XXIII
Il giorno seguente fu il più lungo di tutta la mia carriera da adolescente.
Il tempo cominciò a dilatarsi durante la ricreazione del terzo lunedì di marzo. Da quando Sam era morta, non trascorrevo più quei dieci minuti di libertà immaginando di correre con lei, ma correvo letteralmente da una parte all'altra della scuola per raggiungere il plesso Sud e poter stare con Silvia. Così feci anche quel giorno, ma quando arrivai davanti alla sua classe, Valentina mi disse: «Oggi non è venuta.»
Evitai di chiederle ulteriori spiegazioni, vista la tensione che era venuta a crearsi da quando Marco aveva cominciato a fare gli occhi dolci a Lavinia, e scrissi direttamente un messaggio a Vì.
Ecco: in quel momento, da quando schiacciai "invio", ogni benedetto orologio cominciò a rallentare.
Non mi ero mai reso conto di quanto il cellulare avesse distorto la mia idea di comunicazione. La strana e inconscia convinzione che l'esistenza delle app di messaggistica istantanea dovessero per forza di cose rendere la comunicazione stessa istantanea cominciò a piegarsi sotto il peso delle ore di differenza tra quella indicata accanto alle due spunte grigie del mio premuroso "Ehi, tutto bene?" e quella che cresceva ogni volta che bloccavo lo schermo dopo aver controllato per l'ennesima volta la chat.
Mi sentii come se fossi rimasto fermo davanti a uno di quei semafori rossi infiniti. Uno di quelli che durano due minuti, e anche se due minuti non sono praticamente niente in confronto alle ventiquattr'ore di una giornata, diventano insopportabili se sei in ritardo o se cominci a chiederti perché mai sei finito proprio davanti a quel semaforo e non a uno normale, e perché mai ci sei arrivato proprio appena scattato il rosso, e perché mai non finisce più.
Se avessi saltato di nuovo l'allenamento, Maglietti mi avrebbe decapitato, perciò mi costrinsi a resistere alla tentazione di andare a casa di Vì terminate le lezioni e rimasi a scuola, mangiucchiando qualche schifezza delle macchinette automatiche per pranzo e ascoltando il resoconto della noiosissima giornata di un prof lingualunga che mi aveva scelto come passatempo in attesa di una madre ansiosa abbonata ai colloqui richiesti e concessi al di fuori dell'orario scolastico per circostanze particolari (leggasi: manie di controllo genitoriali). Tutto questo, manco a dirlo, non aiutò per niente gli orologi a tornare a girare normalmente.
Quando finalmente iniziò l'allenamento, ero talmente fuori fase che riuscii a farmi battere dal rappresentante Converse di turno. Persino Lavinia mi chiese se stessi bene, il che aveva abbastanza dell'incredibile: da quando lei e Marco si erano avvicinati, mi era sembrato di non ricevere più così tante occhiate assassine, ma prima di allora non si era mai degnata di rivolgermi la parola. La sua preoccupazione era l'estremo campanello di allarme: il mio cervello stava andando completamente in pappa. La coda di pensieri fermi con me a quel maledetto semaforo rosso infinito diventava sempre più lunga, e alcuni cominciavano a spazientirsi e a farsi sentire con sonori colpi di clacson che nella mia mente si traducevano in un ginepraio di domande senza risposte:
"Perché non sei ancora corso da lei?"
"Hai paura che stia male davvero?"
"Vuoi comportarti da vigliacco e 'lasciarla in pace' per poter fingere che vada tutto bene?"
"Perché non risponde e basta?"
"Perché non ti toglie da questo impiccio scrivendoti una balla qualsiasi, del tipo che è 'indisposta per motivi fisiologici'?"
"Perché ti senti responsabile di questo silenzio?"
Quella, fra tutte, fu la domanda che mi fece letteralmente inchiodare alla pista nel bel mezzo di un giro di corsa. Rimasi imbambolato per qualche secondo, poi trovai la forza per andare a sedermi sugli spalti con la scusa di un crampo. Scusa che Maglietti, ovviamente, non si bevve.
Al termine dell'allenamento, dopo aver aspettato che tutti fossero rientrati negli spogliatoi, si sedette accanto a me. Per un po' si limitò a fissare il vuoto come stavo facendo io.
«Allora, Gioele, che succede? Non hai la faccia che mi aspettavo.»
«Che faccia si aspettava, prof?»
«La faccia di uno che ha stravinto alle provinciali e sta per gareggiare alle regionali.»
Lo guardai: indossava la stessa maglietta e lo stesso berretto di sempre, eppure sembrava diverso. Da quando avevo cominciato ad allenarmi non mi aveva mai riservato un trattamento diverso dagli altri, nonostante fossi oggettivamente il più bravo. Al contrario, mi sgridava in continuazione, e a volte il mio orgoglio si ribellava e lo mandava a quel paese. Ma in quel momento orgoglio e presunzione erano gli ultimi dei miei problemi. Avevo solo voglia di parlare e di sfogarmi, e lui mi sembrava una buona spalla.
«La corsa non c'entra, prof. Ho la testa da un'altra parte.»
«Capisco» mormorò. «Si tratta della ragazza che era con te alla gara?»
Annuii. Ero stupito che l'avesse notata, ma rimasi letteralmente di sasso quando aggiunse: «Silvia Anderson.»
«La conosce?!» esclamai.
«Di grazia, Remelli, quante classi credi che assegnino ogni anno a un professore di ginnastica? Quest'anno non seguo più il Linguistico, ma fino all'anno scorso era una mia allieva.»
Boccheggiai. Silvia non me l'aveva mai detto.
«Immagino tu conosca la sua situazione» mormorò dopo qualche istante. Annuii di nuovo, senza riuscire a dire altro.
Maglietti, probabilmente colpito da quel Gioele di così poche parole, mi appoggiò la mano sulla spalla: «Non è una cosa che si digerisce in un anno, anche se può sembrarti un sacco di tempo... Mi ha sorpreso molto vederla insieme a te, sai?»
«Perché?» chiesi.
Tu forse l'hai capito da un pezzo. Io, invece, ero in caduta libera da un pero molto, molto alto.
«Si era totalmente allontanata dalla corsa e dall'atletica in generale. Non voglio entrare nel merito della questione, non mi compete, ma come tuo allenatore vorrei che tu tenessi a mente una cosa: è la sua battaglia, non la tua. Tu hai un gran talento, Gioele, e hai la fortuna di poterlo mettere a frutto. Non devi mai sentirti in colpa per questo.»
Sono passati anni da quella chiacchierata, eppure non mi sono mai più sentito tanto scemo come in quel momento.
Non mi ero reso conto di quanto amasse l'atletica e di quanto male le avesse fatto doverla abbandonare. Tutto tornava: la sua insistenza per farmi iscrivere alla corsa campestre, il fatto che suo padre non potesse vedermi, il suo silenzio... Da quando avevo vinto la gara, si era rotto qualcosa. E io non l'avevo capito.
Scattai in piedi, facendo sobbalzare il prof: «Gioele, per qualsiasi cosa...»
«Grazie, prof» gli dissi in volata mentre correvo verso gli spogliatoi. Probabilmente corsi più veloce di Bolt nei cento metri che mi separavano dalla porta, ma una volta entrato non pensai ad altro che a prendere il cellulare, sbloccarlo, perdere un battito nel vedere che non mi aveva ancora risposto e digitare un nuovo messaggio:
Possiamo vederci?
Aspettai. Ero sudato e infreddolito, con una marea di pensieri che ormai si tamponavano a catena cercando di superare gli altri, ma non uscii dalla chat. Osservai ossessivamente lo schermo per un paio di minuti, perché sapevo – non so come, ma lo sapevo – che stavolta mi avrebbe risposto.
E alla fine di quei due lunghi minuti, infatti, Silvia lesse il messaggio. E rispose.
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