SESTO CAPITOLO
Mi svegliai di soprassalto, la testa che girava e pulsava forte. I miei capelli erano bagnati e pesanti, sapevano di muschio e salsedine. Appena aprii gli occhi non vidi altro che nero, poi, sbattendo ripetutamente le palpebre, misi a fuoco un panorama spettacolare. Il cielo era di una tenue tonalità di giallo-rosato, le poche nuvole tinte di violetto. Mi trovavo in una radura, nei pressi della foce di un fiume. Di fronte a me la più imperiosa e immensa cascata che io avessi mai visto: i suoi colori caldi si riflettevano sullo specchio d'acqua del mare, con giochi di colore, sfumature tra il giallo, il dorato, l'ocra e il rosa tenue.
La parete di roccia al suo interno era ricoperta di un meraviglioso verde del muschio, segno che dovevo essere molto lontana da casa, nella parte nord del settore.
Guardai le mie condizioni. La parte superiore del mio copro era completamente nuda, i seni coperti dai capelli bagnati.
Ero stata riposta su uno scoglio bagnato e umido, ricoperto di muschio, avevo il braccio sinistro che bruciava, come se si stesse lacerando la carne. La vista era spaventosa: il mio avambraccio era gonfio, ricoperto di uno strano pus giallognolo, e il sale dell'acqua faceva bruciare la ferita. Una ferita a forma di morso. Un morso vero e proprio, ma delle dimensioni due volte più grande di un morso di umano. Una cosa era certa: mi aveva morsa un animale.
Una striscia violacea usciva da un'incisione più profonda del morso, un rivolo rossastro e bluetto. Sotto l'avambraccio, un'intera pozza blu, come sangue, secca al sole, sporcava il mio polso.
Avvicinai la mano destra alla ferita, e l'occhio mi cadde sulle dita: erano leggermente più lunghe del normale, legate insieme da un velo leggero di pelle, una impercettibile sfumatura verdastra.
Il cuore cominciò a battermi forte, una cosa era una ferita, l'altra una malformazione della mia mano. Mi portai la mano davanti alla faccia e osservai con cura: niente di cui preoccuparsi, una veloce operazione chirurgica a laser l'avrebbe sistemata.
Decisi che era proprio arrivato il momento di andare, così posai il braccio sano a terra, e tentai di alzarmi, ma non ci riuscii.
Un urlo mi morì in gola mentre osservavo quelle che una volta erano le mie gambe. Cominciai a respirare forte con la bocca, facendo grandi boccate, e mi mordevo la lingua per non imprecare o urlare.
Uno spesso strato di squame violacee partiva dal mio basso ventre, e si estendeva su una massa quasi gelatinosa di una coda di pesce, lunga due volte il mio busto. Una coda vera che andava rimpicciolendosi, mentre sui lati sbucavano pinne dello stesso colore, sottili, quasi trasparenti. La fine della coda era bagnata dalle onde dell'acqua, e rendeva una piacevole sensazione di relax.
Ma com'era potuto succedere? Che cosa ero diventata?
Guardai l'acqua percependo un movimento, e nella foce cominciarono a sbucare teste di ragazze: la pelle che brillava al sole dell'alba, bagnata, gli occhi leggermente arrossati, con lunghe ciglia, una bocca violetta, una caratteristica diversa per ciascuna.
Sbucarono dall'acqua ragazze bionde, more, rosse, ragazze con la pelle bruna, ragazze con gli occhi gialli, verdi, viola, ragazze con le orecchie a sventola, a punta.
Eppure, tutte si tenevano a distanza.
Poi, davanti a tutte, sbucò un'ultima testa.
Fuoriuscì dall'acqua prima una tiara di corallo rosso, con incastonate alghe e perle. Poi si intravidero i capelli: neri ebano, lisci, molto lunghi.
Sbucarono gli occhi, di un rosa acceso, con ciglia ornate di perle d'acqua.
Zigomi alti e arrossati.
Bocca rosata sottile.
E tutte le altre ragazze abbassarono la testa in segno di rispetto, sfiorando la superficie dell'acqua col mento.
La donna davanti mosse una mano, e le ragazze tornarono a guardarmi.
- Chi siete? Che cosa volete da me? - Chiesi, con la voce, forte, eppure tremolante.
- Sta' tranquilla, non ti succederà nulla se collaborerai.
Parlò la donna davanti a tutte con la tiara. La sua voce era calda e rassicurante, con un tono forte e sicuro di chi impone e si aspetta che le si obbedisca.
Se collaborerai.
Ma io non avevo voglia di collaborare. Chi erano tutte loro? Loro mi avevano fatto questo?
- Siete state voi a farmi questo?
- Sì, lo abbiamo fatto per salvarti - rispose con calma.
- Cosa volete da me?
- Vogliamo che collabori, che collabori per mantenere un segreto che non è più solo nostro, che ti unisca a noi.
- Un.. che cosa? Cosa, che... non capisco niente.
- Capirai a tempo debito.
- No! Io voglio capire adesso! Perchè sono qui, cosa sono diventata?
- Tu ora sei una Sirena. E dovrai mantenere il segreto, se vuoi sopravvivere.
- Che cosa... io...
- Benvenuta nel branco, Sara.
E le altre Sirene alzarono la testa verso il cielo e urlarono acutamente.
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Ero seduto sul letto, le mani in grembo, gli occhi brucianti, a guardare il pavimento.
Un peso al cuore permanente mi ricordò ancora una volta dell'avvenimento: Sara sulla barca un'attimo prima, Sara un'attimo dopo, sparita.
Sara, un'attimo dopo, morta.
E gli urli strazianti di Josh tutte le notti, in salotto.
Dopo la sua scomparsa, non ero sicuro di lasciare Josh da solo, temendo in un tentato suicidio, così lo ospitavo a casa mia giorno e notte.
Avevo spiegato a Claude, via telegramma informatico, ciò che era accaduto, e che non avremmo ripreso le lezioni non prima di un meritato riposo, che sembrava non venire mai. Ogni notte, Josh urlava, piangeva. E se non era lui, ero io.
Mio padre mi aveva mandato un telegramma un paio di ore prima, dicendo che si sarebbero spinti un po' più in là dell'obiettivo.
Ma quanto ero stato stupido? Davvero credevo di riuscire a uccidere una Sirena? E soprattutto, mostrargliela?
Più ci pensavo, più credevo di essere stato un'egocentrico viziato.
Mano a mano che passavano i giorni, scoprivo che la mia rabbia nei confronti di mio padre a mano a mano svaniva, lasciando il posto alla rabbia nei confrotni di quel traditore feccia di Deghan.
Quella notte era stata terribile. Non solo avevamo perso Sara. La mia Isabella era distrutta, le reti perse, senza contare il terrore, l'eccitazione, la paura di essere trascinato in mare... e quel sangue blu che scorreva veloce sul ponte...
Mi alzai, con uno scatto veloce, evitando accuratamente il volto di Sara che mi salvava la vita, e mi diressi al piano di sotto, in cucina.
Josh guardava a vuoto lo schermo spento della tv. Il suo volto era la rappresentazione del dolore vivente, la barba lasciata crescere era vivida e malcurata, gòi occhi molto gonfi, due enormi borse sotto gli occhi viola scuro, pallido, senza voce. Sembrava un cadavere.
Gli preparai un caffé e glielo porsi, lo bevve molto piano, senza staccare gli occhi da dove guardava, rovesciandosene un po' sulla maglietta sudata.
Eravamo entrambi in pessime condizioni.
Il nostro circolo vizioso si svolgeva con pochi componenti: letto cucina, cucina divano, divano bagno.
Non ci osavamo guardare fuori dalla finestra, scorgere il mare, che adesso odiavamo più d'ogni altra cosa.
Erano passati tre giorni. Eppure stavamo peggio di prima.
- Josh - lo chiamai.
Con un movimento impercettibile della testa, capii che mi stava acoltando.
- Oggi c'è il funerale... - Dissi cercando di non far trasparire preoccupazione dalla voce.
I genitori di Sara avrebbero organizzato un funerale, sotterrando una bara vuota del suo corpo, nella cripta di famiglia. Ma Josh credeva che lei fosse ancora viva, quindi pensava fosse un grave errore pensarla così. Quando cercavo di parlarne, lui mi rispondeva sempre che reagiva come se l'avesse lasciato.
Quindi, per lui, il funerale era una stupidaggine.
- Dovremmo andarci, sai... si chiederanno perché non ci presentiamo - dissi tintinnante.
- Francamente, me ne infischio - disse lui, sottovoce.
- Secondo me dovremmo andare, invece - dissi, un po' più deciso.
- Tu davvero credi che lei sia... sia... - disse, sempre senza voce.
- No che non ci credo - risposi subito - ma sembrerà che non ci teniamo a lei, non presentandoci.
Lo vidi riflettere, senza staccare gli occhi dallo schermo buio.
- Vacci tu, di' che sto male. Io non voglio.
Espirai rumorosamente, e bevvi il mio caffé.
Un'ora dopo eravamo in viaggio, sul volatreno, verso il cimitero.
Ero riuscito a convincere Josh per un pelo, e appena fuori di casa aveva cominciato a lamentarsi di voler tornare indietro.
Scendemmo alla nostra fermata, dirigendoci verso l'entrata.
Il cimitero si apriva con un enorme cancellata di ferro nero battuto, alto quasi tre metri, circondati di muri altrettanto alti dipindi di un delicato color rosa salmone.
Era in pratica una città silenziosa, molto grande, circondata da mura.
In gran parte inquietante, nascondeva un'aura di bellezza alla vista di tombe ornate di fiori colorati e sbocciati.
Ci dirigemmo verso la folla di persone in nero, evitando di attirare attenzioni. Josh era tre passi dietro di me, e molte volte mi giravo a controllarlo, per accertarmi che non fosse scappato.
Il signore e la signora Coopers erano i genitori più straziati che avessi mai visto.
Non solo piangevano a dirotto, i loro volti erano immersi nel dolore, gli sguardi persi, la voglia di vivere ancora smarrita.
La loro unica figlia era morta, e la loro luce, il loro obiettivo per ogni giornata era così scomparso: per loro non aveva più senso andare avanti.
Parenti, amici, familiari stretti avevano facce funeree ma nessuno di loro piangeva.
Nessuno a parte Josh.
Era scoppiato appena raggiunto la tomba di Sara, nascosto dietro un faggio a pochi metri dalla tomba.
Io intanto, facevo le mie più addolorate condoglianze.
E mentre tornavo alla mia postazione, a pochi metri da Josh, sentivo un grande peso all'altezza del cuore.
Sara era morta.
Era colpa mia.
Non sarebbe più tornata.
Non avrei dovuto portarla con me.
Ma era davvero morta?
Avrei dovuto lasciar scemare la voglia di navigare, tornando a casa.
Perché farsi false speranze?
Era morta.
A chi avrei chiesto consiglio, per un argomento che non conoscevo?
Con chi mi sarei sfogato sui comportamenti di Josh quando litigavamo?
Con chi sarei andato a comprare la pizza il venerdì sera, mentre Josh aspettava a casa preparando il tavolo da poker?
Non riuscivo a realizzare.
Non potevo credere.
Un vuoto incolmabile si era aperto nel mio cuore, e non sarebbe più stato chiuso.
La mia vita non sarebbe stata più la stessa.
Il mio cuore non era più lo stesso.
Io non sarei stato più lo stesso.
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