XXI
La medaglia, per scaramanzia, me la portai davvero: la mia idea era nasconderla sotto la "camicia buona", ma la "camicia buona" risultò troppo trasparente, così mia madre mi consigliò di mettermi anche il "cappotto buono", quello che avevo usato a Capodanno, e ovviamente, con la camicia e il cappotto buono, vuoi che non mettessi pure le "scarpe buone"?
Alla fine, i miei genitori mi diedero l'okay e li lasciai andare al lavoro in pace, con la promessa che mi sarei comportato bene. Mia madre e la sua perspicacia avevano evidentemente annusato l'odore dei miei ormoni in subbuglio, traendone previdenti supposizioni.
Quando arrivai davanti alla casa di Silvia, comunque, l'unica cosa che avevo in subbuglio era lo stomaco. Ad aprirmi fu proprio suo padre in persona: non troppo alto, pelato, occhi azzurri e sopracciglia leggermente inclinate verso il naso. Mi presentai come un generico "Gioele", senza definirmi in altro modo, e inaspettatamente lui mi disse che potevo accomodarmi in salotto.
Panico: perché mi stava invitando a entrare? Perché Silvia non veniva a salvarmi? Ma soprattutto, perché in casa Anderson c'era così caldo?
Non appena mi sedetti sul divano cominciai a sudare, sia per la temperatura tropicale, sia per l'ansia, sia per la consapevolezza di non potermi togliere la giacca. E più pensavo a tutto questo, più grondavo.
«Gioele... Sei più grande di Silvia, giusto?» mi chiese il signor Anderson sedendosi in poltrona di fronte a me.
«Sì, ma soltanto di un anno. Finirò il liceo tra qualche mese.»
«E dopo? Hai già pensato all'Università?»
Avevo soltanto un paio di secondi per decidere se mentirgli e raccontargli la balla di Ingegneria informatica o seguire la via della sincerità, ed entrambe le risposte mi avrebbero messo a disagio. Perciò, pensai fosse meglio essere sinceri: «In realtà, no. Non sono ancora sicuro di quello che voglio fare.»
Dietro una porta in vetro smerigliato vidi muoversi un'ombra. Poteva trattarsi o di Silvia o di sua madre: chiunque fosse, la implorai di venire a salvarmi. Lui intanto continuò: «Sei uno sportivo, ho saputo.»
«Mi piace correre» mormorai, e conclusi la mia esauriente spiegazione fissandomi proprio i piedi.
«Silvia dice che sei molto bravo. Era con te alla corsa campestre di stamattina, no?»
Rialzai lo sguardo e scrutai quello del signor Anderson. Stavo morendo di imbarazzo, ma non mi sarei mai permesso di dire una sola parola sul motivo del litigio che aveva avuto con Silvia, perciò dissi semplicemente: «Sì.»
L'ombra passò di nuovo dietro alla porta, ma lui non si lasciò distrarre: «Anche Silvia faceva atletica, una volta.»
«Me l'ha detto.»
Suo padre annuì. Sapeva che sapevo, ed entrambi sapevamo che era un bene che io sapessi... Ma, nonostante fosse stato messo tutto in chiaro, nonostante le carte fossero ormai state scoperte, era come se lui non volesse guardarle. Come se le regole di quel "gioco" fossero comunque troppo complicate per fargli sperare che qualcuno potesse vincere. E ovviamente aveva ragione, perché Silvia non era un gioco, e le regole di quella situazione erano davvero complicate. Il punto è che io, in fondo, non capivo proprio cosa ci fosse di male nel provare a capirle. Ero assolutamente convinto che le mie buone intenzioni sarebbero bastate a superare qualsiasi difficoltà e a semplificare la vita della famiglia Anderson al completo, indi per cui ero bello pronto a difendermi da qualsiasi discorso il padre di Silvia avesse deciso di propinarmi.
Lo fissai dritto negli occhi, in attesa di sentire le fatidiche parole ("Ascolta, Gioele, è necessario che tu sappia eccetera eccetera"), invece lui, senza dire proprio nulla, si alzò, si scusò e sparì dietro la porta in vetro.
Rimasi solo nel salotto, leggermente incredulo, a osservare il lampadario a forma di fiore, i mobili scuri e l'immensa libreria che ricopriva quasi l'intera parete di fronte a me. Davanti ai libri erano disposte, secondo un ordine a me ignoto, diverse foto: Silvia da piccola, il matrimonio dei suoi genitori, la sua cresima, un gatto grigio, un paesaggio di montagna... Per ultima, sullo scaffale in basso a destra, c'era una ragazza sorridente che stringeva una medaglia d'oro sullo sfondo di una pista di atletica.
Mentre fissavo quella foto, Silvia comparve all'improvviso da un'altra porta, avvolta da un cappotto grigio e con una borsetta stretta in mano.
«Andiamo?» mi chiese. Io fissai la porta dietro cui scorgevo ancora i suoi genitori: «Forse dovrei salutare...»
«L'ho già fatto io per te. Andiamo» ribadì con un piede già fuori casa. La seguii incerto, sapendo che c'era qualcosa che non andava, ma troppo accaldato per riflettere. Una volta in macchina provai a indagare, ma Silvia scrollò le spalle: «Devono abituarsi.»
«Al fatto che tu esca con un ragazzo?»
«Anche. Non ho voglia di parlarne» disse tutto d'un fiato. E io, che ero ancora esaltato dalle mie ingenue buone intenzioni, pensai fosse meglio non insistere.
«Allora non ne parleremo. Hai fame?»
«Perché?»
«Ti porto a cena.»
Silvia impallidì: «Dove?»
«Avevo pensato al ristorante sul lago. Di solito è pieno, ma oggi è giovedì, non dovrebbe esserci nessuno. Comunque, ho già prenotato» aggiunsi per fare il brillante. Lei sembrò andare ancora più nel panico: «Ma è costoso.»
«Offro io. Hai detto che non volevi regali, ma una cena non si può rifiutare.»
E a questo punto, proprio quando Silvia, secondo i miei piani, avrebbe dovuto sciogliersi in un bel sorriso per la sorpresa, la conversazione inchiodò. Si chiuse a riccio e non disse più nulla per tutto il tragitto. Provai a insistere, ma non sembrava aver voglia né che mi fermassi, né che la riportassi a casa. Così continuai a guidare fino al parcheggio del ristorante.
Spensi il motore e mi girai verso di lei. Aveva lo sguardo vigile, la bocca serrata e si rigirava il cellulare tra le mani.
«Vì, ti prego, dimmi che c'è.»
Faticai a riconoscere la mia voce. Era implorante. Non sono mai stato molto religioso, ma quella era certamente la voce che mi ero sempre immaginato avessero i fedeli davanti al Muro del Pianto, alla Kaʿba o a qualche altro simbolo di inestimabile valore.
«Mi dispiace» disse dopo quasi un minuto di silenzio.
«Per cosa?»
«Perché sono un casino, Giò. Te l'ho detto.»
Anche la sua voce era implorante, ma in un modo diverso, come se stesse supplicando sé stessa di tirare fuori delle parole talmente difficili e pesanti che le bloccavano letteralmente la lingua. Le presi la mano, come avevo fatto quella mattina nella sua classe. Stavolta però era la sua pelle ad essere fredda come il ghiaccio.
«È per la cena? Non te la senti?»
Per una volta ci avevo visto giusto. Silvia abbassò la testa e poi, con estrema fatica, mi rispose: «A volte mi capita di stare male dopo cena, soprattutto se mangio in posti che non conosco e in situazioni nuove. Ed è una cosa che odio, perché odio la routine che la malattia mi ha imposto, ma non sempre riesco a controllarla.»
Ed ecco che la sua teoria del ripetere le esperienze acquistava a un tratto un senso al quale non sarei mai riuscito ad arrivare da solo, e non perché non fossi molto perspicace. Semplicemente perché io non ero malato.
Mi sentii in difetto, a disagio, e non riuscii a trovare subito una frase giusta da dirle.
«Scusami» intervenne lei. «Scusami, davvero. Sei stato così... Entriamo, dai. Possiamo mangiare comunque qualcosa.»
Stavolta non aspettai un solo secondo per ribattere: «Non scusarti. Non farlo. E non me ne frega nulla del ristorante, voglio solo che tu ti senta bene quando stai con me.»
«Ma io sto bene quando sto con te, ed è una cosa che non provavo da tanto tempo. È come se avessi trovato un'oasi dopo anni passati nel deserto.»
La baciai. Con quelle parole si era esposta più di quanto non avesse mai fatto, e io riuscivo solo a pensare che non l'avrei mai lasciata. Non mi importava se fosse giusto o sbagliato: non mi ero mai sentito così con nessun'altra persona, così "a posto", e cioè nel posto più bello che ci fosse per me in quel momento.
Le nostre labbra continuavano a cercarsi, volevano di più. Ma in qualche modo, anche se il mio corpo era decisamente contrario, riuscii a fermarmi e a riprendere coscienza del fatto che ci trovavamo in un parcheggio pubblico. Riuscii addirittura a riflettere su quanto potesse suonare frettoloso proporle di andare a casa mia, così mormorai: «Sai, tra i doveri del ragazzo ideale rientra quello dell'assicurarsi che la sua ragazza mangi. Dimmi tu un posto che conosci e ti ci porto subito.»
Silvia staccò a fatica gli occhi dai miei e trattenne un sorriso, poi lanciò uno sguardo al ristorante e alle persone che stavano cenando dietro le vetrate illuminate sul lago: «Andiamo qui.»
«Sei sicura? Non siamo obbligati.»
«Sì. Voglio provarci.»
«Sei sicura?»
Mi guardò per qualche secondo senza dire nulla, forse stranita dal mio eccesso di premura, o forse perché non era per nulla sicura. Ma alla fine disse: «Sì.»
Entrammo mano nella mano. Il cameriere ci fece accomodare a un tavolo per due vista lago, leggermente in disparte rispetto agli altri. Data la situazione, riuscii a capire che non era il caso di fare battute sulla scelta del menù e lasciai che si prendesse tutto il tempo del mondo prima di ordinare il piatto più semplice sulla lista. Anch'io, nonostante avessi una fame blu, mi limitai a un primo con patatine fritte da condividere in aggiunta, e anche se lei, alla fine, ne mangiucchiò soltanto un paio, il discorso non cadde mai sull'argomento cibo o malattia. Eravamo imbarazzati ed eccitati allo stesso tempo: due ragazzi che giocavano a fare gli adulti seduti a un tavolino coperto da una tovaglia di lino e separati da una candela accesa... Non c'era assolutamente nulla che potesse rovinare quel momento. Lei era dannatamente bella e perfetta, e per quanto mi sforzassi di ricordare a me stesso che c'era ancora quell'enorme elefante accanto a noi, il suo sorriso e la sua mano, di nuovo calda, nella mia rendevano l'impresa estremamente difficile.
La cena filò a meraviglia. Alla fine, prendemmo un dolce in due – panna cotta con frutti di bosco – ben sapendo di star facendo i Lilli&Vagabondo della serata agli occhi dei camerieri e degli altri commensali, tanto che Silvia non riuscii a trattenersi: «Chissà quante ne avrà viste, questo tavolino.»
«Di coppiette?»
Lei sorrise e annuì.
«E cosa credi che stiano pensando di noi?» le domandai. Si guardò intorno, intercettando le occhiate di un paio di coppie sulla cinquantina, intenerite dalla nostra giovane età, e quelle invadenti di un gruppo di amiche, forse invidiose, o forse semplicemente incuriosite da quella strana forza invisibile che riesce a tenere due persone incollate allo stesso tavolo a guardarsi negli occhi.
«Che siamo nella prima fase. Quella di zucchero, dove va tutto bene e i problemi non esistono.»
Fece rotolare giù dalla collina di panna un mirtillo e affondò il cucchiaio nella crema.
Era una bugia, i problemi c'erano eccome. Ma, con il supporto del contesto in cui eravamo e nel quale davvero potevamo incarnare l'ideale dei felici innamorati, il mio subconscio, o la mia porzione di cervello obliata dall'immagine del suo viso malinconico, e quindi ancora più affascinante, smise del tutto di considerarli. In fondo, l'unico vero problema sarebbe stato la mancanza di un profondo sentimento da parte di uno di noi due, ma il sentimento c'era eccome, e allora... Cos'altro importava?
«Io ti voglio così come sei. Con o senza zucchero. Con o senza problemi.»
Silvia fissò ancora per qualche secondo i mirtilli e i lamponi che aveva scartato, poi alzò lo sguardo. Non obiettò. Non mi fece osservazioni per aver utilizzato un verbo fortemente possessivo in relazione alla sua persona, né ironizzò sullo zucchero, né tantomeno accennò al suo elefante. Disse solo: «Andiamo?»
Non aspettavo altro.
...
Quando entrammo in casa, ci accolse un silenzio a cui non mi ero ancora abituato. La mancanza di Sam mi coglieva nei momenti più disparati: nel cuore della notte, durante un'interrogazione, mentre correvo... Ma non trovarla sull'uscio ad aspettarmi era sempre il momento più strano della giornata.
Quella sera, però, la cosa ancora più strana fu far oltrepassare la soglia d'ingresso a Silvia. I miei avevano entrambi il turno di notte, e lei lo sapeva, e io sapevo che lei lo sapeva e che, nonostante questo, aveva accettato il mio invito. Insomma, entrambi volevamo la stessa cosa, ma, al contrario dei film, in cui l'uomo sembra sempre avere la situazione in mano e non passano nemmeno due secondi prima che riesca a condurre la sua bella sopra il letto, io ero talmente nervoso che, nel farle fare il tour della casa, non le mostrai nemmeno la mia camera. La portai invece in cucina e le preparai una tisana alla vaniglia. Poi ci sedemmo sul divano con le nostre tazze fumanti e la TV che trasmetteva un telefilm di serie B e, come se avessimo tutto il tempo del mondo, ricominciammo a chiacchierare. Passata un'ora o due, non so se per effetto della tisana o del surrogato di Will Smith che riusciva a evitare le pallottole di venti cecchini manco fosse Neo in Matrix, le chiacchiere lasciarono spazio a sguardi sempre meno vaghi, finché riuscii a trovare il coraggio di passarle una mano dietro l'orecchio. A quel punto, sì, smettemmo di parlare.
I racconti dei ragazzi che non vedono l'ora di fare i pavoni millantano sempre quanto sia bello il momento dell'apice, del culmine, degli ansimi, dei graffi, del piacere... Ma nessuno parla mai della bellezza del tempo che precede tutto questo. Dei baci continui, come onde a volte calme, a volte burrascose, delle carezze sul collo, delle risate quando si sbaglia a sfilarsi la maglietta, della pelle nuda e calda, dei morsi sulle labbra, delle labbra sulla schiena...
Forse non riuscirei ad apprezzare la bellezza di questi momenti se non li avessi provati per la prima volta con Silvia. Ogni volta che chiudeva gli occhi o si lasciava sfuggire un sospiro, diventava sempre più limpida. Stava bene, e io non avrei fatto altro che continuare a farla stare bene. Superai indenne la fase preservativo grazie a non so quale aiuto divino, e certo non fu una passeggiata né per me, né per lei. A dirla tutta, mi ci vollero molte altre esperienze per migliorare quel momento lì. Ma alla fine, quando stanchi e straniti e felici ci sdraiammo sopra il lenzuolo accartocciato a confidarci le nostre sensazioni, non rimpiansi una sola delle gaffe che avevo fatto.
Prima di cadere nel limbo di un dormiveglia destinato a durare troppo poco, Silvia, la fronte contro il mio petto, mi disse: «Dovremmo scrivergli delle lettere.»
«A chi?»
«A Nicolas Cage.»
«Quello che ha la mimica di un sacco di patate?»
«Proprio lui.»
«E perché mai dovremmo scrivergli?»
«Perché quando hai detto che lo preferivi ad Angelina Jolie, ho capito che forse ne valeva la pena.»
«Di fare cosa?»
«Di innamorarmi.»
Nota a margine – ma non così marginale [vedere nota precedente]
C'è una cosa che condivido con il pensiero comune sull'amore: che è travolgente. Il primo amore, poi, è addirittura sconvolgente, è un vero e proprio trauma. Io mangiai a fatica per un mese dopo aver baciato Davide per la prima volta. E quando arrivò il momento del sesso, apriti cielo: un altro mese di panico e dilemmi. Nonostante questo, però, non volevo vedere il problema più serio: lui era malato e io no. Lui faticava ad uscire di casa, io desideravo farlo, condividere esperienze insieme, camminare, andare in montagna, visitare città... Ma non era possibile. Non in quel momento. E io non riuscivo a capire il perché.
Ci sono molte persone che stanno insieme, si sposano e vivono felici con qualcuno che soffre di una malattia cronica. Questo non significa che è sempre possibile. Il brutto è che non esiste una regola, se non quella, forse, del "non gli/le piaci abbastanza", che è comunque una frase difficilissima da incassare, ma pure da pronunciare. In entrambi i casi, richiede coraggio. E forse il coraggio è quello che è mancato a Davide, a me o a entrambi, perché la paura di ferire l'altro con i propri demoni era più forte.
Credo che sia arrivato il momento di tornare a farmi da parte e lasciare voce a Gioele, perché la sua storia non è ancora finita.
Ci risentiremo all'ultimo capitolo!
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