XVIII

La mattina dopo varcai la soglia della scuola con un fazzoletto incollato al naso e un mal di testa scoppiettante. La mia classe mi accolse con calorose manifestazioni di cordoglio per Sam, anche se la maggior parte dei miei compagni ne aveva sempre ignorato l'esistenza. Grazie alla scusa del raffreddore riuscii almeno a evitare la trafila di baci e abbracci, e – cosa più importante – fui risparmiato da Maglietti per la lezione di educazione fisica.

Per raggiungere la palestra bisognava uscire dal plesso Nord e attraversare il cortile all'aperto. Facendo leva sulla nascosta magnanimità del professore, gli chiesi se potessi rimanere in aula, così da non prendere freddo, e lui, come previsto, acconsentì. Nel guardarlo allontanarsi insieme ai miei compagni, provai un leggerissimo senso di colpa che durò più o meno il tempo di infilarmi la giacca e affacciarmi al corridoio. Da quel momento in poi, pensai solamente a evitare i bidelli nascosti dentro gli sgabuzzini riscaldati a forza di stufette dell'anteguerra e al fatto che, alla fin fine, mi sarebbe toccato comunque attraversare il cortile.

Una rapida corsetta e uno starnuto trattenuto, ed ero di nuovo al caldo. Plesso Sud.

La porta della 4°A Linguistico era socchiusa, ma io bussai ugualmente. Qualche secondo dopo, Silvia sbirciò da dietro il pannello di cartongesso. Per un attimo, quando i nostri sguardi si incrociarono, mi sembrò spaventata, poi però mi fece entrare con un sorriso appena accennato. Era chiaramente confusa, e lo ero anch'io, tant'è che cominciai a guardarmi intorno come se non avessi mai visto un'aula di liceo in vita mia. La sua classe, oltretutto, non aveva nemmeno una gran vista, così per rompere il silenzio non trovai niente di meglio da dire di: «Wow. Avete un bel proiettore.»

Silvia si sedette sulla cattedra e puntò il naso al soffitto, senza rispondermi. Sembravamo due perfetti idioti, fermi ai lati opposti della stanza a fissare l'apparecchio tecnologico più noioso del pianeta, e più i secondi passavano, più quella consapevolezza mi bloccava il collo impedendomi di guardarla.

Alla fine, glielo dissi rivolgendomi al proiettore: «Il mio cane è morto.»

Una volta sganciata la bomba, cercai di sgonfiare la palla da basket che mi pareva di avere incollata sotto il mento, e lentamente – molto lentamente – riuscii ad abbassare lo sguardo su di lei.

«Quand'è successo?»

«Due notti fa, proprio dopo... Ecco.»

E fu così, grazie a quella frase balbettata, che capii perché sembrasse ancora più confusa di prima. Disse: «Mi dispiace» ma la sua espressione tradiva indifferenza, più che compassione. Avrei voluto dirle che non le stavo raccontando una scusa per piantarla in asso e che avevo assolutamente bisogno di baciarla ancora, ma in quel momento mi sentivo un idiota per non averla chiamata, per non averle scritto, per essere sparito per sessantatré ore senza dirle niente, e inoltre lei sembrava sempre più arrabbiata e delusa e sconfortata...

Uscii dalla classe. Mi chiusi dentro il bagno dei maschi, tirai fuori il cellulare e la chiamai.

Mi rispose dopo sette squilli: «Giò?»

«Buongiorno. Come stai?»

«Gioele, che cavolo...»

«Volevo solo dirti che sono stato molto bene ieri sera.»

Silenzio. Mi rispose dopo una decina di secondi, con la voce un po' tirata: «Davvero?»

«Davvero.»

Dopo un altro lunghissimo silenzio, disse: «Potremmo rivederci.»

Sorrisi: «Speravo lo dicessi. Quando?»

«Tra dieci secondi può andare bene? Sempre che tu riesca a sbloccare la serratura della porta del bagno.»

«Come fai a sapere che mi sono nascosto in bagno?» le chiesi, già ben lontano dalla soglia dei gabinetti.

«È l'unico posto dove i bidelli non mettono mai piede» disse guardandomi negli occhi, il telefono ancora attaccato alla guancia, mentre io richiudevo delicatamente la porta dietro di me.

Mi sedetti accanto a lei sulla cattedra e i suoi capelli mi solleticarono il collo.

«Scusa. Mi dispiace davvero per il tuo cane» mormorò. Teneva le mani sulle cosce e continuava a lisciarsi delle pieghe invisibili sui jeans.

«Dispiace anche a me. Avrei voluto fartela conoscere.»

«Come si chiamava?»

«Sam... Cioè, Samantha.»

Silvia ragionò per qualche istante: «Come il cane di Will Smith.»

Ridacchiai: ci aveva preso. Avevo scelto quel nome dopo aver visto "Io sono leggenda" insieme ai miei compagni di merendine delle medie.

«Lui non fa una gran bella fine» aggiunse.

«Però diventa una leggenda. Si sacrifica per salvare l'umanità...»

Silvia mi diede una spallata e sbuffò: «Megalomane.»

Le presi la mano insinuando le dita tra il suo palmo e la stoffa dei jeans. Riuscivo a distinguere i tendini e le vene che le correvano dal polso alla nocca.

«Hai freddo?» mi chiese voltandosi a guardarmi. La mia mano nella sua sembrava un pezzo di ghiaccio avvolto dalle fiamme.

«Ieri ho avuto la brillante idea di andare a correre con i capelli bagnati. È stato strano, senza Sam» cercai di spiegarle, anche se dubitavo che sarebbe riuscita a capire. E infatti disse: «Correre per il piacere di correre, no? Sei stato tu a dirlo.»

«Forse quella volta ho banalizzato un po' troppo. A Capodanno non si trovano sempre le risposte giuste, no?»

Silvia rise: «Chapeau.» Subito dopo, però, tornò seria: «Dovresti tornare a casa. Hai la faccia da febbre.»

«Oh, sicuro che vado a casa. Non ho intenzione di passare le prossime due ore a disquisire della Fenomenologia dello Spirito di Hegel. Anche perché, se non mi rimetto in sesto, che cosa l'ho compilato a fare questo?»

Tirai fuori dalla tasca della giacca un foglio di carta piegato in quattro e glielo porsi. Nell'aprirlo, gli occhi di Silvia si illuminarono.

«Ti sei iscritto. Ti sei iscritto alla corsa campestre.»

Sì. Mi ero iscritto. Avevo stampato il modulo la notte prima, sotto l'effetto di un paio di Tachipirine, certo che me ne sarei pentito nel giro di una giornata. E invece nel guardarla, quella mattina, provai tutt'altro che un senso di pentimento.

«Era l'ultima occasione di far felice Maglietti. È dal primo anno che mi implora di partecipare.»

La baciai subito dopo, giusto per fugare ogni dubbio circa il vero motivo della mia decisione. Poi la porta si spalancò e il bidello ci fece una sfuriata da Oscar altamente imbarazzante, costringendomi a uscire dalla classe.

La sera, mentre ero a letto intontito dalla febbre, mi resi conto che durante il nostro incontro clandestino io e Vì avevamo ignorato ancora una volta l'elefante nella stanza. Con gli occhi che mi bruciavano e un freddo polare, presi il cellulare e le inviai un messaggio:

Oggi mi sono dimenticato di dirti una cosa

Aspettai che la doppia spunta cambiasse colore. Non riuscirò mai davvero a capire quello che prova una ragazza, ma essere stato insieme a un discreto numero di loro mi ha sicuramente insegnato qualcosa.

Numero uno: non fare mai complimenti dozzinali o di cui non sei seriamente convinto (lo scoprono sempre).

Numero due: non essere mai troppo, né troppo poco disponibile (rischi di passare per uno zerbino nel primo caso e per uno stronzo nel secondo).

Numero tre: dimostra che ti interessano, se davvero ti interessano. E non che ti interessano nel senso del loro colore preferito o della taglia di reggiseno.

Mi rispose dopo pochi minuti.

Che cosa?

Che si sta bene sotto la tua pioggia

Ed era vero. Fuggire dalla realtà, rimandare le spiegazioni, le preoccupazioni, le parole. Era bello. Ma io ero uno a cui piaceva stare "con i piedi per terra", in tutti i sensi, così aggiunsi:

Però non ho paura del sole

Avrei voluto essere meno enigmatico, ma una parte di me sapeva che lei avrebbe capito e sperava che prendesse quella frase come un invito a fidarsi di me.

Io sì. Un po'. Scoprire di avere questa malattia è stato come trascorrere tre mesi nel Sahara. Una scottatura dopo l'altra.

Pensavo che avrebbe aggiunto qualcosa, invece smise di scrivere. Mi vennero in mente le Domande Importanti, tipo "Quanto potrà durare la nostra storia se continuerà a evitare l'argomento?", o "Perché me l'ha detto? Perché ha dovuto essere sincera fino in fondo?", o ancora "Si aspetta che la pianterò in asso da un momento all'altro? Per questo è così vaga?"

Ovviamente non affrontai nessuna di quelle domande. Anzi, digitai praticamente la prima cosa stupida che riuscii a pensare:

Eri nuda? Nel Sahara intendo

Inviai. Silenzio. Era orribile non poterla vedere, non sapere se stesse ridendo o se mi stesse mandando al diavolo. Alla fine, però, rispose:

Completamente.

E subito dopo:

Ma non ti illudere che ti rigiri la domanda al presente. Non sono ancora pronta per avere una chat erotica.

Sorrisi. Erano le 00.45 e l'effetto della Tachipirina stava per prendere il sopravvento. Perciò le scrissi soltanto:

Quell' "ancora" mi fa ben sperare

Poi crollai addormentato.

Nel caso te lo stessi chiedendo, non intavolammo mai una chat erotica. Successe addirittura di più.

Ma andiamo con ordine.



Nota a margine – ma non così marginale [vedere nota precedente]

Davide è stato il mio primo grande amore. Non m'importa se questa dichiarazione risulterà smielata o esagerata: per me è così.

Ci siamo conosciuti nel 2022, io avevo 23 anni e lui 28. Lavoravo da cinque mesi per una rete museale e lui doveva svolgere delle ore di servizi socialmente utili presso le mie stesse sedi. Il colmo è che, per chissà quale coincidenza, in quei cinque mesi non ci eravamo mai incrociati, nemmeno una volta. Però una mia collega, un giorno, chiacchierando su quanto fosse bravo e benvoluto da tutti, mi aveva rivelato (anche se probabilmente non ne aveva il diritto) il reato per cui si trovava lì e che aveva scoperto di avere la sclerosi multipla circa un anno prima.

Sul reato non entrerò nei dettagli, ma ci tengo a spezzare una lancia a favore di tutte quelle persone che si ritrovano a dover scontare una pena tramite, appunto, del "lavoro di pubblica utilità": si tende spesso a pensare che queste persone siano tutti delinquenti, ma la realtà è che anche in questo caso non è giusto fare di tutta l'erba un fascio: i reati per cui sono lì sono associati all'abuso di alcool o droga e di certo alcuni di loro hanno una storia pesante e problematica alle spalle, ma la maggior parte sono persone, spesso ragazzi giovani, che conducono una vita come la mia o la vostra e sono stati semplicemente sfortunati nell'incappare in un posto di blocco dopo un bicchiere di vino in più al ristorante. Ho conosciuto, nell'arco di quasi due anni di lavoro, persone splendide, gentili e volenterose, e non parlo solo di Davide.

Mi sa che ancora una volta mi tocca rimandare al prossimo aggiornamento il resto della storia, altrimenti viene fuori un angolo autrice più lungo del capitolo.

A presto!

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