XXVIII

Il lunedì successivo, al mio arrivo in classe, tutti i miei compagni si voltarono a guardarmi, manco avessero visto un fantasma, o il preside della scuola – che era una presenza più fumosa di uno spettro.

Fra e Andre furono i primi a venirmi incontro. Andrea sparò una delle sue solite battute e Francesco cercò di andargli dietro, ma ormai era chiaro a tutti e tre che si era rotto qualcosa. Più cercavo di tagliar corto per evitare inutili scenate, più le loro parole diventavano fredde e vuote. Alla fine, al suono della campanella, la tortura ebbe fine e tornarono al loro posto. Il mio, all'epoca, era accanto ad Andre. Ma c'era un altro banco libero in classe, quello vicino a Vera Lazzari, l'unica ragazza della classe che non aveva mai mostrato un minimo interesse sentimentale per me.

Quando le chiesi se potessi sedermi, mi sorrise, spostò i libri e gli appunti che stava sfogliando dal banco vuoto e annuì.

Rimasi in quel posto fino alla fine del liceo. Durante quegli ultimi trentaquattro giorni scambiai più parole con i professori che con Vera, ma mi sentii incredibilmente libero. Libero dai pettegolezzi di Laura ed Eleonora, libero dai commenti dei ragazzi, libero di starmene zitto senza interrompere le lezioni... Fu il mese più difficile e allo stesso tempo più semplice di tutti quelli passati in classe.

Non preoccuparti: non lascerò che sia una banale contraddizione emotiva a concludere la storia. Ho ancora un paio di cose da spiegare, prima fra tutte: quale fu la parte semplice e quale quella difficile.

Forse la difficile l'hai già capita, perciò comincerò da quella semplice.

Al suono della campanella della ricreazione, mi diressi verso la sala insegnanti, dove Maglietti mi aveva dato appuntamento con un messaggio il giorno prima.

Lo trovai accanto alle macchinette del caffè: stava parlando con una donna tutta sorridente con i capelli raccolti e un rossetto fucsia, vestita in jeans e t-shirt. La cosa che mi colpì di più, però, furono le scarpe: erano giallo fluo, da corsa, e a occhio e croce costavano più del mio cellulare.

Quando Maglietti mi vide, non perse altro tempo e ci presentò: «Gioele, lei è Martina. È l'allenatrice della squadra di atletica della città dove si sono svolte le regionali.»

Le strinsi la mano e non mi venne altro da dire se non: «Piacere. Belle scarpe.»

Maglietti alzò gli occhi al cielo, lei invece continuò a sorridere di gusto: «Sono più comode di un paio di ciabatte. Anche quelle che usi tu non sono male.»

Mi guardai istintivamente i piedi, ben consapevole di non avere indosso le mie scarpe da corsa. Il prof mi diede una pacca sulla spalla: «Intende quelle con cui hai vinto la gara. Insegna nella scuola che ci ha ospitato e un paio di suoi allievi hanno corso con te.»

Come sempre, cadevo dal pero. Non l'avevo nemmeno notata durante la gara. C'è da dire che quel giorno non avrei notato nemmeno te o il tuo ben più famoso collega Brad, tanto ero perso con la testa, comunque, per non peggiorare la situazione, decisi di starmene zitto.

«Non credevo che qualcuno avrebbe potuto battere i miei ragazzi così facilmente. Avevano degli ottimi tempi. Ettore mi stava giusto raccontando la tua storia. Sei veloce, Gioele, e molto più resistente della media dei ragazzi della tua categoria.»

«Grazie» mormorai. Ero più stupito dal nome del mio prof che dal resto del discorso, anche perché non capivo dove volesse andare a parare. Evidentemente, il mio exploit di perspicacia di due giorni prima era stato un evento miracoloso.

«Hai mai pensato di entrare in una squadra agonistica?»

La guardai, poi guardai Maglietti.

Era la prima volta che un adulto mi faceva una domanda diversa da quelle che mi ero sempre sentito porre a proposito del mio futuro. Maglietti, per la verità, ci aveva provato durante i primi tre anni di liceo, ma ero ancora troppo stupido per dargli retta o concentrarmi davvero su qualcosa.

Silvia, invece, ci era riuscita. Le sue "domande di Capodanno" avevano cambiato ogni cosa. E ora una terza persona si stava interessando a me e non all'università, alla carriera o alla famiglia che avrei dovuto costruire.

Le dissi che non ci avevo mai pensato, ma che mi sarebbe piaciuto. Ed era, finalmente, la verità, e non una risposta cucita ad hoc per adattarsi alla mia stupida immagine.

«Ottimo. A luglio comincerò la preparazione per le nazionali di corsa campestre e altre specialità. Fino a quando non avrai finito la maturità, continuerai gli allenamenti con Ettore, poi, se vorrai, potrai venire ad allenarti con me.»

Maglietti annuì, facendomi intendere che approvava il piano: «Pensaci e parlane con i tuoi. Domani agli allenamenti mi aspetto una risposta. Hai procrastinato abbastanza, Remelli» disse, ma sorrideva pure lui.

I miei genitori rimasero piuttosto scioccati, all'inizio. Anche se non avevano mai insistito più di tanto sull'argomento futuro, pensavano che sarei andato all'Università di Ingegneria informatica, che era la balla che mi ero inventato per svicolare interrogatori troppo approfonditi e che avevo sempre propinato a tutti, loro compresi.

Il loro scetticismo, a dirla tutta, si intonava alla perfezione con la paura che provavo. Non sapevo se sarei riuscito a vincere le Nazionali. Non sapevo come funzionasse la vita di un atleta. Non sapevo nulla di sponsor, federazioni, allenamenti agonistici, ritiri di squadra, campionati nazionali e internazionali, trasferte, infortuni, fisioterapia, visite mediche, controlli periodici, nutrizionisti, diete bilanciate, interviste, riunioni, richiami... Non sapevo niente, all'epoca, ed ero spaventato tanto quanto i miei. Fortunatamente, però, né mia madre né mio padre erano persone da sottrarsi a una buona sfida, a patto che fosse ragionevole; dopo averne parlato per un po', entrambi arrivarono alla conclusione che quella lo fosse e che in fondo mi vedevano meglio in canottiera e pantaloncini piuttosto che curvo dietro un computer.

Il giorno dopo, come stabilito, mi presentai all'allenamento in anticipo e trovai Maglietti seduto sugli spalti che mangiava un panino. Gli comunicai la mia decisione e subito dopo mi scappò una delle tante domande che avevo posto ai miei, ma alla quale loro non avevano potuto rispondermi.

«Non sono un po' in ritardo, prof?»

«Per cosa?»

«Non lo so, per... diventare qualcuno. Nel mondo dello sport» aggiunsi in fretta.

Maglietti sorrise: «Per le Olimpiadi di quest'estate credo non ci sia molto da sperare. Per quelle che verranno tra quattro anni, chi lo sa. Dipende da te.»

All'improvviso provai un entusiasmo che non avevo mai sentito prima, come se mi fosse esploso un fuoco d'artificio nel petto. Quando mi resi conto che era stata la parola "Olimpiadi" a provocarlo, mi venne in mente una frase, una di quelle frasi fatte ma vere che tutti abbiamo pronunciato o abbiamo sentito pronunciare almeno una volta nella vita parlando di sport: "Il sogno di ogni atleta è andare alle Olimpiadi".

Capii, finalmente, che era anche il mio. Che era sempre stato il mio, ma non me n'ero mai accorto.

Nel giro di pochi secondi, capii anche un'altra cosa. I fuochi d'artificio cessarono.

Siamo arrivati alla parte difficile.


...


Arrivai a casa di Silvia dopo l'allenamento. Parcheggiai dal lato opposto della strada e le scrissi che ero lì e che non me ne sarei andato finché non fosse uscita.

Una ventina di minuti dopo, aprì la portiera. Era ancora più pallida dell'ultima volta che l'avevo vista.

Riavviai il motore e partii senza dire una parola. Non disse nulla finché non raggiunsi il piazzale davanti alla scuola.

«Perché mi hai portata qui?» mormorò. Non sembrava particolarmente sorpresa, né arrabbiata. Non la riconoscevo quasi più. Invece di risponderle, scesi dalla macchina e aspettai che mi seguisse. Raggiunsi il centro della distesa di cemento e mi voltai a guardarla. Era ferma a un paio di metri da me.

«Eravamo qui quando ci siamo baciati la prima volta. Quel giorno mi hai detto che baciarsi era solo un modo per non sentirsi soli. Ricordi?»

«È così» disse.

«No. Non è così. Tu ti senti sola, ma non lo sei. Con o senza baci di mezzo.»

Silvia scosse la testa: «Tu non capisci, Giò, e non potrai mai farlo. Io ho bisogno di stare da sola.»

«Non è vero» dissi. «Non è vero un accidente. Se fosse vero non staresti così male, e non parlo della malattia.»

«Certo che no. Come potresti parlare della malattia? Pensate tutti di saperne più di me, su questa mia piccola amica invisibile, vero?»

Nel giro di un attimo me la ritrovai a un palmo dal naso: «Credi che tu sia il primo? Ho avuto altri due ragazzi dopo aver ricevuto la diagnosi. Anzi, me li sono proprio andata a cercare dopo aver lasciato Daniele, perché volevo...»

S' interruppe e sgranò gli occhi come un reo nell'atto della confessione. Poi, a voce alta, quasi urlando, disse: «... L'amore, va bene?»

Una volta pronunciata, quella parola smise di essere sua. O almeno, questo è ciò che pensai nell'osservare la sua espressione.

Non amo le favole, ma se vuoi un'altra visione dei fatti che accaddero quel giorno, posso dirti che gridò quella parola come se nel pronunciarla si fosse finalmente liberata del pezzetto di mela di Biancaneve.

«Ero arrabbiata con la mia malattia perché sapevo che mi avrebbe cambiato la vita, perciò sì, volevo prendermi qualcosa in cambio, volevo la rivincita, volevo un maledetto compenso per la sfortuna di essere nata con un corpo malandato.»

Aveva il respiro affannato e gli lucidi. Non l'avevo portata lì per litigare, ma le sue parole stavano ricominciando a ferirmi. Mi sentivo come se stessi ricevendo una pugnalata alle spalle dopo l'altra. Non riuscii a trattenermi: «E visto che non aveva funzionato con gli altri, credevi che con me sarebbe stata la volta buona?»

«Non lo credevo!»

Mi diede una spinta e barcollai all'indietro. Avrei potuto scommettere che, se non fosse stata troppo impegnata a digrignare i denti per trattenere le lacrime, mi avrebbe preso a morsi.

«Io non sono mai venuta a cercarti. Sei stato tu a cercare me.»

«Quindi è colpa mia?»

«Sono stata una stupida» disse invece di rispondermi. «Tu non sei un maledetto compenso. Non sei affatto il premio che credevo di meritare.»

Non le lasciai nemmeno il tempo di finire la frase. Ero confuso e spaesato ed esausto: se avessi avuto la pazienza di mia madre o l'indole pacifica di mio padre, non avrei mai detto quello che invece dissi.

«Ah, certo che no. Sono più, diciamo, un giocattolo di consolazione? Uno di quelli che si devono tenere per forza perché non è rimasto altro?»

«No, cazzo. Ti sto lasciando proprio per questo. Perché non voglio arrivare a usarti per consolarmi.»

Era la prima volta che diceva una parolaccia in mia presenza. Mi colpii soltanto quel dettaglio, in quel momento, perché ero talmente offuscato dal dolore da non riuscire a capire davvero quello che mi stava dicendo.

«Non è detto che andrebbe a finire così, ma se ti ostini ad allontanare tutti non appena arrivano vicino ai tuoi punti deboli, che senso ha? Che senso hanno avuto gli ultimi mesi?»

«Smettila Giò. Ti sto facendo un favore.»

Le lacrime stavano cominciando a rigarle le guance, eppure io ancora non capivo perché rifiutasse il mio aiuto. Stare insieme a una persona significava quello, no? Esserci sempre, nel bene e nel male. Sostenersi nei momenti difficili. Piangere tra le braccia dell'altro.

Ma lei aveva già deciso con chi voleva stare. Il vento, e non le mie braccia, le stava asciugando le lacrime: «Non puoi decidere per me. Tu pensi di sapere tutto, di conoscere quello che è meglio per gli altri, ma ti sbagli.»

Mi lanciò uno sguardo di ghiaccio: «E invece tu hai ragione? Chi lo decide, Giò? Chi è che ha ragione?»

Non le risposi. Qualcosa in me ricominciò a funzionare. Qualcosa di molto vecchio, che non aveva a che fare con il ragionamento o l'intelligenza, ma con la coscienza, e in particolare con quella parte di coscienza talmente profonda che a volte ci si dimentica di averla, come fosse una vecchia macina polverosa che è stata sostituita da impianti sempre più tecnologici.

Fa male macinare i pensieri uno alla volta, lentamente, senza poter ignorare quelli più scomodi, ma in quel momento fui costretto a farlo.

Avrei potuto fregarmene di tutte le sue trincee di pensieri e convinzioni. Avrei potuto baciarla fino a toglierle le forze, per dimostrarle che poteva scegliere di non darla vinta alla malattia, per convincerla che sarei stato in grado di restituirle il triplo delle energie e della felicità. Ma cosa sarebbe cambiato?

Lei voleva stare sola. E io non ero la sua cura. Quello fu in assoluto il pensiero più difficile da elaborare. Lo sentii scricchiolare, spezzarsi in mille minuscole scintille di parole scomposte senza più alcun senso compiuto e diventare polvere sottile che andò come a incastrarsi in qualche parte del mio cervello – o, se preferisci la versione romantica, del mio cuore.

Se fossimo stati davvero i protagonisti di un film d'amore, lo sceneggiatore mi avrebbe trovato qualche altra battuta implorante, o avrebbe imposto a Silvia di scappare prima che potessi dirle la frase perfetta, quella che sarebbe stata rimandata alla fine del film per poterlo allungare di un'altra mezz'ora. Ma io non avevo frasi perfette e Silvia non poteva più scappare. Non poteva più ripararsi sotto la sua pioggia, sotto teorie contorte e tentativi di vivere una vita che non era più sua.

Pensai ai ragazzi che mi avevano preceduto. A Daniele, a quanto l'avessi giudicato, a quanto mi fossi ritenuto superiore a lui mentre forse, chissà, a suo tempo si era ritrovato nella mia stessa situazione. Perciò no, non avevo frasi perfette per Silvia, ma mi venne in mente una frase perfetta per lui.

«Lo zucchero di canna» mormorai. Silvia tornò a guardarmi: «Cosa?»

«Al nostro primo appuntamento abbiamo parlato dello zucchero di canna e tu hai detto che Daniele era finto e confezionato in serie come lo zucchero delle bustine. Beh, è una bufala, Vì. Lo zucchero di canna dei bar è vero. E sì, sarà pure confezionato in serie, ma tutti noi lo siamo, sotto sotto. È solo che ci apre sempre e solo una persona.»

Sembrava sinceramente sorpresa: «Lo credevi anche tu. Che fosse finto.»

«Sbagliavo anch'io. Nessuno di noi ha ragione. Nessuno di noi vince.»

Sussurrai appena l'ultima frase, ma credo che lei la sentì lo stesso perché, dopo pochi secondi, risalì in auto.

La riaccompagnai a casa in silenzio. Ricordo con estrema precisione tutte le cose che avrei voluto dirle, ma non le scriverò perché ormai risulterebbero soltanto un contorno di troppo, come quelle tristi foglie di insalata che dovrebbero fare da "letto" a un secondo e che vengono quasi sempre lasciate nel piatto come fossero lenzuola sporche.

Fu soltanto lei a parlare, alla fine.

«La prima volta che ti ho visto... Non è stata a scuola. È stata qui. Stavi correndo. Forse eri insieme a Sam, ma ho un ricordo un po' confuso di quella sera. So solo che eri tu. Sei stato un lampo arancione davanti alla finestra, e poi sei sparito. Accadde mesi prima di quel giorno di pioggia.»

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