XXIV

Una volta avevo sentito dire dai miei un proverbio, "la lingua ferisce più della spada", o qualcosa del genere. Avevamo discusso perché l'avevo definito il proverbio più idiota e buonista del secolo.

Non ho voglia di vedere nessuno. Scusa.

Leggere quelle parole fu come ricevere una pugnalata allo stomaco. E no, non ho mai ricevuto una pugnalata in pancia - tu forse sì, ma per finta, quindi non vale – ma credimi se ti dico che provai un dolore quasi fisico nel rendermi conto che ero passato dal fare l'amore con Vì ad essere "nessuno".

Tornai a casa trascinando i piedi. A cena tentai di nascondere il mio malessere ai miei sforzandomi di finire la mia porzione di lasagne al forno, ma mi sembrava di mandar giù fogli di carta e grumi di inchiostro. Dieci minuti dopo vomitai tutto.

Ero sfinito e mortificato, non solo per aver letteralmente buttato nel cesso un piatto delizioso, ma anche perché non mi sentivo affatto meglio. Mi buttai a letto senza nemmeno indossare il pigiama. Non sapevo cosa fare. Il cuore balzellava a suo piacere tra lo sterno e la gola, i polmoni si erano come accartocciati su loro stessi e lo stomaco lanciava degli acuti degni della Callas.

Fu il mio primo attacco di panico.

Vorrei potermi pavoneggiare dicendo che in breve tempo riuscii a riprendere il controllo della mia mente e a farmi una bella dormita, ma le cose andarono diversamente. Mi rigirai nel letto per tre ore, cercando di trattenere la nausea, poi passai un'ora a fissare il soffitto e a pregare Dio o chiunque per lui affinché mi facesse il piacere di dissolvere per magia quell'ingorgo ormai apocalittico di pensieri che mi martellavano la testa, e infine, esausto, mi alzai e scesi in cucina.

Erano le quattro del mattino. Mia madre era seduta sul divano a leggere un libro.

Mi sorrise, posò gli occhiali e il libro a faccia in giù e bevve un sorso di tisana allo zenzero. L'avevo riconosciuta dall'odore pungente. Sul tavolino, accanto alla sua tazza, ce n'era un'altra coperta da un piattino.

«Come mai sei sveglia? Non toccava a papà fare il turno del mattino oggi?»

«È appena partito. Vieni qui, siediti.»

Tolse il piatto dalla tazza e una nuvoletta di vapore volteggiò davanti al suo viso. Latte caldo e miele.

«Non ho mal di gola» mormorai raccogliendo il suo invito.

«Però non stai bene» ribatté coprendomi le ginocchia con una parte della coperta che teneva sulle gambe. Mi appoggiai ai cuscini e sospirai.

«Non sei obbligato a dirmi cosa c'è che non va, Gioele, ma credo di saperlo, e vorrei tanto esserti d'aiuto in qualche modo.»

L'unica cosa di cui ero certo in quel momento era che nessuno avrebbe potuto aiutarmi, e anche se suonava un po' troppo melodrammatico, fu proprio ciò che le dissi.

Mamma annuì. Che avesse capito tutto già da un pezzo lo sapevo, anzi, mi aspettavo che mi regalasse qualche perla sull'amore per troncare sul nascere la mia recita di Atlante che regge il peso del mondo, o la solita solfa del 'ci siamo passati tutti', 'tra dieci anni non ci penserai più', e via così.

Invece disse: «Sono un po' preoccupata.»

Sorpreso, e anche un po' perplesso, mi lasciai sfuggire un'esclamazione che divenne domanda nel momento in cui la pronunciai: «Addirittura?»

Non è che fosse strano che mia madre si preoccupasse per me. È che me l'aveva detto in una maniera talmente diretta che per un attimo mi ero sentito trattato da pari a pari, e non da mamma a figlio. E sai perché? Perché dovevo ammettere che anch'io, sotto sotto, ero preoccupato.

«Non è mai facile affrontare una malattia» disse dopo un sorso di tisana, «ma scoprire di averne una con cui dovrai convivere per tutta la vita prima di aver compiuto diciotto anni, te la cambia, la vita. Capisci? Il punto è che ti rendi conto in che misura e quanto sei cambiato soltanto molto tempo dopo la diagnosi. E tutto quello che ti accade nel frattempo, è eccezionalmente fragile.»

Il ronzio del frigorifero fu l'unico rumore per il minuto successivo. Una parte di me, quella preoccupata, capiva alla perfezione il senso di quel discorso. Un'altra, quella ottimista, continuava ostinatamente a credere che sarebbe andato tutto bene. Ma la parte di me che non pensava ad altro che a Silvia – insomma, la parte innamorata – faceva la Svizzera. Si rifiutava di prendere una posizione. Però una cosa era chiara a qualsiasi parte di me, forse perché era un pensiero un po' egocentrico e quella mia caratteristica si rifletteva in ugual misura nella preoccupazione, nell'ottimismo e nell'amore che provavo: ciò che le stava accadendo in quel momento ero io, e mia madre aveva ragione: stavo diventando fragile.

«Non so cosa fare» dissi rompendo il silenzio. Suonava come una specie di ammissione di colpevolezza. Piangevo.

Mia madre mi cinse le spalle con un braccio e mi lasciò sfogare senza dire nulla. Poi mi prese le mani gelate e le strinse forte tra le sue: «Tu non puoi guarirla, tesoro mio. Puoi starle accanto e volerle bene, e se i vostri sentimenti sono sinceri capirete da soli, e al momento giusto, cosa fare.»

Continuai a piangere per un sacco di tempo. Mi aveva detto tutto quello che non avrei mai voluto sentire, ma sapevo che era tutto giusto, che era tutto maledettamente giusto, e dovevo accettarlo.

Spoiler: non si accetta mai del tutto, in realtà. Altrimenti non sarei qui a scriverti.

Quando smisi di piangere mi rannicchiai come un bambino sul divano e lasciai che mia madre mi coprisse con il plaid a fiorellini. La nausea si ritirò a poco a poco e dopo un'altra ora di lotta mentale, la stanchezza prevalse e mi addormentai.

Il giorno dopo non andai a scuola. Mi svegliai verso le undici e mangiai un piatto di pasta in bianco insieme a mia madre, che aveva il turno pomeridiano. Non parlammo molto, ma quando, prima di uscire, mi vide preparare la borsa per l'allenamento, si fermò e sorrise.

«Sono molto fiera di te, Gioele» mormorò.

Avrei voluto risponderle qualcosa di sarcastico, del tipo "Perché salto scuola, ma almeno mi mantengo in forma?", ma non ci riuscii.

Sapevo che stavo facendo la cosa giusta per me, o almeno era ciò che in fondo sia Maglietti che mia madre avevano cercato di dirmi il giorno prima, ma quella decisione aveva il sapore di una fuga. Stavo fuggendo da Silvia, e non capivo se fossi più spaventato dall'idea di non riuscire più a tornare sui miei passi o dall'eventualità di farlo con il rischio di essere nuovamente rifiutato. Avrei voluto correre, correre e basta, senza una meta, senza uno scopo, come facevo prima che lei mi scombinasse i pensieri. Ma non potevo più farlo. Non potevo più ignorare che la meta esisteva.

Che Silvia, almeno su questo, aveva sempre avuto ragione.

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