrale adesso.» Si sentì un chiacchiericcio indistinto, poi Xavier si schiarì la voce e proseguì, «preparati e raggiungici, l'interrogatorio comincia tra mezz'ora» affermò, prima che la sua figura proiettata svanisse, lasciando calare nuovamente il buio nella stanza.

«È già nella sala interrogatori, sembra molto spaventato.» Zelda raggiunse Mulder nella hall della centrale di polizia.
Portava una gonna color caramello che le arrivava sotto al ginocchio, stretta in vita da una sottile cintura, e una camicetta bianca dai bottoni color mogano.
In una mano guantata di pizzo teneva ancora la cloche, «non fa altro che ripetere che è innocente, è in panico e dieci minuti fa ci è mancato poco che non si mettesse a piangere, non ho mai visto nulla del genere!» si voltò di scatto e gli orecchini d'argento che portava tintinnarono, «Mulder, stai tornando da un cocktail delle sei per caso?» chiese poi con una punta di ironia, soffermandosi sul completo del detective.
Anche se il suo tono era sarcastico, Mulder potè notare come Zelda fosse estremamente seria e soprattutto pensierosa.
Una patina di stanchezza le avvolgeva il volto chiaro.

Lui la guardò esasperato, «avevo solo questo di pulito, d'accordo? E che si fotta tutto questo dress code, io vestito elegante sto bene pure alle sette del mattino» disse, mentre Zelda alzava gli occhi al cielo sorridendo rassegnata.

«Io non so che cosa fare! Ho provato a calmarlo ma è inutile!» Alma Bailey uscì dalla sala interrogatori di fretta, ondeggiando nel vestito a pieghe e reggendo tra le dita smaltate di rosso una sigaretta.
Ne aspirò una lunga e nervosa boccata e poi dichiarò: «Oh, Mulder, menomale che sei qui! Quell'Allen mi sta facendo disperare, ho bisogno di uscire un secondo.» Prese il cappotto bordeux e si diresse verso l'uscita.

«Aspetta, Alma, chi ti ha detto che potevi entrare nella sala interrogatori?» domandò guardandola perplessa.

Alma sbuffò, poi le cadde della cenere sulle scarpe di vernice e imprecò, «Carter» disse sospirando affranta, «mi ha detto di fare qualcosa per calmarlo perché lo irritava.»

Mulder e Zelda si rivolsero un'occhiata inviperita.

«Adesso chi c'è a parlare con lui?» Il detective avanzò verso la sala interrogatori.

«Xavier» rispose Alma, «ho lasciato il posto a lui, io non so che cazzo fare, Mulder!»

Zelda si avvicinò alla porta.

«Noi non la stiamo accusando di niente, signor Allen! Per favore, mi ascolti!» Xavier era seduto di fronte a un uomo sulla quarantina che stava accasciato sulla superficie del tavolo di metallo.

«Io sono innocente, sono innocente» ripeteva, per poi esclamare: «Che cosa dirà la ditta adesso? Mi avete rovinato, santo Dio che scandalo!» Era squassato dai singhiozzi e non faceva altro che agitarsi sempre di più.

Xavier lo guardava con gli occhi sbarrati, nella confusione più totale.
Quando vide che Allen era scoppiato a piangere e respirava come se stesse avendo un attacco di panico disse solo: «La prego di attendere un attimo.» Poi aprì la porta e se la richiuse alle spalle come se nell'altra stanza ci fosse una bestia mortale.

«Qui serve Liza. Mi serve Liza e un bicchier d'acqua» esclamò, sistemandosi le ciocche rosse che gli ricadevano sugli occhi atterriti e dirigendosi verso la sala caffè.

«Scusate il ritardo, c'era traffico.» Liza si fermò davanti all'uscio, zittendosi, mentre il sorriso che le increspava le labbra fino a poco prima stava scomparendo, «Qui se passe t-il? Cosa sta succedendo?»

Xavier le si avvicinò, tornando indietro, «Francis Allen, uno degli indiziati» si fermò per riprendere fiato, «credo stia avendo un attacco di panico, non lo so, non so che cazzo stia facendo» esclamò, ansioso, guardando Liza negli occhi, «Liza, ti prego, fai qualcosa.» La implorò, appoggiandole le mani sulla spalle.

A quella richiesta d'aiuto Zelda si voltò.
Un peso pressante le si posizionò sul petto quando si accorse della paura del fratello.
Forse era colpa sua.
Le sue paure lo avevano reso più ansioso.
Devo fare qualcosa, pensò.

Liza, sorpresa, si sporse per vedere la scena, «Oui, sì, sta avendo un attacco di panico» e poi si avviò, svelta, verso l'entrata della stanza, «Xavier, portami un sacchetto.»

Lui si diresse verso la caffetteria, mentre Mulder e Zelda stavano a osservare senza avere il coraggio di dire nulla.
Videro Liza avvicinarsi ad Allen e dirgli qualcosa di troppo sussurrato per essere sentito anche da loro.
Allen alzò il capo.
Il suo volto segnato dalle prime rughe e rigato di lacrime era uno spettacolo tra il patetico e compassionevole.

«Ma la mia carriera è rovinata.» Lo sentirono dire, a voce alta, seguito poi da un sussurro di Liza che lo fece ammutolire di nuovo.

Xavier tornò, correndo, con un sacchetto e un bicchier d'acqua in mano.

«Non serve più, Xavier, ma grazie comunque» rispose Liza, sorridendogli.

Il ragazzo si voltò a osservare Allen e vide che in quel momento stava solo versando qualche lacrima e nulla di più.
Si era ricomposto, almeno un po', ed era molto più gestibile di prima.

«Liza» disse sottovoce Xavier, «ma che cosa gli hai detto?» Aggiunse meravigliato.

«Dopo un po' di tempo gli attacchi di panico sono facili da trattare. Il suo non era nemmeno così grave.» Minimizzò lei, sorridente.

Xavier rimase qualche secondo in mezzo alla stanza, in piedi, incerto sul da farsi.
Poi prese una sedia e si sedette vicino all'altra, in silenzio.
Attese  qualche attimo, mentre porgeva il bicchiere ad Allen e aspettava che smettesse di piangere, prima di iniziare con le domande.

«Bene» disse dopo un po', «non siamo proprio partiti col piede giusto, ma vorrei farle qualche domanda.»

Allen sbuffò angosciato, minacciando di poter avere un secondo crollo.

«Oh, no, no non si preoccupi.»  Si agitò Xavier, preoccupatissimo.

Liza, guardando il detective in quelle condizioni, si trovò davanti ad una verità assoluta che le fece comprendere ancora meglio la personalità di Xavier.
Era composto, severo, a tratti impassibile, come d'altra parte lo era Zelda, ma era quello che amava mostrare di sé ed era l'impressione che voleva trasmettere a chi gli stava intorno. Voleva essere una figura enigmatica e imperscrutabile e Liza dovette ammettere a se stessa che ci riusciva anche molto bene.
Ma per sua sfortuna lei lo aveva visto veramente e tutti gli aggettivi che si era impegnato poiché gli venissero attribuiti in quel momento non gli si addicevano affatto.

«Signor Allen, sono solo domande. Domande non significa colpevolezza, d'accord?» Liza lo guardò dritto negli occhi per qualche secondo, poi spostò lo sguardo sui documenti sul tavolo, scrutandoli con gli occhi d'ambra.

«Lei ha alloggiato al Fluo Flamingo, la notte del due gennaio, giusto?» chiese Xavier.

Allen annuì, tirando su col naso, «sì, ci sono stato. Ero di ritorno da un viaggio di lavoro a Toronto, per degli affari esteri. Ero partito la mattina dopo, subito dopo la notte di capodanno. Faceva molto freddo, ero stanco di guidare ed era tardi. Ho deciso di prendere una camera e il proprietario, un uomo...» si fermò qualche attimo, «poco piacevole, mi ha dato una stanza al primo piano. Diceva che d'inverno si fermava pochissima gente in hotel e che quindi teneva pronte solo le camere di un piano.»

Liza lo fermò con un cenno della mano, «perfetto, grazie, signor Allen. E per quanto riguarda la notte del trenta dicembre? Dov'era approssimativamente dalle nove alle undici di sera?» Si sistemò a sedere sulla sedia di scomodo metallo, riuscendo comunque a mantenere una postura composta.

«Quella sera... ah, giusto. Ero in casa con mia moglie. Le avevo promesso che mi sarei provato lo smoking per il Capodanno.»

Xavier lo osservò. Stava per porgli una domanda che temeva lo avrebbe fatto terrorizzare ancora di più, viste le sue attuali condizioni. Inspirò, poi chiese, pacato:
«Immagino che nessuno possa confermare la sua versione, signor Allen.»

Sul volto anonimo di Francis calò un'ombra cupa di angoscia.
«Credo di no.» Ammise, mentre la voce tornava a tremargli. Poi si illuminò di scatto, per qualche secondo, di una luce colma di speranza, «però... però forse i Ryan, i nostri vicini, potrebbero confermarvelo.»

«Va bene, andremo a far loro delle domande» dichiarò Liza, sorridendo appena, poi domandò, rivolta ad Allen:
«Lei è un imprenditore, giusto?»

«Oh, no! Marketing manager.» La corresse, puntiglioso.
«Sono due cose diverse.»

Liza stirò la bocca in un sorriso più dolce e sicuro di quello di prima, «ne sono certa. Mi scusi.»

«Lavori a parte, non siamo qui per discutere i titoli del signor Allen, spero» esclamò con una punta di sarcasmo Xavier, osservando Francis con uno strano sguardo.

«Concordo. Tornando alle domande, la notte in cui ha alloggiato al Fluo Flamingo ha sentito qualche rumore sospetto?» domandò Liza, mentre osservava le sue unghie smaltate con disinteresse.

«No. Niente di sospetto.» Appena Allen finì la frase si aprì la porta.
Entrarono Mulder e Zelda, lui lentamente, come fosse una fiera che gira intorno alla sua preda, lei con una tazza colma di caffè tra le mani e lo sguardo assente.

Francis mugugnò qualcosa angosciato, poi esclamò: «Ma in quanti mi volete interrogare? A Toronto non fanno così!»

«A Detroit sì» ribatté Zelda, scoccandogli un'occhiata tagliente. O almeno ci provò.
Il suo sguardo non pungeva più con l'intensità di prima già da tempo, ma quel giorno, a guardarla, sembrava che qualcuno le avesse tenuto le palpebre aperte per tutta la notte.

Zelda fece per prendere una sedia e disse: «tieni un attimo» passando a Xavier la tazza.

«Zelda» sussurrò lui, tentando che la loro rimanesse una conversazione privata, nei limiti del possibile, «hai riempito una tazza da tè di caffè, stai scherzando?» la squadrò con severità.
Sapeva che qualcosa non andava e già si odiava per non riuscire a cambiare la situazione, ma quella tazza gli aveva fatto male.
Si sentiva umiliato davanti a tutto quel tormento muto e discreto che Zelda aveva fatto suo.

«Ne vuoi?» Zelda gli avvicinò il caffè e osservò il volto di Xavier scomparire dietro al vapore, «puoi bere dall'altra parte.» Aggiunse, indicando il bordo della tazza con delicatezza.

Xavier la guardò. Era spaventato.
Non capiva se fosse sarcastica oppure se fosse veramente così distrutta da essere diventata pericolosamente apatica.
Qualsiasi fosse la verità, lui la temeva.

Ieri cercava di riconciliarsi, adesso questo, pensò Xavier, dove sto sbagliando? Si chiese, rimproverandosi di averle fatto pesare la sua affermazione del giorno prima per tutta la serata al Lullaby. Non dovevo, non in un momento come questo.

«Zelda» la chiamò, credendo di avere qualcosa da dirle. Qualcosa di confortante.
Qualcosa che forse l'avrebbe fatta stare addirittura meglio.
Ma quando si accorse di non riuscire a dire nulla si odiò.
Un odio viscerale.
Le passò la tazza, riluttante, e lei si voltò, osservandola con gli occhi verdi e stanchi.
Xavier si alzò di scatto, sistemando la giacca con eleganza.
Non avrebbe sopportato di stare ancora un secondo in quella stanza.
Si diresse verso l'uscita, in silenzio, e svanì dietro la porta in pochi, interminabili secondi.
Zelda mantenne lo sguardo dritto su Allen.
Se solo si fosse voltata, era certa che sarebbe scoppiata a piangere.

«Va bene, signor Allen. Vorrei farle qualche domanda anche io. E no, non mi guardi così. Non sarò il lupo cattivo se risponderà con la verità» esclamò Mulder, dopo qualche attimo di surreale silenzio.
Avrebbe voluto non ascoltare la discussione dei gemelli, ma lo aveva fatto e adesso stava cercando di fare la cosa che gli riusciva meglio: sdrammatizzare.
Anche se era il primo a pensare che non avrebbe funzionato.

Allen rise. Una risata nervosissima, «Oh, ok... va, va bene, credo.»

«Deve andarle bene per forza, Francis.» Mulder avvicinò la sua sedia al tavolo, trascinandola con uno stridio.

Zelda chiuse gli occhi in un'espressione infastidita, lasciandosi sfuggire un sibilo di dolore.

«Va tutto bene, ma belle?» chiese Liza, accigliata.

«Sì» Zelda si sforzò di sorridere, «ho solo un po' di mal di testa e mi danno fastidio i rumori forti. Tutto qui.» Perchè deve interessarsi a me in questo modo? E cosa le costa chiamarmi per nome?

L'altra annuì poco convinta e di tanto in tanto continuò a scoccarle delle occhiate con la coda dell'occhio.

«Il giorno del suo alloggio era da solo con un altro ospite, Andrew Wilson. Si ricorda qualche suo particolare atteggiamento? Qualcosa di diverso, strano, nei suoi modi?» Mulder si tirò su le maniche della camicia perlata.

«Il signor Wilson? L'ho incontrato a cena, abbiamo assentito sul fatto che il cibo fosse raffermo e ci siamo scambiati quattro parole. Ma non mi è sembrato strano, no. Solo decisamente arrogante.»

Oscar annuì.

«Per che ora si è ritirato nella sua stanza, il signor Wilson?» chiese Zelda, poi bevve un lungo sorso di caffè.
Era talmente bollente che lo sentì incendiarle il petto, ma quella sensazione la rassicurava. Voleva dire che era ancora sveglia, forse, che era ancora nel mondo reale e che poteva provare qualcosa diverso dall'irremovibile senso di sonno che l'avvolgeva come un tetro velo.

«Dopo di me, se non ricordo male. Ma di poco. Ero nella mia stanza, mi stavo cambiando e ho sentito che entrava in camera.»

Zelda sembrava ascoltarlo, in silenzio.
Stava mettendo tutta se stessa per mantenere l'attenzione su ciò che Allen stava dicendo. Cercava di immagazzinare le informazioni utili, ma rimase atterrita quando si accorse che non ci riusciva.
Riesco a malapena a tenere gli occhi aperti, le disse la parte di lei più realista, come posso pretendere di essere attenta a ciò che dice?
Eppure non voleva accettare che la semplice mancanza di qualche ora di sonno potesse compromettere il suo lavoro, la sua vita, e renderla così fastidiosamente vulnerabile.

«Va bene, signor Allen. Può bastare, per ora.» Intervenne Mulder, rompendo il silenzio, alzandosi e abbottonandosi  il completo.

«Per... per ora?» balbettò incerto Francis, rimanendo seduto, incollato alla sedia.

«Per ora, sì.» Anche Liza si alzò, prese dal tavolo la borsa scura e si incamminò verso l'uscita, insieme agli altri, lasciando Allen solo con le sue innumerevoli preoccupazioni.

Zelda era seduta sul tavolo di metallo, mentre si toglieva i guanti di pizzo sottile per mettere quelli di pelle.
Nella penombra il suo volto era oscurato e sembrava quasi fatto apposta.
Da tutto il giorno Zelda sperava di diventare invisibile e finalmente, grazie a qualche led fulminato, poteva nascondersi silenziosamente e senza dare nell'occhio, lasciando che l'unica persona a conoscenza della sua stanchezza evidente fosse solo lei stessa.

«Come procedono gli interrogatori, uccellino

Zelda si voltò, scoprendo il viso, che venne subito illuminato da una luce artificiale accecante.
Prese d'istinto la cloche e la indossò fingendosi disinteressata, celando alla vista una porzione dei suoi lineamenti.

Carter stava davanti alla porta con noncuranza, ciondolandosi avanti e indietro mentre teneva sul braccio il cappotto di feltro.

Uccellino, pensò Zelda.
Bennie sembrava molto orgoglioso di averla chiamata così.
In verità era sempre orgoglioso quando trovava il modo di darle il tormento.

Il detective squadrava i vestiti dell'altra e sembrava esserne quasi affascinato, poi rivolse il suo sguardo scaltro sulla cloche decorata con una piuma chiara.
«Oh, ma che bella piuma» disse, sorridendo mieloso, «my sweet little birdie...» canticchiò poi, avvicinandosi all'investigatrice.

A quel punto Zelda finì di mettersi i guanti, fece qualche passo e alzò gli occhi annoiati ed esausti, «gli interrogatori sono andati benissimo. E tutti hanno compreso quanto la tua presenza non sia necessaria» si fermò per prendere il soprabito, «dimmi, sei riuscito comunque ad ascoltare il grammofono, anche se Francis Allen stava avendo un attacco di panico e ti infastidiva

Carter scoppiò in una risata divertita, tentando di nascondere l'orgoglio ferito, «non proprio. Per ascoltare certi brani ci vuole la calma più assoluta.»

«Hai detto qualche altra cazzata ai giornalisti, per caso? Ad esempio che abbiamo una pista ben precisa che stiamo seguendo, quando siamo solo all'inizio?» domandò Zelda, apparentemente tranquilla.
Voleva solo del silenzio.
Voleva finire quella insensata conversazione il prima possibile e fuggire dalle parole di Carter.

Bennie negò, «avevo intenzione di rilasciare un'altra intervista, magari esclusiva, ti darebbe fastidio, uccellino?» La schernì nuovamente.

«No, per niente. La figura la farai tu, quando scopriranno che li stai prendendo tutti per il culo. E lo scopriranno, prima o poi» dichiarò lei sorridendo con un sorriso simile a quello dell'altro, ripagandolo così della stessa moneta.

Carter la osservò per qualche secondo, con le mani in tasca, vagando per la stanza lentamente.
Aveva una luce vivace e quasi animalesca che gli scorreva dietro allo sguardo di un azzurro isipido.
Tuttavia, quando parlò, il suo tono ammirato non coincise affatto con ciò che i suoi occhi sembravano trasmettere, «così, voltata di lato e con quella splendida cloche, mi ricordi una vecchia foto di Lee Miller

Zelda lo guardò dapprima sorpresa da quella affermazione così fuoriluogo, poi la confusione fece spazio all'ira.
A suo modo, Carter l'aveva zittita e le aveva fatto capire che non stava ascoltando una minima parola di ciò che lei gli stava rimproverando.

«Va bene» Zelda si avviò verso la porta, «non ho tempo per stare dietro alle tue patetiche provocazioni.» Fece per uscire, ma Bennie si posizionò davanti all'uscita.

«Non hai tempo per me? Per il tuo capo? Sei davvero sicura, Zelda?»

Zelda non indietreggiò, rimase immobile a pensare sul da farsi.
«Lasciami passare, perfavore.»
Decise di usare la via più breve.
Non quella indolore e di certo non quella migliore per il suo orgoglio, ma non se la sentiva di continuare a ribattere all'infinito. Non quel giorno.

Bennie scoppiò in una risata sommessa, piena di soddisfazione, «ma cosa ti è preso, all'improvviso? Hai forse finalmente capito qual é il tuo posto, uccellino

«E quale sarebbe il suo posto, monsieur?» Liza si fermò in mezzo al corridoio, davanti a Carter, sfarfallando le lunghe ciglia e sorridendo di una dolcezza stucchevole e appiccicosa, aspettando che Carter vi ci cadesse e vi ci rimanesse intrappolato come nella più complessa delle ragnatele.

Bennie si sistemò la chioma e la giacca, poi sorrise a sua volta, contagiato dal fascino amabile di Liza.
«Oh, niente di importante, signorina Aster. Mi fa piacere rivederla.» Le porse la mano guardandola negli occhi.
Sembrava ipnotizzato.

Una scena patetica, pensò Zelda, e un pensiero molto simile attraversò la mente di Liza, che badò bene a continuare la sua parte.

«Preferirei di no.» Liza rifiutò la stretta con un gesto della mano, continuando a mostrarsi affabile, sotto lo sguardo impietrito di Carter. In tutto il volto del detective straripava una delusione acida e gigantesca, un imbarazzo mortale.

«Ah, e... ehm, potrei saperne il motivo?» chiese, balbettando e allentadosi la cravatta.

«No.» Liza sfoggiò un ultimo sorriso, questa volta con un lato nascosto più sarcastico.

Bennie annuì cercando di mostrarsi comprensivo, poi lasciò il passaggio libero a Zelda e scappò il più velocemente verso il suo ufficio, improvvisamente demotivato a continuare la sua conversazione con Zelda.

«Che perda la chiave, di quell'ufficio» pensò Liza a voce alta, quando Carter scomparse dietro la porta, «facciamo finta che non sia successo niente, d'accordo, Zelda?» disse poi, voltandosi verso l'altra, di nuovo con un'espressione mite sul viso.
Era la prima volta che la chiamava per nome.

«Mi dispiace che tu sia dovuta intervenire. Di solito riesco a tenergli testa da sola.» Sì giustificò lei, mantenendo un tono freddo.

«E perchè dovrebbe dispiacerti? Quelli come lui mi divertono. Basta un soffio per farli volare via» Liza si coprì con grazia la bocca, mentre gli sfuggiva uno sbadiglio, «et voilà, sapevo che sarei crollata prima o poi. Stamattina mi sono svegliata di soprassalto, quando ho saputo di Allen. Tu non hai sonno?» Evidenziò l'ultima frase con uno strano tono, come a sottintendere che sapeva, o almeno aveva capito.

Zelda sorrise, «non molto» poi si avviò verso la porta, cercando di terminare il prima possibile la conversanzione.
Infilò il soprabito e uscì in strada, quando l'altra le disse, alle spalle:
«Credo proprio di sì, invece.»

Zelda si voltò, «prova a prendere un caffé, sono certa che ti sentirai meglio» ribatté, alludendo alla stanchezza di Liza.
Se nel suo tono ci fosse del sarcasmo o meno, non era chiaro.
Salutò la criminologa con un cenno della mano e si avviò nella direzione opposta.

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