XXIX
Questa è la mia ultima lettera. E non voglio parlarti di Silvia.
Voglio parlarti di me e di ciò che mi successe dopo la fine della storia con Vì, durata esattamente tre mesi e sedici giorni. Una relazione piuttosto breve rispetto alla media delle storie tra due diciottenni, eppure sono riuscito a scriverti un centinaio di pagine a riguardo... Si dice che il primo amore non si scorda mai, giusto? Diavolo se è vero. Ma c'è un'altra cosa che non dimenticherò mai: l'ultimo giorno di liceo.
Come da tradizione, la sera tutte le quinte si ritrovarono nella palestra della scuola per mangiare una pizza insieme agli insegnanti, nonché per cercare di ingraziarseli in vista della maturità.
Ci andai anch'io, ma per un motivo un po' diverso: Vera (la mia compagna di banco poco loquace accanto alla quale trascorsi l'ultimo mese di lezioni, ricordi?) mi aveva confessato, durante una delle conversazioni più lunghe che avessimo mai avuto, che desiderava andarci fin dal primo anno di liceo, ma non essendo riuscita a legare con nessuno della nostra classe si sentiva a disagio. Le chiesi se per caso le avrebbe fatto piacere andarci con me, lei scoppiò a ridere e mi disse una cosa del tipo: «Cavolo, sì! È proprio un peccato che non mi piaci in senso romantico, sarebbe stato l'inizio di una gran bella love story.»
Era davvero in gamba, e non soltanto perché non si era mai presa una cotta per me – non a caso, studia in medicina e ha intenzione di partire per l'Africa subito dopo la laurea, giusto il tempo di finire il cin cin e togliersi la corona d'alloro.
Insomma, la pizzata alla fine andò bene. Prima di sedermi scambiai qualche tiepido saluto con Fra e Andre (frasi di cortesia più vuote di una camera iperbarica), poi chiacchierai con Vera fino al tragico momento dj set organizzato dal Gabry Ponte Wannabe dell'anno. A quel punto ci allontanammo dalla folla e ci incamminammo verso il cancello: lei voleva tornare a casa e dormire in vista dell'ultima settimana di studio prima dell'inizio delle prove, e io non avevo più nulla che mi trattenesse.
Senonché, dopo averla salutata, mentre ero in piedi in quel piazzale testimone di alcuni dei momenti più significativi della mia adolescenza, con lo sguardo perso tra i soliti avanzi di sigaretta, le solite cicche annerite dallo sporco e le solite confezioni di caramelle alla liquirizia, mi sentii chiamare: «Ehi, Giò!»
Dalla strada sbucarono Marco, Lavinia, Francesca e Thomas. Mi vennero incontro ridendo della mia espressione sconcertata: «Sorpresa!» esclamò Marco dandomi una pacca sulla spalla che per poco non mi rovesciò. Prima che potessi aprire bocca, Marco continuò, rivolgendosi a Francesca: «Che ti avevo detto? Giò non avrebbe resistito più di un'ora in più là dentro.»
Francesca si vide costretta a dargli ragione e mi spiegò: «Abbiamo pensato-»
«Ho pensato» la corresse il nuotatore.
«Ha pensato» marcò lei con gli occhi al cielo, «che sarebbe stato carino festeggiare tutti insieme in un posto davvero figo» concluse imitando la voce di Marco.
Io non capivo più nulla. Da quando li avevo visti arrivare, il mio cervello era andato in blocco. Non so tradurre quello che provai con le parole di adesso: quelle che mi riempivano la testa e il cuore all'epoca erano talmente ingarbugliate che non riuscii nemmeno allora a dar loro un significato. Tutto ciò di cui fui immediatamente sicuro, e che posso ora effettivamente confermare, era che avrei provato un'immensa gratitudine per quel piccolo, grande momento soltanto a distanza di un po' di tempo, e da lì per sempre.
Vuoi sapere il posto figo scelto da Marco? La piscina, ovviamente. I corsi serali terminavano alle 22, ma i bagnini rimanevano per le pulizie fin quasi a mezzanotte. Fu proprio uno di loro, amico di Marco, a farci entrare dal cancello di servizio nell'area della piscina all'aperto, che non era stata ancora aperta ufficialmente.
Faceva caldo, quella sera. Ci togliemmo subito le scarpe e mettemmo i piedi a mollo, sgranocchiando le patatine che Thomas aveva nascosto nello zaino.
Non avrei potuto immaginare un ultimo giorno migliore. Chiacchierammo di tutto, dalla scuola allo sport, concedendo anche un po' di spazio alla sfrenata passione per i libri fantasy dell'unica non-sportiva del gruppo, e ovviamente del futuro. Ma a differenza dell'ultima volta che avevo toccato l'argomento con Fra e Andre, quel gelido pomeriggio invernale dopo Capodanno, il domani ipotetico di cui parlammo non mi spaventò affatto. Certo, loro avrebbero frequentato il liceo ancora per uno, due e addirittura tre anni nel caso di Thomas, e una parte di me avrebbe voluto farsi bocciare e ricominciare la quinta soltanto per non dover affrontare il "fuori" da solo, proprio quando avevo finalmente trovato degli amici veri.
Ma furono proprio loro a farmi capire che, al contrario, sarebbero stati sempre al mio fianco, a cominciare dalle nazionali.
Mantennero la parola, sai? E continuano a mantenerla.
Il giorno in cui esposero i risultati della maturità (ottenni un dignitosissimo 88) io mi trovavo a un centinaio di chilometri di distanza dalla scuola, sulla pista di atletica che sarebbe diventata la mia seconda casa fino al giorno delle nazionali. Che non vinsi.
Arrivai terzo, ma secondo la mia nuova allenatrice fu comunque un buon risultato da cui ripartire.
I miei mi aiutarono a pagare l'affitto di un monolocale accanto al campo di allenamento per i primi mesi dopo l'estate, poi decisi di rimediare, finalmente, alle tante rinunce e ai tanti favori causati da quello stupido "patto dei diciotto" e mi trovai un lavoretto per mantenermi. Divenni il fiero barista del "Due chiacchiere", un locale a pochi passi dai miei quarantadue metri quadrati di casa. E, in realtà, lo sono ancora.
È da qui che ti ho scritto tutte queste lettere. Quando non devo fare da babysitter alle figlie del mio collega, le due piccole adorabili pesti, e non c'è nessuno, mi siedo in veranda e mi torna in mente il Cafè Paris. Questo posto un po' ci somiglia. E io, guarda caso, un po' somiglio a Daniele. Ho persino qualche vecchietto fisso a cui spaccio le brioches della mattina.
È ironica, la vita. O il destino, o qualunque altra cosa.
Sono passati quasi tre anni dall'ultima volta che ho visto Silvia. Lo so, non avrei dovuto parlare di lei, ma forse mento a me stesso quando mi comporto da persona adulta che cerca di tenerla fuori dai miei discorsi. In realtà, in molti dei discorsi che faccio lei c'è ancora, nascosta tra le pieghe di frasi che non termino o che modifico all'ultimo secondo per non far capire a chi le sto dicendo che vorrei rivederla.
Dopo la maturità si è trasferita a Milano con i suoi genitori, per essere più vicina a una delle migliori cliniche di cura per la sclerosi multipla in Italia. Me l'ha detto Francesca l'ultima volta che l'ho sentita, un anno fa. Anche lei si è trasferita nella sua stessa zona, per frequentare l'università di lettere moderne, e sono ancora amiche. All'inizio credevo fosse grandioso, perché avrebbe potuto tenermi informato su come stava e dentro di me speravo che, quando fosse stata meglio, avremmo potuto rivederci.
Poi mi sono reso conto che non era così facile. Che stavo ogni giorno peggio del precedente.
Francesca l'ha capito e ha smesso di scrivermi.
Il sole sta tramontando. Ho chiuso il locale una mezz'oretta fa e fra poco devo tornare a casa per una rimpatriata con Marco e Lavinia – che ormai sono una coppia di ferro – in vista della maturità di Tommy.
Marco è diventato bagnino e fra poco dovrebbe ottenere il brevetto come istruttore di nuoto. Lavinia ha abbandonato la corsa e si è data alla biotecnologia, mentre Tommy ha tutte le intenzioni, e tutte le potenzialità, per venire ad allenarsi con me dall'anno prossimo. Sono felice di rivederli, soprattutto perché ci sarà anche Maglietti. Ultimamente, quando ci sentiamo, ha ripreso una sua vecchia abitudine, quella di tartassarmi di consigli su cosa dovrei fare secondo lui. Dice che dovrei iscrivermi a Scienze motorie e diventare insegnante. Dopo aver provato a fare le Olimpiadi, s'intende.
Io lo ascolto sì e no. Anche se una parte di me sembra stranamente attratta da questa prospettiva.
Penso sia quella parte di me che Silvia ha portato alla luce con le sue "domande di mezzanotte". La parte curiosa. La parte che non si accontenta più di galleggiare come olio nella minestra in questa vita. La parte che non teme più nessuna pioggia, men che meno quella provocata dal giudizio degli altri.
A volte, nonostante la distanza, mi capita di sentirla. Mi immagino quello che direbbe in una certa situazione o la decisione che prenderebbe riguardo una certa questione, un po' come succede nelle camere a sussurro, che sono costruite in forma ellissoidale e nelle quali, se ci si posiziona in uno dei due fuochi e si sussurra una parola, questa può essere udita da chiunque si trovi nel fuoco opposto.
Ognuno di noi si trova al posto giusto, adesso. Nei due fuochi dell'ellisse. Non ci stiamo più scaldando a vicenda, ma abbiamo anche smesso di scottarci. Sappiamo l'uno dell'esistenza dell'altro, e che tutto ciò che ci ruota attorno è in qualche modo legato a ciò che abbiamo vissuto insieme.
Ho amato Silvia, e forse la amo ancora, il che è assurdo e doloroso, alle volte insopportabile.
Ma con queste lettere, che alla fine non spedirò mai né a lei né tantomeno a te (tanto mica conosci l'italiano, no?), mi sono ricordato che aveva ragione su un'ultima cosa: ne valeva davvero la pena.
Nota a margine – ma non così marginale
Per scrivere Fly By ho impiegato quasi nove mesi. Per scrivere Ellipsis quasi otto anni. Ma ora so che è stato giusto così: dovevo finirla dopo aver vissuto quei quattro mesi e ventotto giorni insieme a Davide, che mi hanno un po' distrutta, ma dopo i quali ho anche imparato a rimettermi insieme, pezzo per pezzo. Ho imparato tanto, e spero che almeno una parola di tutta questa storia sia riuscita a trasmettere qualcosa anche a voi, che siete o siete state innamorat*, o che lo sarete, nei confronti di chiunque o di qualunque cosa bella della vita.
Grazie a chi è arrivato fino a qui.
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