XX
La gara si svolse l'ultima settimana di marzo, nel parco di un paese distante circa trenta chilometri dalla scuola. Maglietti riuscì a ottenere un permesso di presenza per la mia classe, obbligando di fatto gli altri professori a rimandare tre interrogazioni di recupero e una verifica, con immensa gioia dei miei compagni. Silvia, invece, si fece dare uno strappo da Marco, che ovviamente invitò anche Valentina.
La loro storia era ormai sul viale del tramonto, ma Marco aveva le fette di salame sugli occhi e sembrava non accorgersene. Al contrario, da quando aveva fatto amicizia con la ragazza spilungona che correva con me (quella degli scaldamuscoli), era sempre di ottimo umore. Si erano visti soltanto un paio di volte, cioè quando lui e Valentina avevano creduto che assistere ai miei allenamenti fosse divertente, ma lei l'aveva colpito fin da subito. Anch'io, a onor del vero, l'avevo rivalutata dopo il primo allenamento. Lavinia, questo era il suo nome, non poteva soffrirmi, però le erano bastate due scarpe nuove per stracciare di netto tutte le altre ragazze ed ero certo che ormai i miei consigli, se anche fosse stata disposta ad accettarli, non le sarebbero serviti a un granché.
Una settimana prima della gara, lei e Marco erano usciti per un caffè all'insaputa di Valentina, che alla fine era venuta a saperlo lo stesso, e io e Silvia concordavamo sul fatto che mancasse anche meno di una goccia per far traboccare il vaso.
In ogni caso, a parte Lavinia, gli altri mi presero in simpatia dopo il primo vero allenamento – proprio come aveva predetto Maglietti – e io mi affezionai a un ragazzo in particolare. Si chiamava Thomas e aveva cominciato a venire agli allenamenti a partire dal secondo. Sembrava fosse capitato lì per caso: era timido, nervoso e indossava una tuta nera con cui tentava di nascondere i chili di troppo, però non si era presentato con un paio di scarpe di tela ai piedi e questo mi aveva incuriosito. Maglietti mi disse di tenerlo d'occhio: correva in maniera scoordinata, però era molto più resistente degli altri – il che, in una corsa campestre lunga circa settemila metri, non guasta. Andammo subito d'accordo e scoprii che, nonostante le apparenze, aveva più voglia di correre di tutti gli altri ragazzi messi insieme. Nel giro di un mese era riuscito a fare dei buoni miglioramenti e io e il prof nutrivamo buone speranze sull'esito della sua corsa.
Quando il pullman della squadra arrivò al campo gara ("campo" nel vero senso della parola: l'erba era così gialla da sembrare fieno) erano le nove di mattina. Lavinia avrebbe corso per prima, nella categoria dei Cadetti, poi sarebbe stato il turno degli Allievi, e di Thomas, e alla fine avrei gareggiato io insieme agli altri Juniores. Davanti al rettilineo di inizio erano stati costruiti degli spalti di fortuna. Salutai Marco e Valentina, che si erano piazzati in prima fila (più Marco che Valentina, visto che lei aveva il naso incollato allo smartphone) e raggiunsi Silvia due file più in alto, con la consapevolezza che la mia intera classe, seduta all'estremità opposta, mi stava fissando.
«Fai progressi con la tua pioggia» osservò Silvia spostando lo sguardo dai quarantaquattro occhi puntati su di noi ai miei. Io sottoscrissi la sua affermazione con un modesto: «Puoi dirlo forte» chinandomi subito dopo verso di lei per rubarle un bacio. Ví sorrise con un certo impaccio e tornò immediatamente a guardare la pista. Dal giorno del mio primo allenamento, e della mia chiacchierata con Daniele, era diventata improvvisamente docile. Lo so che è un brutto termine da associare a una persona, ma è l'unico che mi venga in mente per descrivere la Silvia di quel periodo. La ragazza che mi aveva dato uno schiaffo per "averla definita" e che mi aveva trascinato in giro per la città la prima notte dell'anno con zero gradi Celsius aveva lasciato spazio a una Silvia sorridente e pacata. Non che mi piacesse di meno, però a poco a poco mi ero reso conto che il suo comportamento era strano. Mi ricordava Sam dopo che aveva combinato qualche disastro: per qualche giorno se ne stava buona buona in un angolo e non mi svegliava alle cinque del mattino per uscire. Solo che Silvia non aveva combinato nessun disastro, che io sapessi, e in ogni caso nemmeno il mio cane resisteva per più di una settimana in quel suo stato di santità.
Pensavo a tutto questo mentre aspettavamo che cominciasse la gara dei Cadetti, e a un certo punto lei si voltò verso di me: «Io facevo atletica, una volta.»
Ci rimasi di sasso: «Non me l'avevi mai detto.»
«Lo so» sorrise. Fissava un punto indefinito all'orizzonte: «Ho iniziato in prima media, quasi per scherzo, ma poi me ne sono innamorata e i miei mi hanno iscritto a un corso agonistico.»
Si fermò, come se si fosse dimenticata il seguito della sua vita.
«E poi?»
«E poi, Giò, lo sai.»
Lo disse senza sottintendere qualche insulto alla mia scarsa delicatezza – anche se me lo sarei meritato – e io mi sentii ancora più a disagio, non sapendo cosa aggiungere. All'inizio optai per il silenzio, ma poi la rischiai: «È sicuro che comunque ti avrei stracciato nella corsa.»
Silvia nascose la testa fra le ginocchia, borbottò: «Grazie ai broccoli, Giò, tu sei un maschio!» e quando tornò a guardarmi capii che, almeno per quel momento, era tornata la Silvia sfrontata e spiritosa di quando l'avevo conosciuta, tanto che a un certo punto, tra un commento sulle discipline atletiche e l'altro, confessò di avere compiuto gli anni giusto il giorno prima.
«Perché non me l'hai detto!?» le chiesi.
«Perché nemmeno tu l'avevi detto a me.»
«Non provarci, Vì, non me la bevo. Sei troppo intelligente per imitare le cose che faccio io.»
Senza tentare di nascondere il rossore sulle guance, replicò: «Allora sono una testimone di Geova. Decidi tu.»
«Oppure non ti piacciono i compleanni.»
Silvia si appoggiò alle panche dietro di noi, in quel momento vuote, e si strinse nella giacca: «Beccata.»
Mi avvicinai per cingerle la vita con un braccio: «Sei diventata maggiorenne, dovevi dirmelo. Seriamente, ti avrei fatto almeno un regalo.»
«Tipo un docciaschiuma al muschio bianco?»
Le sorrisi: «O alla vaniglia. Voi ragazze adorate la vaniglia.»
«Non fa niente, Giò. Ho ricevuto un sacco di regali da quando mia madre ha spifferato ai miei parenti della sclerosi. Non riesco più a riceverli senza sentirmi commiserata.»
L'altoparlante annunciò che la gara dei Cadetti stava per iniziare e Silvia cambiò discorso in un lampo, senza lasciarmi il tempo di ribattere. Confesso che non ero mai stato bravo a fare regali: in cuor mio ero persino un po' felice del fatto che lei non ne volesse. Però pensare ai compleanni mi faceva tornare in mente il mio, che era stato disastroso, e mi sembrò ingiusto che anche il suo fosse saltato, pur se per motivi diversi dai miei.
Morale: ero sempre più deciso a stravincere la gara. In questo modo, avremmo potuto comunque festeggiare qualcosa insieme.
La prima a correre fu Lavinia, e arrivò quinta. Marco volò a consolarla sotto lo sguardo omicida di Valentina. Poi fu il turno di Thomas, che a sorpresa riuscì a salire sul terzo gradino del podio e a passare il turno per le regionali. Alla fine, toccò a me.
Non ero per nulla agitato. Mi sentivo anzi abbastanza ridicolo con quel pettorale appiccicato alla maglietta – ero il numero 24 – e, dopo aver raggiungo la linea di partenza, cercai nello sguardo degli altri partecipanti qualche indizio che mi confermasse che anche loro non stavano prendendo troppo sul serio quella cosa. Nessuno ricambiò il mio sorriso. Al fischio dell'arbitro partirono come schegge, lasciandomi ultimo. Le persone sugli spalti applaudirono e gridarono, e allora sentii l'adrenalina attaccarsi ai muscoli delle mie gambe per poi salire a stritolarmi lo stomaco. Ero rimasto indietro di una decina di metri quando cominciai ad ascoltare il battito delle scarpe sul terreno come se ce l'avessi sparato in cuffia a tutto volume: quella sensazione familiare mi convinse a correre per davvero. E alla fine corsi per il piacere di correre, come avevo sempre sostenuto di fare, ma soltanto dopo essere riuscito a superare gli altri. Soltanto allora, senza più nessuno davanti a me, tutti i pensieri mi abbandonarono al ritmo costante e rassicurante dei miei passi.
Tagliai il traguardo cinque minuti prima degli altri. Maglietti, in piedi a bordo pista, rimase per un attimo con le braccia incrociate e un'espressione spaesata prima di cominciare ad applaudire. La mia classe si alzò addirittura in piedi, più per fare scena che per un reale entusiasmo, mentre Marco e il resto della squadra fischiarono e gridarono a tutto spiano.
E Silvia?, ti chiederai.
Lei non c'era più. La cercai con lo sguardo, ma non appena ripresi fiato venni letteralmente accerchiato dai miei compagni, che mi tennero in ostaggio per una decina di minuti. Quando riuscii a liberarmi, Marco mi disse che l'aveva vista andare verso il parcheggio.
La trovai lì, appoggiata a un'auto, che batteva freneticamente un piede a terra.
Quando mi vide sembrò agitarsi ancora di più: «Mio padre sta venendo a prendermi» disse.
«È successo qualcosa? Stai bene?»
«Sì, sto bene, ma stamattina abbiamo litigato. Non voleva lasciarmi venire, però ormai posso firmarmi anch'io le giustifiche, così gli ho mentito e ho detto che sarei andata a scuola. Quando è tornato a casa dal lavoro non mi ha trovato, e adesso sta venendo qui.»
Mi tornò in mente l'occhiata glaciale che mi aveva rivolto la sera dell'ultimo dell'anno e intuii che, per qualche ragione, non ero il tipo di ragazzo che si augurava uscisse con sua figlia. A conferma della mia ipotesi, quando chiesi a Ví se c'era qualcosa che potessi fare, lei disse in maniera abbastanza lapidaria: «Non farti trovare qui quando arriva.»
Ci rimasi un po'. Non mi ero mai considerato un santo, ma quella situazione era decisamente esagerata e avrei tanto voluto fare l'esatto contrario, cioè rimanere accanto a lei per parlare con suo padre faccia a faccia. Ma Silvia sembrava supplicarmi con lo sguardo, così alla fine mi arresi e le dissi che l'avrei chiamata più tardi. Mi stavo già quasi dimenticando della gara quando lei mi bloccò.
«Congratulazioni.»
Sbarrai gli occhi: «Allora mi hai visto?»
«Mio padre mi ha chiamato quand'eri a un minuto dal traguardo, e avevi praticamente il vuoto cosmico dietro di te. Mi sono persa soltanto l'arrivo ufficiale.»
So che è stupido, ma mi ero immaginato che mi sarebbe saltata al collo, o una cosa del genere. C'è da dire che ero sudato fradicio e nemmeno il deodorante migliore può nulla contro una corsa di quaranta minuti al sole, però la situazione era talmente strana che pensai che il sudore non c'entrasse molto con quel momento di stallo. Stavo per dare per spacciata la mia idea di festeggiare la vittoria/compleanno quando Silvia, all'improvviso, sfidò lo sgradevole odore che emanavo per baciarmi. Ero talmente sorpreso che non riuscii a ragionare abbastanza velocemente per pensare di approfondire il bacio, ma quei pochi secondi furono sufficienti a risvegliare l'adrenalina che mi era rimasta in corpo, tanto che Vì nell'allontanarsi si lasciò sfuggire un sorriso, probabilmente per la mia espressione imbambolata.
«Adesso vai, Giò. Non vorrai perderti la premiazione.»
No, non volevo perdermela, ma non volevo nemmeno aspettare la gara successiva per poter trascorrere con lei più tempo di due misere ricreazioni o di un caffè rubato ai compiti e agli allenamenti, così, di punto in bianco, esclamai: «Passo a prenderti stasera!»
Silvia inarcò le sopracciglia e scosse la testa: «Stai scherzando? Mio padre-»
«Tuo padre mi ha visto una sola volta da una distanza di dieci metri, al buio. Porterò la mia medaglia, se necessario. Chi può dire di no al campione della corsa campestre provinciale?»
Prima che potesse ribattere, mi voltai e ricominciai a correre verso il campo gara senza provare la minima fatica. Non potevo ancora immaginare che quella serata sarebbe stata la vera sfida della giornata.
Nota a margine – ma non così marginale [vedere nota precedente]
Anche a Davide piaceva un sacco fare sport. Per quanto ne sappia gli piace ancora, ma per un lungo periodo dopo la diagnosi è stato costretto a rinunciarvi del tutto. Per lui erano le partite di calcio con gli amici, per qualcun altro sono le gare di nuoto, per altri ancora, come Silvia, le corse di atletica. In ogni caso, io, che non sono mai stata obbligata a smettere di fare qualcosa che amo, non sono riuscita a capire davvero lo sconvolgimento che stava provando Davide finché non ci siamo lasciati. Il fatto che non me ne importasse nulla che fosse malato (nel senso che non lo consideravo un ostacolo alla relazione né tantomeno all'affetto che provavo per lui) non era esattamente la miglior condizione per supportarlo. Lo credevo perché spesso molti film e molti libri fanno passare questo messaggio: l'amore vince su tutto.
Sì, forse, ma in che modo? Che significa davvero questa frase? Io l'avevo sempre intesa come una specie di slogan motivazionale, del tipo che con i "va tutto bene", i "ti voglio bene" e così via, l'amore è in grado superare qualsiasi difficoltà e non fermarsi davanti a niente.
Sbagliavo. Si è tutti liberi di pensarla in maniera diversa ma, secondo me, per affrontare una malattia in due bisogna avere una maturità tale da fermarsi eccome, in virtù di scelte e riflessioni che non hanno a che fare con l'affetto verso l'altro, ma con la propria vita.
Né io, né Davide avevamo questa maturità. Che ce l'abbiano almeno Gioele e Silvia?
Lo scopriremo presto... Al prossimo capitolo!
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