Capitolo 13: TRA PASSATO E FUTURO

Convinco Ian a prenderci una pausa. Sediamo al tavolino di un locale all'aperto, davanti a due grandi frullati di frutta fresca.

"Mi sembra di essere precipitato dentro a un film di fantascienza, di quelli che spaziano tra passato e futuro..."Ian incrocia le braccia davanti al petto e appoggia la schiena alla spalliera del divanetto.

"Credo che la cosa migliore sia tenere tutto questo per noi, dirlo in giro creerebbe solo scompiglio..." sostengo.

"Scompiglio? Mi chiuderebbero in un manicomio con la camicia di forza!"

"Non esistono più i manicomi" lo informo, "ma è molto probabile che ti ricovererebbero in un ospedale psichiatrico"

Ian beve un sorso del suo mix vitaminico e sembra piacergli.

"Perché non mi racconti un po' della tua vita?" indago, seria.

Ian solleva gli occhi sui miei.
Il suo contatto visivo mi fa stringere lo stomaco immediatamente. Non riesco a non pensare a quanto il suo sguardo sia attraente e, forse, non solo quello.

"Non c'è molto da sapere" fa spallucce, "vivo con mia madre Edna e mio padre Robert. Sai, papà è un bravissimo fotografo. Ha fatto scatti a Ava Gardner e anche a Veronica Lake. E' uno forte insomma! Ed io fin da bambino ho sempre cercato di imparare qualcosa da lui, la fotografia è roba seria, dalla luce alla camera oscura..."

Mi sistemo meglio sulla sedia, curiosa e affascinata dalle sue parole.  

"Mia madre invece pensa a mandare avanti la casa, ha sofferto molto per la mia partenza e anche per quella di mio fratello, lui è in marina. E' stata così felice quando sono tornato in congedo, non voleva lasciarmi ripartire..."

"E tua moglie, dove l'hai conosciuta?" La mia voce trema leggermente mentre si sbilancia in questa domanda.

Ian sorride e i suoi occhi si illuminano; "Nikki la conosco da sempre! Siamo cresciuti insieme, ne abbiamo davvero passate tante. Ho deciso di chiedere la sua mano precisamente l'8 dicembre del 1941, il giorno stesso in cui Roosevelt ha dichiarato lo stato di guerra degli Stati Uniti. Dopo Pearl Harbor sapevo che sarebbero cambiate molte cose, molti giovani lo sapevano. Prima di essere chiamato per l'arruolamento ho voluto mettere in chiaro la mia situazione con Nikki e me la sono sposata. Non sarei mai partito senza averlo fatto..."

"E' molto romantico" ammetto. "E tua figlia? Cosa sai di lei?"

Ian si rabbuia. Il suo sguardo improvvisamente si fa velato. Forse non avrei dovuto nominare la bambina.

"Non so niente di lei. Ho ricevuto solo un paio di lettere da mia moglie. Ho saputo la notizia quando Nikki era già di sette mesi, il Natale scorso, e a febbraio mi ha scritto che è nata una bellissima bambina. In questi mesi ho viaggiato così tanto con la fantasia! Me la sono sognata e immaginata. Se penso che stavo finalmente per prenderla tra le braccia, io..." Le parole gli muoiono in gola, strozzate da un singhiozzo. Tira indietro la poltroncina e si alza. Si allontana di qualche passo per raggiungere il parapetto. Le sue mani stringono il metallo della grata e la sua attenzione è rivolta a un punto indecifrabile della piazzetta sottostante.

Indecisa sul da farsi, lascio i soldi sul tavolo e lo raggiungo.

"Scusami, sono una pessima compagnia" resta di spalle con gli occhi bassi.

"Sei solo sconvolto per quello che ti è successo" lo correggo, "e lo sono anche io"

Ian si volta. Siamo l'uno di fronte all'altra, così vicini da poter sentire i nostri profumi intrecciarsi tra loro. Il mio cuore inizia a battere forte dentro al petto e il mio respiro si accorcia inevitabilmente.

"Se non ci fossi tu non saprei proprio come fare" mi fissa dritta negli occhi.

Il suo sguardo, il suo odore, la sua presenza mi destabilizzano totalmente. Prima di adesso, non mi sono mai sentita così scombussolata accanto ad un uomo. C'è qualcosa in questo ragazzo che mi fa perdere la concentrazione, mi fa dimenticare il dolore che mi circonda, mi fa provare una sensazione nuova, mai sentita prima. La mano di Ian si solleva a stringere l'orologio che gli pende dal collo. Sposto lo sguardo sulla catenina e poi sulle sue dita.
Un brivido mi attraversa la schiena fino alla nuca.

"Torniamo al college, vuoi?" mi chiede. "Per oggi credo che le ricerche siano sufficienti"

Pian piano procediamo verso la fermata del pullman. Camminiamo accanto e ogni tanto le nostre mani si sfiorano involontariamente. Quando accade ho come una stretta allo stomaco.

"Perché non mi racconti anche qualcosa di te?" chiede Ian, quando siamo ormai giunti alla fermata.

"Non c'è molto da sapere" ripeto le sue parole, improvvisando una specie di sorriso.

Ian stringe gli occhi nei miei, lo fa dolcemente e la cosa mi lascia letteralmente senza fiato. Devo impiegare una notevole dose di energia per parlare di nuovo, fingendo che dentro di me non stia accadendo niente di quello che invece sta succedendo; uno tsunami di emozioni, ecco cosa ho in corpo. Di tutto, dalla paura alla serenità, dal tremore alla pace.

"Sono originaria di New York" cerco di non guardare Ian negli occhi, altrimenti non riesco ad andare avanti. "Del Bronx in particolare. Mio padre lavora in un'azienda di corrieri, è spesso fuori anche per lunghi viaggi. Siamo una famiglia numerosa, ho due fratelli più piccoli e una sorella. Ci vogliamo tutti molto bene."

Non faccio cenno a mia madre, credendo di svicolare l'argomento, ma Ian è accorto e non gli sfugge il particolare.

"E tua madre?"  chiede.

Continuo a evitare il suo sguardo, cercando appiglio sulle locandine appese alla pensilina.

"Mia madre è morta qualche anno fa" gli comunico, "le hanno sparato mentre tornava a casa. Era con mia sorella Taylor. E' stata lei a chiamare i soccorsi, ma quando sono arrivati non c'era più niente da fare"

La fronte di Ian si corruga, formando delle piccolissime pieghe.

"Due malviventi" spiego, "il mio quartiere non è il massimo della sicurezza. Stavano fuggendo dalla polizia, mia madre era solo nel posto sbagliato al momento sbagliato"

Ian si avvicina di un passo. Mi prende le mani e le stringe nelle sue.

"Immagino che tu sia abituato a simili circostanze, avrai visto morire così tante persone in guerra, ma lei era mia madre ed io..."

"Non ci si abitua mai, la morte è dolore, sempre" risponde lui, avvinghiando più forte le sue dita alle mie.

Chiudo gli occhi, catturando nel mio cuore il respiro di Ian e la consistenza dura e cruda delle sue parole.

"Non ho passato giorni facili. Avevo solo quattordici anni e dopo la sua morte mi sono...diciamo...persa"

Ian continua a stringere le mie mani.
Il calore della sua pelle mi sorprende e mi fa continuare a raccontare. Mi sembra quasi un miracolo che possa parlare a qualcuno di mia madre e del periodo che ho passato dopo la sua morte. Non sono riuscita a farlo mai con nessuno, né Ashley e neanche Hunter.

"Ho iniziato a bere e anche a rubare. Ero la più grande e mi sentivo tutta la responsabilità addosso. Non sapevo come fare e mia mamma mi mancava terribilmente..." sospiro, "mi sento così in colpa! Ho fatto preoccupare talmente tanto mio padre, che due anni fa è stato colpito da un infarto. In quel momento ho avuto così paura di perdere anche lui che è servito a farmi cambiare vita. Dal giorno che è tornato a casa dopo il ricovero in ospedale ho smesso di bere, di comportarmi come una ladruncola qualsiasi e di dargli pensieri. Mi sono iscritta al college, mi sono fidanzata con un giocatore di basket e cerco di rigare dritto, cerco di essere semplicemente una figlia normale..."

"Sicuramente tuo padre ne sarà felice, ma a te, a te piace la vita che stai facendo adesso?"

La domanda di Ian mi lascia a bocca aperta. Riporto la mia attenzione sui suoi occhi, commettendo l'errore più grosso che potessi fare. Il mio cuore inaspettatamente riprende a battere violentemente.

"Non mi piace questa vita" confesso, "ma non ne vedo una migliore. Qui, in Florida, non sono la ragazzina perduta del Bronx, quella senza madre, che vive in uno squallido appartamento di provincia; qui sono una cheerleader, la studentessa che tutti vorrebbero essere. Nessuno conosce il mio passato, neanche Ashley né tanto meno Phoebe. Se una di loro venisse a sapere che ho una borsa di studio e provengo da un quartiere dove viaggiare con in tasca una pistola per difendersi è la base per la propria sopravvivenza, sarebbe capace di escludermi per sempre, di farmi vivere l'inferno. Ed io ho solo bisogno di terminare il college in pace."

Ian sospira. Vorrei essere uno dei suoi neuroni, per capire cosa gli frulla dentro la testa dopo questa mia cruda confessione.

"Non so perché ti ho raccontato tutto questo. Forse perché i tuoi guai sono più grandi dei miei, è come se tu mi capissi...ma...per favore non parlare con nessuno della mia famiglia..."

Ian annuisce e libera le mie mani, proprio nel momento in cui il pullman si ferma davanti a noi.

"Prego, signorina..." Lascia che sia io la prima a salire.

Ci sediamo l'una accanto all'altro. Poso la testa sul finestrino e guardo il mondo fuori; i palazzi, le palme sul ciglio delle strade perfettamente curate. L'autista chiude le porte e fa partire il mezzo, reimmettendosi in carreggiata.

Il mio telefonino vibra dentro la borsa. Lo prendo, è un messaggio di Ashley:

Holly, come sta andando il giro turistico con il ragazzo dagli occhi magnetici? Hai messo una buona parola su di me?
Ps: Le scuse a Phoebe. Non dimenticarle!
A.

"Cos'è quello?"

La voce di Ian mi distoglie dalla lettura del sms.

"Un cellulare" lo rigiro tra le mani, tornando alla schermata principale.

Ian scuote la testa, senza capire.

"Un telefono" spiego con più precisione.

Ian sembra sempre più perplesso, "vuoi dire...un telefono senza fili?"

"Esatto" affermo, "è un telefono che puoi portare in borsa, nelle tasche dei pantaloni o dove vuoi"

Ian sbatte le palpebre sbalordito e resta in silenzio a fissare l'oggetto quasi si trattasse del più strano marchingegno mai esistito.

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