XXVI

La rividi un pomeriggio di fine aprile, al termine di un allenamento. Era seduta sugli spalti e reggeva un ombrello rosso per ripararsi dalla pioggia. Maglietti aveva eccezionalmente accorciato l'ultima sessione di corsa per non rischiare che a qualcuno di noi venisse un raffreddore poco prima delle regionali. Mi aveva addirittura prestato uno dei tanti ombrelli dimenticati da chissà chi e mai più reclamati che custodiva nel suo armadio segreto, visto che il mio, ovviamente, era rimasto a casa. E così, la prima immagine che Silvia ebbe di me dopo più di tre settimane fu quella di un ragazzo infagottato nella sua logora giaccia arancione, con il cappuccio tirato su e un ombrello viola sbiadito con una stecca rotta che si sarebbe rovesciato nel giro di qualche secondo.

Il cuore mi balzò in gola, prosciugandola fino a farla diventare secca come il Sahara. Se non avessi dovuto salvaguardarmi la salute per la gara, avrei scaraventato a terra l'ombrello e mi sarei messo a bere quanta più pioggia possibile. Invece rimasi a combattere contro il vento finché non raggiunsi la seconda fila di spalti. Silvia si girò leggermente verso di me. Stringeva il manico dell'ombrello con entrambe le mani ed era pallidissima, ma la cosa più strana era il leggero tremore del suo corpo. Aveva freddo.

«Ciao» mormorò senza guardarmi.

«Ciao.»

Aspettai che dicesse qualcos'altro, ma sembrava aver già esaurito le parole.

«Vuoi che andiamo da qualche parte a parlare? In un bar o-»

«No, non... Sto bene qui» balbettò. Era molto diversa dalla Silvia con cui avevo parlato la prima volta, quella che era rimasta a braccia aperte sotto la pioggia di novembre senza battere ciglio.

«Non sono stata molto bene ultimamente» disse dopo qualche istante. Poi alzò lo sguardo su di me e ricominciò a parlare senza mai più fermarsi: «Non volevo incasinarti, Giò. È che a volte perdo il controllo. Quando sto per avere una ricaduta devo aumentare il dosaggio dei farmaci per contenere i sintomi, ma i farmaci hanno un sacco di effetti collaterali, e il primo fra tutti è che ti sballano l'umore. E poi ho sempre questa stanchezza rivoltante... La chiamano fatigue, è una specie di piccolo buco nero bastardo che ti risucchia le energie, e tu non puoi fare altro che dormire... Sono rotta. Non sono capace di reggere questa cosa.»

La parte più adulta di me aveva previsto quella frase da molto prima che le cose andassero a rotoli. Me ne resi conto in quel momento, quando uno sconsolante senso di sconfitta mi si appiccicò alla pelle del viso, tirandone i lembi verso il basso.

Tutti i miei sforzi per evitarla, per lasciarla respirare, per non stanarla rischiando di spaventarla, erano stati vani. Stava comunque fuggendo da me. Voleva fuggire da me.

Oppure no? La tentazione di non crederle era troppo forte. Se non aveva funzionato starle lontano, non potevo fare altro che rischiare di starle vicino.

Stava spiovendo. Mi gettai l'ombrello alle spalle e le presi il viso tra le mani, tirandola verso di me. Le sue labbra erano fredde come il ghiaccio, ma mi erano mancate da morire. Non capivo nient'altro. Non volevo nient'altro.

«Giò, non renderlo più difficile» sussurrò appoggiando la fronte contro la mia. Stringeva ancora l'ombrello, anche se ormai aveva smesso di piovere. Glielo sfilai delicatamente dalle mani e un sole primaverile sbucò dalle nuvole specchiandosi sul metallo degli spalti.

«Che cosa?»

«Lo sai.»

«No. Non lo so, Vì. So solo che è facilissimo stare insieme a qualcuno quando le cose vanno bene. Saprebbe farlo chiunque. Ma io voglio provarci anche se le cose vanno male.»

«Non è giusto, Giò. Non è giusto» ribadì guardandomi negli occhi.

«E chi l'ha deciso? Perché vuoi decidere per me?»

Silvia combatté a lungo prima di rispondermi. Glielo leggevo negli occhi: era in guerra con se stessa e nessuna parte di lei avrebbe accettato di perdere; ma era anche in guerra con me, e sapeva che nemmeno io avrei perso facilmente.

Volevamo vincere, questo è il discorso. È il copione di tutti i classici del cinema, giusto? Quale eroe si batte per perdere?

Silvia si appoggiò al mio petto. Era esausta, e arrabbiata, e triste. In una parola: fragile. Come me.

La portai a casa mia, visto che i miei sarebbero rientrati tardi, e le prestai una felpa e un paio di pantaloni caldi. Ci mettemmo a letto senza fare nulla, a parte ascoltarci. Le chiesi della malattia, di come si sentisse, di quali fossero le cose che la facevano stare un po' meglio. Riuscimmo addirittura a farci una risata quando mi confessò che molti "sclerati" – è questo il modo in cui si chiamano tra loro, sui gruppi di sostegno o di divulgazione della malattia – traevano parecchi benefici dai vapori della cannabis.

Eravamo due fuochi che si stavano toccando dopo aver lottato per respingersi.

Alla fine, mentre fuori ricominciava a piovere, ci addormentammo.

Ancora oggi, quando mi capita di ripensare a quel momento, non riesco a fare a meno di considerarlo la più grande sfida mai lanciata, e vinta, alle leggi dell'universo.

E se credi che stia esagerando, ti conviene continuare a leggere.


...


Si sente spesso dire che l'amore è un sentimento indiscusso e incontrovertibile a prescindere da qualsiasi cosa, e forse per qualcuno è così. La mia storia con Silvia, però, mi ha insegnato che l'amore è anche tempo. Tempo e tempismo.

Quella bolla magica in cui ci eravamo rinchiusi non sarebbe durata a lungo, ma il tempismo aveva fatto sì che Vì decidesse di tornare da me il giorno prima dell'osservazione stellare regalatami da Marco; quando glielo dissi le si illuminarono gli occhi, e in quello sguardo ci lessi il mio stesso pensiero: avevamo finalmente una meta, ed era la stessa per entrambi. Non c'era bisogno di altro. Stavolta non furono necessari misteri, tattiche o scuse per convincerla a dire una bugia; al contrario, fu lei stessa a propormi di inventarci una versione comune per i miei e i suoi genitori: io avrei raccontato che sarei stato da Marco e lei da Francesca, e, con l'aiuto dei nostri complici e un pizzico di fortuna, sia mia madre che il padre di Vì ci credettero. Il pomeriggio seguente, finita la scuola, caricai armi e fagotti in macchina e guidai fino al parco giochi dietro casa di Marco. Poco dopo, Silvia e Francesca svoltarono l'angolo. Francesca, che era passata a casa di Silvia per non destare sospetti e aiutarla con le borse (è risaputo che le ragazze, malate o meno, non si risparmino mai con i bagagli, nemmeno per le gite da mezza giornata), ci aiutò a caricare tutto in auto, con un sorriso birichino sul viso. E poi, da soli, partimmo per davvero.

Scordati l'immagine patinata dei viaggi con il finestrino abbassato, la musica a tutto volume e la testa vuota dai pensieri: la nostra fuga fu l'esatto contrario.

Anche se non mi aveva raccontato con precisione quanto grave fosse stata la sua ricaduta, sapevo che non stava ancora bene, perciò, nonostante il cielo fosse terso dopo il temporale del giorno prima e l'aria satura del primo caldo estivo, viaggiammo al sicuro da ogni refolo di vento e lei tenne sempre una coperta sulle gambe. In quanto alla musica, la mia auto era dotata di una radio che prendeva solamente Radio Maria e il canale delle notizie H24. Trafficando un po' però, Silvia era riuscita a intercettare una stazione di musica classica sul quale trasmettevano un tizio che suonava e al contempo commentava un brano molto, molto lungo di Bach.

Fu l'ultima cosa che scoprii di lei: le piaceva Bach. Non me l'aveva mai confessato prima di quel giorno, quando fu costretta a farlo per farmi smettere di cambiare frequenza. Personalmente, avrei ascoltato più volentieri il rosario, ma alla fine riuscii a convincermi e passammo quasi un'ora ad ascoltare quel pianista (chissà chi era! Non lo dissero e non lo scoprimmo mai) suonare e disquisire della tecnica e del genio infinito di Johann Sebastian Bach.

Tutto sommato, comunque, fu divertente: il musicista era talmente coinvolto nel parlare di trilli, scale ascendenti e moti contrari che, benché non ci capissi un accidente, lo presi in simpatia. E vedere Silvia ridere fu ancora più bello.

A metà strada ci fermammo per la pausa bagno in un grande centro commerciale.

Ricordi quando ti ho scritto che non ho mai rubato nulla, o quasi? Bene: Silvia fu il "quasi".

Entrammo nel supermercato per fare scorta di snack e bibite per la sera. Essendo un sabato pomeriggio c'era un sacco di gente: quando svoltammo nella corsia dei dolci confezionati e della cioccolata, però, la trovammo inaspettatamente vuota. In uno degli scaffali bassi c'era una maxi-confezione di Twix rotta. Un paio di barrette erano scivolate a terra.

«Non li ho mai assaggiati», disse Vì distrattamente, mentre decideva se prendere i Ringo al cioccolato o alla vaniglia.

«E me lo dici così? Mentre scegli dei biscotti che hai già mangiato mille volte? Mi sorprendi, Vì: chi è l'abitudinaria, adesso?»

Silvia si voltò verso di me e mi guardò allo stesso modo di come mi aveva guardato quando mi aveva dato lo schiaffo. Era di nuovo lei, e stava accettando la sfida.

Fece per prendere una delle confezioni integre, ma la bloccai: «Se proprio vogliamo fare qualcosa di nuovo, dobbiamo farlo fino in fondo.»

Presi un paio di barrette dallo scaffale e gliele infilai nella tasca della felpa: «Le terrei io, ma non ho una tasca dove nasconderle», mi giustificai prima che potesse obiettare.

Quindi, sì, posso dire che tecnicamente la ladra fu Silvia, ma l'idea, modestamente, venne da me. Un perfetto esempio dell'allievo che supera il maestro.

Ci avviammo alle casse: ce n'erano quattro aperte, ma soltanto tre avevano la coda. Alla quarta, l'unica con una cassiera giovane, erano ferme soltanto due persone. Un ragazzo, che aveva tutta l'aria di conoscere la ragazza dietro il nastro, e un signore impaziente che li guardava. Il ragazzo fissava invece la cassiera che stava digitando nervosamente qualcosa sul computer. Sul nastro c'erano due confezioni di mentine e un pacchetto di caffè.

La ragazza, dopo un paio di tentativi, disse il conto e stampò lo scontrino. Lui si fece dare una penna e cominciò a scriverci dietro qualcosa. Il signore, a quel punto, fece dietrofront e andò alla cassa successiva.

«Ora o mai più», mormorai, e appoggiai alla svelta la nostra spesa sul nastro. Silvia teneva le mani in tasca e potevo quasi percepire la tensione dei suoi nervi che stringevano il nostro bottino. Ma la cassiera aveva occhi soltanto per il ragazzo: lui finì di scrivere, le restituì il biglietto e se ne andò; lei, dopo qualche secondo, si alzò dalla sedia e sembrò sul punto di corrergli dietro. Ma poi le nostre merendine arrivarono al capolinea del nastro trasportatore e le toccarono la mano, facendola tornare in sé.

Si risiedette, infilò lo scontrino in tasca, eseguì meccanicamente le operazioni di registrazione dei prodotti, recitò il prezzo che era comparso sullo schermo, prese i soldi, ci diede il resto e pronunciò un "arrivederci" senza prestarci la minima attenzione.

Due passi dopo eravamo di nuovo nell'atrio del supermercato, eccitati come se avessimo svaligiato una banca, e ci incamminavamo lentamente, per non destare sospetti, verso l'uscita.

Un attimo prima di superare le porte automatiche, mi voltai: la ragazza aveva di nuovo lo scontrino tra le mani. Sorrideva.


...


I Twix ce li gustammo così come li avevamo presi: di nascosto, mentre l'astronoma indicava le costellazioni visibili a occhio nudo in attesa che la luna tramontasse del tutto per effettuare l'osservazione vera e propria con i telescopi. Eravamo infagottati nelle coperte e avevamo un gran mal di collo a forza di stare a naso insù, ma ammetto di non aver mai visto un cielo più bello di quella notte.

Fu la perfetta conclusione di un giorno perfetto.

La risalita lungo la stretta carreggiata per raggiungere il parcheggio era filata liscia come l'olio. La passeggiata al tramonto verso l'osservatorio era stata come camminare dentro una cartolina in movimento. Le montagne che ci circondavano erano sparite nel buio prima che ci accorgessimo di quanto fossimo in alto. E il corpo di Silvia contro il mio non era mai stato tanto confortante.

Sinceramente, non ricordo un granché dal punto di vista "stellare": la visita terminò alle 23 con una tisana calda per tutti, poi, pian piano, gli altri se ne andarono finché non rimanemmo soli. Ci sdraiammo sul prato e rimanemmo in silenzio per un po'.

A un certo punto, come puoi immaginare, successe quel cliché che almeno una volta nella vita deve succedere: una stella cadente ci passò sopra la testa, e io, ovviamente, pronunciai la fatidica frase: «Esprimi un desiderio.»

«Io non ci credo molto, alla storia delle stelle cadenti», fu la sua risposta. «Se proprio dovessi esprimere un desiderio, lo affiderei a qualcosa di vivo, non a un pezzo di roccia a centinaia di chilometri da noi. Un fiume, forse. O un albero.»

«Ma il senso delle stelle cadenti è che muoiono nell'istante in cui esprimi il desiderio. E la loro polvere arriva sulla terra. Almeno credo» ammisi. Non è che mi fossi mai posto il problema.

«Sì, è poetico quanto vuoi, ma non mi convince lo stesso.»

«Stai distruggendo la magia che ispira tutti i sognatori di questo mondo, lo sai?»

«Ci sono cose peggiori che possono succedere ai sognatori.»

«Tipo?»

«I compromessi» mormorò. «Quando i sogni, i desideri, le speranze o gli obbiettivi che un sognatore si pone sono al limite dell'impossibile, anche il più folle non può far altro che arrendersi o patteggiare con sé stesso. Che forse è anche peggio.»

«Non capisco che vuoi dire» confessai. Forse era la prima volta che ammettevo ad alta voce e in sua presenza di non riuscire a seguire i suoi pensieri.

«Pensa di avere un sogno gigantesco, tipo scalare l'Everest. Ce l'hai da quando eri piccolo così, ti sei comprato decine di libri sull'Himalaya, sugli ottomila, sulle tragiche storie degli alpinisti che hanno affrontato i mille pericoli della montagna, restandoci molto spesso secchi, hai guardato decine di documentari e di film e di interviste interessanti... Ma a un certo punto ti svegli e hai vent'anni, e ti rendi conto che per portare a termine un'impresa come quella servirebbero una caterva di soldi e una tabella di allenamento sulla quale probabilmente sei già indietro di qualche anno. Alla fine, cosa fai? Vai su internet, prenoti una guida e un volo per il Tibet, ti prendi un mese di vacanza, svuoti il reparto outlet del Decathlon, e poi, dopo aver comunque speso una caterva di soldi, raggiungi con la tua bella fatica il campo base alle pendici dell'Everest, alla considerevole quota di 5587 metri, e scoppi di gioia perché tecnicamente sei davvero arrivato sull'Everest, e fai di tutto per nascondere a te stesso che in realtà sei semplicemente arrivato a un compromesso.»

Quando finì di parlare, tirai un respiro al suo posto: «Okay. Ma non hai considerato la terza opzione.»

«Sarebbe?»

«Tu hai detto: o uno molla tutto, oppure scende a un compromesso. La terza opzione è che uno ci provi. Che metta da parte i soldi e cominci ad allenarsi il giorno stesso in cui si è reso conto che ha vent'anni e tutto il resto, e che alla fine... Ci provi.»

«Questa è la parafrasi della solfa mediatica "you can do it".»

«Sarà pure una solfa mediatica, ma non puoi negare che sia fondamentalmente giusta.»

«Non lo nego. È solo che non posso permettermi di vederla in questo modo.»

Rimanemmo in silenzio. Per qualche minuto non feci altro se non stringerla più forte a me. Poi mi buttai: «Tu non vuoi permettertelo. Ma sono sicuro che in qualche modo-»

«Io non posso, Giò. Non posso fare quello che sogno. Non potrei impegnarmi per scalare una montagna se tutta la fatica ruotasse attorno al superare indenne il viaggio in macchina. Sarebbe come studiare tantissimo per un esame di matematica avanzata sapendo di non poter usare la calcolatrice.»

Volevo chiederle quale fosse il suo sogno. Invece dissi: «Smettila di parlare per metafore» e lei scoppiò: «Va bene, Giò, sarò chiara e tonda: tu puoi farlo. Tu puoi impegnarti e raggiungere un obbiettivo senza scendere ad alcun compromesso. Tu, non io.»

Altro silenzio. Mi ci volle una gran quantità di coraggio, ma ne avevo accumulato abbastanza da chiederle un'ultima cosa, forse quella che mi importava di più.

«Se ci credi davvero, perché hai fatto tutto quel discorso sul fatto che i sognatori possono solo arrendersi o patteggiare?»

«Perché non ti considero un sognatore.»

«E cosa, allora?»

Mi rispose dopo qualche istante: «Un distratto. Un distratto che non si è reso conto di quanto è fortunato a poterci provare.»

La strinsi ancora più forte. Avevamo l'intera Via Lattea sopra di noi, eppure non ci interessava.

«Sono fortunato ad averti incontrato, perché non ci starei nemmeno provando se non fosse per te.»

«Questo però non cambia nulla. Non per me.»

Rimanemmo sdraiati ancora un po', come se all'improvviso l'elefante ci fosse caduto addosso. La mezzanotte era passata da un pezzo. Il giorno perfetto era finito.

Quando rientrammo in macchina, eravamo sfiniti. Il viaggio fu silenzioso. Sembrava passato un secolo da quando avevamo riso con Bach.

La lasciai davanti alla casa di Francesca alle tre e mezza del mattino, così che i suoi la vedessero tornare insieme a lei. Da quel punto di vista, la bugia aveva funzionato alla grande.

Era la verità ad aver complicato le cose.

«Grazie, Giò. È stato bello.»

Mi venne da ridere. Era buffo, ma in effetti aveva ragione. Era stato bello finché era durato.

«Buonanotte» riuscii a risponderle. Quando ormai era sul vialetto d'ingresso mi ricordai del desiderio. Mi ero dimenticato di esprimerlo. Dopo quello che ci eravamo detti, non sapevo nemmeno se avesse senso, e comunque ormai la stella era caduta... Ma poi pensai che in fondo io davvero non ero un sognatore. E forse ai distratti era concesso un po' di ritardo.

... Oh, beh, ora non aspettarti che ti dica quale fu il mio desiderio. Non si è ancora avverato.

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