XVII

Cinque ore dopo, mia madre mi svegliò con un leggero scossone e queste parole: «Sam sta male.»

Scattai in piedi con un balzo e cercai automaticamente il mio cane nell'angolo della stanza, sul lembo di tappeto dove dormiva sempre: non c'era.

«È scesa in salotto e si è messa a piangere. Pensavamo dovesse uscire, ma non si muoveva.»

Infilai le scarpe senza cambiarmi i pantaloni del pigiama e staccai il cellulare dal caricabatterie, poi mi fiondai di sotto mentre un unico, fastidioso pensiero mi martellava la testa: perché non aveva svegliato me? Perché era sgusciata fuori dalla porta socchiusa, aveva fatto le scale nonostante il dolore ed era andata a chiamare i miei genitori?

La luce della sala era accesa. Lei era distesa su un fianco, papà le stava auscultando il torace.

«Ha l'addome molto gonfio. Bisogna portarla al pronto soccorso» disse.

Mi aiutò a caricarla sui sedili posteriori, dove mia madre le prese la testa e se la mise in grembo, cercando di calmarla.

Papà dovette rimanere a casa perché aveva un turno in ospedale, così mi toccò guidare mentre Sam guaiva e mia madre cercava di convincermi a non andare ai cento all'ora, anche se le strade erano deserte. Non le diedi retta. Quando fermai la macchina davanti al pronto soccorso animali, Sam aveva smesso di guaire e respirava a fatica.

Il veterinario di turno era un ragazzo giovanissimo al quale bastò un'occhiata rapidissima a Sam per schizzare verso l'ascensore insieme alla barella dove l'avevamo distesa, lasciandoci nelle mani della segretaria. La donna ci indirizzò verso un altro ascensore che ci scaricò allo stesso piano dov'ero rimasto ad aspettare che ricucissero la gola di Sam quando aveva avuto quel piccolo diverbio con il rottweiler. Eravamo soli e faceva un freddo polare.

Dopo i primi quindici minuti di attesa, l'adrenalina cominciò a scivolarmi via e dietro di lei si susseguirono, come in una perfetta processione di chiesa, paura, rabbia e disorientamento.

Mia mamma provò a calmarmi, un po' come aveva fatto prima con Sam. Peccato che a un essere umano non basti una carezza sulla nuca per stare buono.

«Che cosa può esserle successo? Ieri sera stava bene?»

«Sì.»

«Papà ha detto che gli sembrava stanca... Forse ha mangiato qualcosa mentre eravate fuori?»

«No, non ha mangiato nulla.»

«Forse ha preso freddo, un'indigestione...»

«Non lo so! Che cazzo ne so? Abbiamo corso, è tornata, ha mangiato e ha bevuto, e stop. Stava bene quando mi sono addormentato.»

Nell'esatto momento in cui lo dissi, però, capii che era una bugia. La sera prima non le avevo prestato la benché minima attenzione, talmente ero preso da quello che era successo con Silvia.

Mi allontanai di scatto da mia madre e cominciai a camminare avanti e indietro lungo il corridoio tappezzato di volantini contro l'abbandono. Mi tornò in mente il mio primo cane, Archie.

I miei l'avevano adottato quando avevo soltanto cinque anni. Praticamente eravamo cresciuti insieme, e anche se a scuola ero pieno di amichetti, nessuno di loro mi aveva mai reso più felice di quanto fosse riuscito a fare Archie dal giorno della Svolta: il giorno in cui avevamo cominciato a correre insieme.

All'inizio mia madre cercò di farci rimanere entro i limiti del parchetto del nostro quartiere, ma con il passare degli anni si arrese alle mie capricciose implorazioni e accettò il fatto che conoscessi di più l'odonomastica della nostra città che le regioni d'Italia.

Verso la metà della seconda media, Archie si ammalò. O forse lo era sempre stato: il veterinario non fu in grado di dirci da quanto tempo il tumore si stesse rosicchiando il suo pancreas. Però fu molto preciso nel calcolo del tempo che gli rimaneva, perché esattamente dopo cinque mesi e ventitré giorni, con un anticipo di una sola settimana rispetto alla previsione del dottore, Archie morì.

Per un intero anno mi rifiutai di correre. Poi, il giorno del mio tredicesimo compleanno, arrivò Sam. La mia prima ragazza.

Quando mi risvegliai dai miei pensieri, avevo di nuovo diciannove anni freschi e il veterinario mi stava dicendo qualcosa a proposito del suo stomaco. Una serie di frasi piene di termini medici che significavano, in poche e semplici parole, che era troppo tardi per salvarla e che l'unica cosa che potevamo fare in quel momento era addormentarla in modo che non soffrisse troppo.

Mia madre si sedette accanto a me, mi disse che le dispiaceva e che stava a me decidere.

E io, per tutta risposta, le chiesi: «Che cos'è la sclerosi multipla?»

Non so perché sentii il bisogno di saperlo proprio in quel momento. Forse volevo essere certo che Silvia non mi avesse mentito e che non stavo per perdere anche lei. È un'ipotesi egoista, ma è la più plausibile.

Mia madre, comunque, capì quasi subito di chi stessi parlando.

«La sclerosi multipla è una malattia autoimmune neurodegenerativa. Non se ne conoscono le cause, ma colpisce maggiormente le donne e solitamente viene diagnosticata tra i venti e i quaranta anni» mi disse con quel misto di imparzialità e dolcezza che contraddistingue le infermiere che sanno fare il proprio lavoro.

«Esiste una cura?»

«Esistono tante terapie che possono rallentare il suo andamento, ma non esistono cure definitive.»

«E cosa comporta? Quali sono i sintomi?»

«I sintomi sono tanti, ma esistono anche diversi stadi e diverse forme della malattia. Dovresti chiederle qual è la sua diagnosi per capire meglio come sta.»

Annuii e rimasi in silenzio per un po'. Lei mi cinse le spalle con un braccio, senza aggiungere altro, fino a che il veterinario non tornò a chiederci cosa avessimo deciso.

Gli dissi che volevo vederla. Non che non mi fidassi del parere di un neolaureato spedito a coprire i turni notturni di un pronto soccorso animali, ma dovevo guardarla con i miei occhi un'ultima volta prima di dare il mio consenso.

Entrai nella stanza. Lei era sdraiata, immobile, una flebo nella zampa e gli occhi chiusi. La accarezzai, ma era come toccare un peluche. L'anestetico, i tranquillanti o qualsiasi altra cosa le avessero dato se l'erano già portata via.

«Perché non hai svegliato me?» fu l'ultima cosa che le sussurrai.

Quella domanda mi perseguitò per tutta la giornata. Annullai la pizzata, rifiutai le chiamate di Fra e di Andre, ignorai tutti i messaggi di auguri e mi chiusi in camera fingendo di studiare per la verifica di latino del giorno dopo.

Peccato che il giorno dopo non entrai nemmeno a scuola. Uscii di casa con lo zaino e il dizionario e girovagai per un po'. Poi, quando non provai più alcun sollievo nel passarmi quel mattone imbottito di bigliettini da un braccio all'altro, raggiunsi il parco e mi sedetti su una delle panchine gelate, per "schiarirmi le idee".

Fu un disastro. Se pensavo a Sam cominciavo a piangere, ma se piangevo per Sam mi sentivo in dovere di smettere perché il pensiero della malattia di Silvia, a confronto con la morte di un cane, mi pareva dovesse avere più importanza. Allora pensavo a Silvia, ma nel giro di un secondo mi tornava in mente Sam, e via così.

Nemmeno il buon cibo spazzatura di un fast food riuscì a farmi uscire da quel circolo vizioso. Alla fine, capii che avevo bisogno di parlare con qualcuno, e la prima persona che mi venne in mente fu Marco.

Arrivai davanti casa sua dopo una lunghissima camminata: la sua sorpresa nel vedermi fu più o meno pari alla mia felicità nel lasciar cadere sul tavolo della sua cucina il dizionario.

Gli chiesi dove fossero i suoi: «Al lavoro» rispose. La mia reazione fu immediata, sconsiderata e melodrammatica: «Sam è morta e Silvia ha la sclerosi multipla.»

Non mi ero nemmeno tolto la giacca.

Marco mi guardò allibito e rimase in silenzio per qualche secondo. Poi disse: «Cazzo, Giò, siediti, hai una faccia da schifo.» E lo so che sembra tanto una frase che potrebbero scambiarsi due adolescenti qualsiasi in una qualsiasi mattina di un qualsiasi giorno di scuola, eppure per poco non mi fiondai ad abbracciarlo. È in quel momento che capii che forse avevo trovato il mio primo, vero amico.

Poi, a onor del vero, mi resi pure conto che a primo impatto la mia situazione doveva essergli sembrata peggio di quanto non fosse, visto che, con la sua tipica schiettezza, una volta seduti sul divano mi confessò che non aveva idea di chi fosse Sam e che aveva scambiato la malattia di Silvia per una qualche forma di tumore incurabile; comunque, quando gli rivelai che Sam non era una persona e che la sclerosi multipla non era fatale – per quanto ne sapessi – non sembrò meno dispiaciuto, né cercò di fare qualche battuta per tirarmi su il morale. Mi chiese invece di mostrargli una foto di Sam e mi raccontò che anche lui da piccolo aveva perso un cane. E poi cercò la sclerosi multipla su Wikipedia mentre credeva che io fossi troppo impegnato a guardare il meteo che passava in TV per accorgermene.

Dopo qualche minuto, mi chiese se avessi voglia di fare qualcosa. «Correre» risposi in automatico, poi scrollai le spalle: «Ma senza Sam non ha più senso.»

«E Silvia? Le hai parlato?»

Scossi la testa. In quel momento non riuscivo a capire se e quanto fosse grave il fatto che non ci fossimo più sentiti dopo il nostro bacio, perciò preferii non approfondire la questione. Marco, comunque, non insistette. Al contrario, cambiò improvvisamente tono di voce e disse: «Ti va di venire in piscina con me?»

Lì per lì pensai che stesse scherzando, invece, senza nemmeno aspettare la mia risposta, sparì in camera sua. Quando tornò, aveva la sua solita borsa di nuoto in una mano e un fagotto di costumi, cuffie e occhialini nell'altra.

Ora, se mi piace correre un motivo c'è, ed è che amo sentire il peso del mio corpo che incontra e abbandona il terreno seguendo un ritmo netto e concreto, una musica che crea dipendenza, come quando esce la nuova canzone del tuo cantante preferito e per una settimana non fai altro che ascoltarla in loop. La grande differenza è che la dipendenza da corsa non dura una settimana.

La prospettiva di dovermi immergere in una vasca di acqua fredda e clorata e sguazzare avanti indietro per un'ora non mi affascinava un granché, però ero talmente giù di corda che alla fine infilai il mio fagotto di fortuna nello zaino e seguii Marco nella sua auto.

Mezz'ora dopo stavo uscendo dallo spogliatoio maschile strizzato in un vecchio paio di boxer da nuoto. Marco era già a bordo vasca insieme alla sua squadra e quando mi vide sollevò un pollice verso di me, a mo' di incoraggiamento.

I primi cinque minuti in acqua furono un inferno nel senso meno letterale del termine. Ero certo che ne sarei uscito con un paio di dita congelate, per non dire altro, e mi sentivo veramente a pezzi. Pezzi di legno marcio che cercavano in qualche modo di rimanere a galla. Mi fermai a metà corsia aggrappandomi ai galleggianti.

Il rumore era assordante e rimbombava contro le pareti di quella scatola di cemento gonfiata di aria umida. Dovunque mi voltassi vedevo braccia e gambe che infrangevano la superficie dell'acqua generando un disegno caotico di schizzi e spruzzi. Sembrava che stessero piovendo croste di intonaco dal soffitto, proprio come ci aveva raccontato Marco alla sala da the, dopo che l'arrivo delle tisane allo zenzero aveva salvato tutti dall'imbarazzo della conversazione su Londra. Il racconto della pioggia di intonaco mi fece venire in mente la pioggia di Piombino, e quindi Silvia, e quindi ancora Sam, e alla fine i pensieri mi invasero la testa.

Ripresi a chiedermi perché Sam non mi avesse svegliato per chiedermi aiuto. I cani lo fanno, mi ripetevo, ci sono una dozzina di film tratti da storie realmente accadute che lo testimoniano, e sarei stato pronto a scommettere che nessuno di quegli "eroi a quattro zampe" fosse più intelligente di Sam.

Continuai a pensarci, ancora e ancora, finché, dopo altre sette vasche di agonia, capii.

Sam non era affatto stupida. Aveva semplicemente capito che era finita. Che non c'era più niente da fare.

Nuotai verso la scaletta e uscii dall'acqua. Mancava ancora mezz'ora prima che scadesse il mio biglietto, ma più mi fissavo i piedi nudi incastrati sotto le fascette degli infradito, più desideravo infilarmi le mie scarpe da corsa per risentire il ritmo dei miei passi sull'asfalto. Dovevo farlo, e non tanto perché l'avessi promesso a Silvia. Dovevo farlo perché Silvia me l'aveva chiesto. Lei si era esposta. Mi aveva svegliato.

Lasciai un messaggio a Marco e affidai le cose che mi aveva prestato alla ragazza seduta dietro il bancone della segreteria, poi uscii. Il vento gelido mi sollevò i capelli umidi e l'immagine di me sdraiato a letto con una bronchite acuta mi balenò in mente. Ma non mi importava.

Mi allacciai la giacca arancione, tirai al limite le stringhe delle scarpe ed espirai tutta l'aria che avevo nei polmoni. Quando cominciai a correre, mi resi conto che era la prima volta che non avevo un cane al mio fianco, e mi sentii incredibilmente solo.



Nota a margine – ma non così marginale [vedere nota precedente]

Ho scritto questo capitolo anni fa, eppure, per un crudele gioco del destino, anch'io come Gioele ho perso qualche giorno fa la mia cagnolina. Da un lato, però, credo sia un segno: questo è proprio il momento giusto per me per lasciare andare piano piano questa storia. Perché è così che funziona: qualsiasi storia, una volta che diventa pubblica, smette di essere soltanto tua, anche se non la legge nessuno. Ed è giusto così.

Tornando al capitolo, la realtà combacia con questo capitolo anche sotto un altro aspetto: dopo aver scelto che la sclerosi multipla sarebbe stata il terzo personaggio principale, mi bloccai. Ellipsis finì di nuovo nel dimenticatoio e la mia vita andò avanti finché non arrivò qualcuno a svegliarmi.

Quel qualcuno si chiama Davide.

Parafrasando le parole di Gioele, anche se forse la vostra attenzione si è ridestata nel leggere il nome di colui a cui ho dedicato questa storia, devo trovare il modo di riordinare le idee per parlarvene al meglio. Perciò, ci vediamo al prossimo capitolo.

Grazie!

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