Capitolo 20: DIECI MINUTI
Ian mi trascina per tutto il comprensorio alla ricerca di Tom Felton, ma sembra che nessuno lo abbia visto in giro.
"Hai un numero di telefono, qualcosa con il quale possiamo rintracciarlo?" fa cenno al cellulare che ho dentro lo zaino.
"Non ho il suo contatto, non siamo poi così amici..."
Lui passeggia avanti e indietro sul corridoio, è agitato e inquieto. "Sai almeno dove alloggia?"
"Non ha una stanza nel dormitorio, credo che viva da qualche parte fuori dal college" scuoto la testa.
"Merda!"
La sua imprecazione rimbalza sopra al muro antistante gli armadietti e torna indietro. Mi sento un'idiota ad aver fatto il nome di quel ragazzo, una stupida ad averne parlato con Ian, avrei dovuto prima indagare di persona, senza coinvolgerlo.
Il caldo delle due pomeridiane si infiltra nell'edificio, costringendomi a tirare su i capelli in una coda.
"Senti, so che potrebbe sembrarti un'idea stupida, ma conosco un gioielliere in centro, potremo fargli valutare la collana, chiedergli un parere..." propongo.
Ian stringe il ciondolo dentro la sua grande mano. I miei occhi si incollano a quel gesto, tanto dolce e forte allo stesso tempo.
"E' un tipo apposto che fa il suo lavoro da anni, ho comprato da lui alcune cose per conto di Ashley. In fondo non abbiamo niente da perdere..."
Lui storce la bocca in una smorfia, ma poi finisce per assecondarmi. Mi prende la mano con quel suo modo avvolgente e mi conduce verso la fermata dell'autobus.
Per un secondo dimentico tutto, anche il mio stesso nome. Per un attimo il nostro contatto riempie ogni mancanza, ogni dubbio o paura; Ashley, Ian e il loro avvicinamento non esistono più, neanche l'angoscia trasmessami da Tom Felton esiste più.
Solo le nostre mani. Solo quelle.
****
"Questa collana è semplice metallo arrugginito" sentenzia l'orefice. E' un uomo piccolo e tarchiato, con la testa pelata come una palla da bowling. "Potrei acquistarla per massimo dieci dollari" continua a scrutare l'oggetto con una strana lente che tiene adesa all'incavo dell'occhio.
"Non abbiamo intenzione di venderla" Ian non molla un solo istante le mosse del venditore.
L'uomo solleva la testa e inarca le sopracciglia confuso.
"E' un cimelio di famiglia" intervengo per chiarire la situazione, "volevamo solo sapere se possiede un valore"
"Naaa" biascica il tizio, "solo affettivo, niente di più.
Ian si sporge sul banco in vetro e indica il ciondolo. "E l'orologio? Quello ha un valore?"
Il negoziante apre con un click il medaglione. L'oro del quadrante luccica sotto alla calda luce della lampada. Sposto lo sguardo dall'orologio al volto dell'uomo, che lo osserva, lo sbircia e lo spulcia in modo molto attento. Poi posa tutto sul tavolo, spingendolo verso di noi.
"Non è un orologio, non ha ingranaggi e nemmeno pile. E' solo uno stupido ciondolo"
Ian si fa scuro in viso, quasi livido mentre riprende tra le mani la sua collana. "Ha delle lancette che si sono mosse, non può non avere degli ingranaggi" esplode con voce dura.
L'uomo si toglie la lente dall'occhio e squadra Ian dalla testa fino al mezzo busto. "Non è un orologio" ripete, "piuttosto lei è sicuro di non aver abusato della tequila? Scommetto che è stato al messicano qui a fianco che ne fa una ottima ma alquanto devastante!"
Ian stringe entrambe le mascelle, mordendosi la lingua per non controbattere. Sono costretta ad afferrarlo per un braccio e trascinarlo fuori. Per fortuna non oppone resistenza ma, appena sulla soglia della porta, si libera facilmente della mia presa. Con un movimento veloce passa la collana sulla testa, lasciando che gli ciondoli sulla maglietta bianca. I suoi pettorali sono così tonici e definiti che non è difficile immaginarli appena sotto alla stoffa.
"Che persona odiosa" ringhia, stringendo tra le mani il medaglione.
Un vago senso di colpa mi affligge, è stata mia l'idea di venire in gioielleria. Non immaginavo che il negoziante potesse essere così insensibile, ma in fondo lui non sa niente di tutto quello che è successo a Ian. Per quell'uomo si tratta solo di una inutile collana, niente di più. Dieci dollari. Un giocattolo.
"Che facciamo adesso?" Ian mi rivolge i suoi occhi chiari, chiedendo con sarcasmo: "Hai qualche altra brillante idea?"
Il mio stomaco si stringe come una spugna, mentre scuoto la testa con aria dispiaciuta.
Un senso di calore mi fa pizzicare la gola e il torace, come un liquido caldo che risale dai visceri. Capisco Ian, comprendo la sua situazione, ma io sto facendo di tutto per aiutarlo e prendersela con me o con chiunque gli capiti a tiro non è certo la soluzione migliore.
"Credo che per prima cosa dovresti calmarti" mi risento, indietreggiando di un passo.
Ian mi fulmina con lo sguardo. I suoi occhi sembrano emettere due grandi scintille di fuoco. "Calmarmi?" avanza, facendomi arretrare ancora. Finisco con la schiena contro la vetrina e resto bloccata.
"Sono senza un soldo" continua, totalmente fuori di sé, "sono in un paese che non è più il mio paese, costretto a nascondermi tra studenti di medicina che passano il loro tempo davanti allo schermo di telefoni che non hanno fili, ho solo un appiglio per tornare indietro e questo diavolo di appiglio sembra non valere un dollaro! Non ha ingranaggi, ha lancette finte che solo io ho visto muoversi, nessuno ne sa niente, nessun libro parla di questa diavoleria, credo proprio che abbia il diritto di arrabbiarmi!"
Socchiudo le labbra, senza però pronunciare alcuna parola.
"So io cosa devo fare, cercare quel tuo amico, quel biondino color latte. Ecco cosa devo fare, lui mi saprà aiutare sul serio!" si volta, intenzionato ad andarsene.
"No, Tom Felton no!" afferro Ian per un polso. Una sorta di scarica elettrica mi attraversa il corpo, dal suo braccio fino alla mia pelle. Resto immobile, con le dita avviluppate e strette, in attesa della sua mossa.
"Ho attraversato settantadue anni in meno di un secondo, non ho paura di un adolescente con i brufoli" schizza lui, sfilando bruscamente il braccio.
"C'è qualcosa di strano in quel ragazzo, qualcosa che non mi convince. Non sembrava intenzionato ad aiutarci, lui..."
"Lui sa cose che noi non conosciamo, mi sembra l'unico in questa città ad essere veramente di aiuto, quindi ci devo parlare.
Se non mi porterai tu da lui lo farò da solo, ho combattuto una guerra, posso affrontare un ragazzino!"
Con il cuore pieno di tristezza guardo Ian scivolare via. Una donna, dentro ad un tubino giallo canarino, si avvicina con passo sinuoso alla gioielleria. Lascio che mi passi davanti, sospirando. Ian non si guarda indietro mentre si allontana, solo quando la porta del negozio si apre e la voce del negoziante esclama: "Signorina Melinda Clarke, che gran piacere vederla!", lui si blocca. Le sue gambe si arrestano dove sono e il suo busto si gira di scatto.
"Venga, si accomodi, l'anello che aspettava è arrivato proprio questa mattina"
La donna entra con disinvoltura nel negozio. I suoi fianchi ondeggiano visibilmente mentre si sposta e le pietrine dei suoi sandali brillano come diamanti al sole. La porta si chiude.
Ian torna al mio fianco, sembra aver dimenticato l'arrabbiatura di un attimo prima.
"Melinda Clarke" dice, "quella è Melinda Clarke"
Lo guardo confusa, non capisco dove voglia andare a parare. Non conosco questa donna, non l'ho mai vista prima di adesso.
"E' la proprietaria dell'affitta stanze, la figlia del signor Clarke, l'uomo che ha comprato la mia casa"
"Oh" soffio fuori, ricordando vagamente le parole del portiere dell'hotel. Hotel Clarke. Cavoli! La memoria di Ian è davvero di ferro.
"Forse lei potrebbe aiutarci, forse sa qualcosa sui miei genitori, su mia moglie..."
Guardo attraverso il vetro, la donna, che avrà più o meno una quarantina di anni, si muove aggraziata e sinuosa all'interno del locale, osservando gli oggetti esposti sui mobiletti.
"Cosa hai intenzione di fare?" Non riesco a scollare gli occhi dalla flessuosa figura di Melinda.
"Non so" Ian si gratta la testa, "forse potrei propormi per un lavoro nel suo hotel, poter accedere agli interni del locale sarebbe un gran passo avanti...potrei trovare qualcosa che risalga alla mia famiglia..."
La signora Clarke si siede di fronte al tavolo di vetro dove eravamo prima io e Ian, allunga una mano dalle dita affusolate e permette al negoziante di infilarle un grosso anello tempestato di brillantini.
"Non lo so, non mi sembra una grande idea" farfuglio, cercando di placare la sua euforica disperazione.
"Io, io credo che sia una grande idea, invece!" Ian incrocia le braccia al petto, creando un possente muro tra di noi.
In silenzio ci allontaniamo dalla vetrina, attendiamo dietro l'angolo che la donna paghi e saluti il commesso. Dentro di me ribolle uno strano senso di disagio, come se qualcosa stesse per precipitare sempre più a fondo. E, quando la donna, con il suo andamento ondeggiante, ci passa vicino, la brutta sensazione esplode in ogni mio viscere.
"Melinda Clarke?" Ian le si avvicina.
Lei solleva gli occhiali da sole sulla testa, i suoi occhi, della fattezza di quelli di un cerbiatto, si soffermano ad ammirare la figura possente e ben fatta del ragazzo che l'ha appena fermata. Mi sembra di sentire il sangue ribollire nelle vene, in ogni singolo capillare.
"Sì?" dice con voce suadente.
"Piacere, Ian Somerhalder" allunga una mano.
Melinda Clarke non esita a fare la conoscenza del bellissimo giovane che ha di fronte. La cosa mi urta notevolmente e sono costretta ad allontanarmi.
"Somerhalder...." La sua voce è acuta e decisamente irritante, "Somerhalder, i vecchi proprietari dello stabile avevano questo nome, parente?"
"Alla lontana" improvvisa Ian, con naturalezza.
Mi siedo su una panchina del parco, il rumore delle auto riduce il suono delle loro voci, fin quasi ad azzerarlo, così mi limito ad osservarli. Ian parla mantenendo le mani nelle tasche dei jeans che gli ho preso al centro commerciale, sembra a suo agio nei suoi nuovi abiti da civile. La donna invece emette risolini e ammiccamenti che posso scorgere anche da questa prospettiva.
Il dialogo dura più o meno dieci minuti, giusto il tempo per desiderare una buona dose di nicotina, scacciare il pensiero, desiderarla di nuovo. Dieci minuti sono pochi se visti nell'arco di una intera giornata, di un anno o di una vita, ma sono infiniti se passati a rodersi il fegato per qualcosa che neanche sai spiegarti cosa sia.
L'effetto che provavo vedendo Ian accanto ad Ashley è lo stesso che provo vedendolo adesso vicino a questa donna tanto perspicace.
Non dovrei provare una sensazione simile, non capisco cosa mi stia succedendo. E' come se non fossi più in grado di controllare i miei sentimenti, come se mi sfuggissero di mano e proseguissero per una strada tutta loro. Il mio autocontrollo sembra vacillare, insieme a tutte le terapie di psicoanalisi fatte questa estate.
Mi sto perdendo. E non è per niente piacevole.
"Ecco fatto!" esclama Ian, tornando da me.
La donna gli fa un cenno con la mano e lui ricambia con un sorriso e con una leggera mossa delle dita. Entrambi restiamo a guardarla oltrepassare la piazza sui suoi sandali gioiello all'ultimo grido, fino a scomparire tra un gruppetto di turisti appena scesi dal pullman.
"A quanto pare ti è tornato il sorriso, ci voleva questa Melinda Clarke" esclamo con sarcasmo.
Ian si rabbuia all'istante. "Non sono affatto felice" dice serio, "sai cosa mi renderebbe davvero felice? Abbracciare mia figlia, stringerla forte contro il mio petto e annusare il suo odore. Non conosco neanche l'odore di mia figlia, come posso anche solo pensare di essere felice?"
Un alito di vento gli scompiglia leggermente i capelli e muove la mia lunga coda.
"Melinda Clarke è solo un piccolo pezzettino del grande puzzle che è questa avventura e non sarò in pace fin quando non avrò composto tutto il quadro"
Abbasso lo sguardo a terra. Un mucchietto di formiche sta creando casa proprio vicino alle mie scarpe da ginnastica.
"Melinda mi ha dato un lavoro" mi comunica, "a quanto pare ha giusto bisogno di un aiuto tra i camerieri. So che questo non risolverà i miei problemi, ma almeno mi permetterà di vivere in questa città e mi permetterà di indagare più a fondo; è solo una goccia nel mare, ma è pur sempre qualcosa e se tu non lo capisci, cara Holland, credo proprio che io sia capitato con la persona sbagliata"
Un groppo mi si ferma in fondo alla gola e gli occhi mi pizzicano in modo assurdo, tuttavia continuo a fissare il suolo.
"Io voglio aiutarti, Ian" stringo forte i denti per evitare di scoppiare in lacrime.
"Vuoi aiutarmi?" gesticola, innervosendosi maggiormente.
"Sì, voglio aiutarmi a tornare a casa" affondo le unghie dentro i palmi delle mani, per tentare di calmarmi.
"E come intendi riportarmi a casa? Evitando chi conosce qualcosa di tutta questa storia? Tom Felton, per esempio! Oppure facendo la bambina di fronte alla mia prima vera possibilità in questa città? Melinda Clarke mi ha appena concesso una chance, dovresti essere d'appoggio, non ostacolare le ricerche!"
Non riesco a replicare niente. Mi sento a pezzi e non so neanche il perché. Dovrei aver imparato a conoscere il dolore, dopo la morte di mia madre non c'è stato altro nella mia vita, ma questo non è solo dolore, è rabbia, paura, è vera e propriaangoscia e, per giunta, inspiegabile.
Ian scuote la testa, calmandosi apparentemente. "Mi dispiace averti coinvolto in tutta questa vicenda. Scusa se ti ho chiesto aiuto, non ho scelto io di piombare sul tuo letto, non ho scelto io di essere risucchiato da un medaglione stregato, ma non preoccuparti, da adesso in poi vedrò di cavarmela da solo, dammi giusto il tempo di trovarmi un'altra sistemazione e me ne andrò anche dalla tua stanza"
Non riesco a parlare, non riesco a dire che voglio solo tenerlo lontano dai guai perché sento che Tom o Melissa lo sono,e qualsiasi cosa voglia esprimere mi muore in gola.
Mi limito ad emettere uno strano grugnito strozzato. Ian si allontana a grandi passi, lasciandomi seduta su una delle panchine bianche del piccolo parco.
Io e tutto il mio disagio.
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