XXII
Visto che di film, tra sceneggiature, dialoghi, intrecci, noccioline, patatine e pop-corn te ne intendi sicuramente più di me, dovresti aver capito a che punto della storia sono arrivato.
Esatto: quello in cui, quando le cose sembrerebbero andare finalmente alla grande, precipitano.
E se pure la vita non è un film, capita sempre, a chiunque, in un dato momento della propria esistenza, di ritrovarsi a seguire un copione già scritto per qualche pellicola – solitamente drammatica e senza lieto fine.
La mattina dopo, comunque, io ancora non sapevo nulla di nulla sulla vita, se non che, dopo il sesso, era diventata improvvisamente più caotica.
Insomma, è inutile negarlo: il sesso non basta mai, soprattutto all'inizio. Non dico che si diventa tutti ninfomani, però un'esperienza come questa, che viene tanto rincorsa con la mente da quando gli ormoni cominciano a ballare, non è mica facile da dimenticare una volta realizzata con una persona affine e con risvolti più che soddisfacenti.
La prima persona con la quale mi confidai fu Marco. Ammetto che, in fondo, un po' di vanità maschile ce l'avevo anch'io, perciò glissai sui momenti imbarazzanti e preferii concentrarmi sulle parti divertenti, tipo il risveglio, che avvenne prima che i miei rincasassero – ovvero alle cinque del mattino: Silvia mi costrinse a guidare con la musica a palla per non farmi addormentare.
«È normale, ai maschi capita di, tipo, "spegnersi"» mi disse Marco con un sorriso complice mentre sgranocchiava dei salutari triangoli di mais non fritti davanti alla mia porzione XXL di patatine e bacon croccante. «E di avere molto appetito» aggiunse in una risata.
Sospirai imbarazzato: durante le cinque ore di lezioni ero stato letteralmente divorato dagli sbadigli e dalla fame e alla prima ricreazione mi ero fiondato nella classe di Marco per pregarlo di accompagnarmi in un fast food per pranzo; benché fosse una specie di tortura per lui, vista la dieta ferrea che seguiva, alla fine aveva accettato. Pensai che fosse doveroso da parte mia, per ricambiare i suoi sforzi, chiedergli come stesse andando con Valentina, ma prima che potessi mandar giù il boccone lui esclamò: «E le hai scritto stamattina, vero?»
Tracannai mezzo bicchiere di Coca-cola e risposi convinto: «Ovvio. Le ho dato il buongiorno.»
«E basta?»
«Certo che no! Le ho chiesto come stava.»
«E...?»
Tirai fuori il cellulare. Mi aveva risposto un "Tutto bene" con un'emoji sorridente, che io avevo effettivamente interpretato come un "Tutto bene" con un'emoji sorridente. Per Marco, invece, c'era sotto molto di più: «Innanzitutto, non ti ha girato la domanda. E poi non ha messo nemmeno un cuore.»
«Ma è proprio questo che mi piace di lei: non è tipa da smancerie» ribattei.
«Ti ha letteralmente scritto due parole dopo essere venuta a letto con te. Pure una che non è tipa da smancerie si sarebbe sbottonata un po' di più, non credi?»
Lasciai la domanda in sospeso mentre il lume della ragione tornava pian piano a schiarirmi le idee.
Non che voglia giustificarmi, ma credo che a volte si chieda tutto troppo e subito ai maschi, come se per loro fosse sempre estremamente facile seguire alla perfezione i comportamenti auspicabili in determinate circostanze. Io ero talmente scombussolato da quello che era successo che quella mattina non mi ero nemmeno messo i calzini prima di infilarmi le scarpe!
Marco mi suggerì di riprovare a scriverle con un po' più di tatto, poi se ne andò in piscina, lasciandomi solo e pieno di dubbi. Anch'io avrei dovuto presentarmi alla pista di atletica entro mezz'ora per iniziare gli allenamenti in vista delle regionali.
Invece, trenta minuti dopo mi ritrovai col fiato in gola davanti alla casa di Silvia. E quando ad aprirmi la porta fu Silvia in persona, perché i suoi erano fuori, la mia euforia balzò alle stelle, tant'è che alla domanda: «Non avevi gli allenamenti?», risposi candidamente: «Mi sono dimenticato a casa i calzini.»
Silvia sorrise e mi fece entrare. Indossava pantaloni e felpa abbinati a tema Disney e i capelli sciolti le solleticavano il viso. Nonostante non fosse esattamente un abbigliamento stuzzicante, mi eccitò da morire. A dire la verità, penso che mi sarei eccitato pure se mi avesse accolto con uno scafandro da palombaro addosso.
Mi guidò in camera sua tra un bacio e l'altro. Ci spogliammo in fretta e rimanemmo sotto le coperte a lungo. Poi, lei si girò su un fianco e io le cinsi la vita con il braccio, continuando ad accarezzarla.
Quando riaprii gli occhi, osservai la parete verso cui eravamo rivolti, illuminata dal sole morente del pomeriggio inoltrato.
A destra c'era una piccola scrivania con una pila di libri dai dorsi ordinatamente allineati in un angolo e qualche fotografia incorniciata, accanto alla scrivania c'era un armadio a due ante, e tra l'armadio e la porta svettava la cima innevata di una montagna. Il poster occupava quasi l'intera metà sinistra del muro.
«È l'Everest?» mormorai da sopra i suoi capelli. Silvia mi diede un colpetto col piede: «Sono un filo più originale di così, non credi?»
Le soffiai sulla nuca facendola ridere: «Touché. Allora... Il K2? Il Kilimangiaro? L'Annapurna? Il Cerro Torre?»
Andai avanti a elencarne un bel po', invano.
«Per essere uno a cui non piace la montagna, ne conosci parecchie» mi fermò a un certo punto.
«Sono tutte ben conservate nel cassettino della memoria della geografia di terza elementare. Ma evidentemente mi manca quella più importante.»
Lei tornò seria e, quando le richiesi che montagna fosse, mi rispose soltanto: «È una montagna. Ti basta questo.»
«Mi basta per cosa?»
Rimase in silenzio per qualche istante, poi svicolò la domanda ricominciando a baciarmi.
Ero certo che l'argomento che avevo sfiorato fosse importante. Ma ero anche un diciassettenne maschio medio, nudo nel letto della sua ragazza, e ammetto che mi lasciai distrarre con molta facilità.
Un solo pensiero di senso compiuto – ma neanche troppo – riuscì a balenarmi in mente quando arrivò il momento di andarmene, e cioè che nulla, nella sua camera, lasciava intendere che fosse malata. Non c'erano confezioni di pastiglie sul comodino, medicinali nascosti nei cassetti o strane apparecchiature per qualche terapia da usare in caso di crisi. Non che questa constatazione oltremodo superficiale contasse davvero qualcosa, ma all'epoca ne sapevo talmente poco della sclerosi multipla che mi tranquillizzò.
Lei sembrava serena. Io ero un concentrato di euforia e ottimismo.
Forse Marco si era sbagliato. Forse non c'era niente di cui preoccuparsi. Forse la malattia era soltanto una parentesi trascurabile.
Forse quella montagna era davvero soltanto una montagna.
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