XV

Rientrammo in classe di giovedì. I professori, come regalo di bentornato, ci dissero che ormai la maturità era dietro l'angolo, che adesso bisognava davvero studiare, che non ci avrebbero tolto il fiato dal collo fino a luglio e altre cose carine. Comunque, io li ascoltai soltanto per metà: ero troppo impaziente che arrivasse la ricreazione per andare nel plesso del Linguistico.

Come avevo previsto, il miracolo si era compiuto e l'intera classe sapeva che mi stavo vedendo "con una-ragazza-che-è-forse-quella-Silvia-del-Linguistico": la parafrasi ipotetica si trasformò in certezza quando al suono della campanella Eleonora, prima che riuscissi anche solo ad alzarmi dalla sedia, si appoggiò al mio banco e mi chiese con fintissimo disinteresse: «Ma la tua ragazza del mistero è quella-Silvia-del-Linguistico?»

Risposi di sì soltanto per non perdere altro tempo e mi fiondai fuori dall'aula.

Cinque minuti dopo ero davanti alla cattedra della bidella a osservare sottecchi Marco e Valentina che si scambiavano limoni come fosse piena estate. Silvia mi sorprese proprio nel bel mezzo della mia contemplazione: «Alla fine il tuo piano ha funzionato davvero.»

Non era per nulla imbarazzata. Aveva i capelli raccolti in una coda alta e morbida e portava una salopette di jeans sopra un maglioncino a righe colorate. Sembrava che quella mattina avesse deciso di indossare il suo umore: era allegra come non l'avevo mai vista prima.

«Così pare. Come stai?»

«Benone. E ho di nuovo questo.» Sventolò il cellulare come se fosse una tavoletta di cioccolata. Non mi stupii di notare che lo schermo fosse tutta una crepa.

«Dunque sono già finito sulla lista nera dei tuoi genitori?»

«Tutto il contrario. Gli ho detto che se non fosse stato per te sarei rimasta a gironzolare in città fino all'alba. Sei decisamente sulla lista bianca.»

«Mi stai dicendo che hai sacrificato una settimana di cellulare per salvarmi la faccia?»

«"Sacrificato" è un parolone. È stata la punizione meno punitiva del mondo, per me. I miei non sanno fare i cattivi.»

Sorrisi: i nostri genitori erano più simili di quanto immaginassi. Però il fatto che negasse di essere una smartphone dipendente non mi andò giù: «Non voglio credere che tu sia una di quelli.»

«Una di quelli chi?»

«Quelli che dicono di odiare i cellulari e le loro diavolerie. Lo posso capire da uno come mio padre, ma non da una diciassettenne che vive in una società come la nostra.»

Fino a quel momento eravamo rimasti a parlare nel bel mezzo del corridoio, ma a quel punto lei cominciò a camminare.

«Mi sembrava di averti già detto che non mi piacciono i giudizi non richiesti.»

«Ah, sì, ricordo lo schiaffo.»

«Bene» rispose candidamente. «Comunque, io non odio né i cellulari né i social. Semplicemente non sono sicura che usarli sia l'idea del secolo. Perciò li uso, ma se per un po' non posso farlo, pace e amen.»

Eravamo arrivati all'ultima aula. Più in là c'era una porta che si apriva sulla scala antincendio. Silvia la spinse come se nulla fosse e l'unico suono che si propagò per l'edificio fu quello della campanella che segnava la fine della ricreazione.

Lasciammo il rumore alle spalle e ci appoggiammo alla ringhiera in modo da non essere visti da dentro. Il giardino posteriore della scuola era completamente lasciato a sé stesso. Se per assurdo fosse davvero scoppiato un incendio, tutta quella sterpaglia avrebbe preso fuoco in un battito di ciglia.

«Sai, non è che ci si perda poi chissà che, a non "scrollare" per qualche giorno» mormorò.

«Però c'è il rischio di isolarsi dal resto del mondo.»

«Esistono ancora i telefoni fissi. E le visite di persona.»

Mi lanciò un'occhiata simile a quella che mi aveva rivolto la prima volta che ci eravamo parlati, quando avevamo inaugurato il discorso delle nostre "piogge". Percepii un leggerissimo calore affluirmi alle guance, ma avevo talmente freddo che non mi preoccupai di nasconderlo. Così mi tornò in mente la chiacchierata che avevo fatto con Fra e Andre il giorno prima.

«Silvia...»

Mi bloccai. Non avevo idea di come affrontare l'argomento in maniera delicata, senza contare che ero abbastanza spaventato da quello che avrei scoperto. Così alla fine glielo chiesi e basta: «Perché non fai educazione fisica?»

Cominciò a nevicare - anzi, a "nevischiare", ma quasi non me ne accorsi. Lei si stava fissando i piedi. Sembrava combattuta.

«Stavo cominciando a credere che non me l'avresti mai chiesto» disse con un lieve sorriso.

«Se non vuoi parlarmene, va bene. Insomma, non voglio obbligarti.»

Lo ammetto: pronunciai quelle frasi con l'arrogante convinzione che l'avrebbero spinta a fare l'esatto opposto del negarmi una risposta.

E invece lei disse: «Beh, è così. Non mi piace parlarne.»

Provai a farmi andar bene le sue parole, a inghiottire la curiosità.

Sarebbe stato tremendamente egoista voler sapere a tutti i costi se mi stavo innamorando di una malata terminale. Sarebbe stato come mettersi a cercare la data di scadenza di un prodotto del supermercato per decidere se comprarlo o meno. Era quanto di più brutto potessi domandarle... Eppure, indovina? Glielo chiesi lo stesso.

«È tanto grave?»

La sua risata fu il suono più bello che potessi sentire: «Non sto per morire, se è questo che intendevi.»

«Oh, no, veramente intendevo se avessi qualcosa di contagioso.»

Mi diede una spinta praticamente nulla con la spalla: «Che scemo. E comunque, no.»

«È imbarazzante?»

«No.»

«Hai per caso l'asma?»

A quel punto si appoggiò con il fianco alla ringhiera e mi guardò tutta seria: «Giò, se continui a insistere finirà che te lo dico, e non voglio.»

Io veramente non mi ero nemmeno accorto di aver cominciato a insistere, però capii che diceva la verità. Quella era l'unica certezza su cui potevo contare.

Il nevischio si era ridotto a una leggera pioggerellina ghiacciata. Di lì a un'ora sarei entrato in palestra per giocare l'ennesima partita di pallavolo contro la sua classe, e lei non ci sarebbe stata.

Come se mi avesse letto nel pensiero, disse: «I miei compagni non sanno nulla, e il nostro professore di ginnastica ha la bocca cucita.»

«Nemmeno Valentina e Francesca?»

«Bocca cucita anche loro.»

Stavo per parlare di nuovo, ma poi mi ricordai che i miei genitori lavoravano nel più grande ospedale della regione e che lei non lo sapeva, e quella subdola ed egoista parte di me che esigeva di avere una risposta si zittì all'improvviso.

Non ero sicuro che fosse la cosa giusta da fare, né che sarei riuscito a trovare il coraggio per affrontare l'argomento con i miei, ma sapevo di avere una possibilità per scoprire il segreto di Silvia e tanto bastava.

«Forse è ora di tornare dentro» mormorai come se nulla fosse, cacciando le mani congelate nelle tasche. Silvia sospirò contrariata, poi mi seguii nel corridoio dove un bidello ci strigliò per bene e riaccompagnò Silvia fin dentro la sua classe, senza lasciarmi il tempo di salutarla.

Prima che il simpatico inserviente ritraesse la testa dallo spiraglio della porta, me l'ero già svignata.

Anch'io avrei ricevuto l'ennesimo richiamo dal professore di scienze - il tizio con il doppio mento - ma esattamente come l'ultima volta in cui mi aveva sgridato perché mi ero attardato a combinare l'uscita di Capodanno con Silvia, anche in quel momento non mi preoccupai per nulla di quello che mi avrebbe detto. Volevo solo tornare a casa e pensare alla frase giusta da dire ai miei per ottenere quello che volevo.


...


Gli orari lavorativi dei miei genitori cambiavano spesso, tanto che la maggior parte delle volte in cui tornavo a casa non avevo idea se avrei trovato qualche essere umano ad aspettarmi o soltanto Sam.

Quel giorno, per mera fortuna, trovai mia madre intenta a salare l'acqua per la pasta.

«Potresti farmi un favore?»

Mamma diede uno schiaffetto alla mia mano sospesa sopra la pentola di ragù: «Non è ancora pronto. Che tipo di favore?»

«Un favore medico.»

Mi lanciò uno sguardo preoccupato e io mi affrettai a rassicurarla: «Non sto male, tranquilla.»

Cambiò espressione: «Hai messo nei guai quella ragazza?»

Mia madre credeva che io avessi già fatto sesso, viste tutte le ragazze di cui le avevo accennato nel corso degli anni. Evidentemente aveva sempre interpretato il fatto che non fossi mai sceso con lei nei dettagli dei miei racconti come una sorta di pudicizia adolescenziale, senza pensare che forse non ero mai sceso nei dettagli perché non erano mai esistiti dettagli da approfondire.

Dal canto mio, non mi ero mai preso la briga di dirle la verità perché in fondo non ne avevamo mai davvero parlato apertamente e, benché fossi in ottimi rapporti sia con lei che con mio padre, una sorta di pudicizia adolescenziale ce l'avevo davvero.

«Innanzitutto, non stiamo insieme, come ti ho già detto. E comunque no, non stai per diventare nonna.»

«È un sollievo. Sarei decisamente troppo giovane.»

«Però il favore riguarda lei.»

Le spiegai la faccenda dell'esonero e la chiacchierata che avevamo avuto a ricreazione: «Il suo nome completo è Silvia Anderson. Tu conosci tutte le infermiere dell'ospedale, non dovrebbe essere un problema scoprire se è una paziente di qualche reparto, giusto?»

Mentre parlavo, lei rimase girata verso i fornelli per mescolare la pasta. Quando finii, si voltò con un'espressione che conoscevo fin troppo bene: quella del rifiuto.

«Tesoro, non posso farlo. Tralasciando il discorso della privacy-»

«Ma non voglio rubarle la cartella clinica! Voglio soltanto sapere se sta male.»

«È proprio questo il punto. Lei non vuole fartelo sapere. Non ti ha detto proprio questo?»

Mi alzai dalla sedia e tornai davanti alla pentola del sugo: «Ma non glielo dirò. Insomma, se scopro che ha davvero l'asma, chissenefrega. Ma se scopro che invece ha qualcosa di grave...»

Mamma mi interruppe dolcemente, nel modo in cui solo lei riusciva a fare: «Gioele, non era proprio lei quella ragazza che diceva sempre la verità?»

«Sì.»

«E non ti ha detto che non ha nulla di grave?»

«Sì, ma-»

«Ci sono tantissimi motivi per cui viene concesso un esonero, più di quanti immagini. Se lei non te ne vuole parlare, sono sicura che non lo fa per nasconderti qualcosa. Magari non se la sente, non ancora.»

Mi arrabbiai. Non so perché, a volte a diciotto anni uno si arrabbia e basta, anche quando è consapevole di avere torto. Soprattutto quando è consapevole di avere torto.

Saltai il pranzo e rimasi in camera mia insieme a Sam per tutto il pomeriggio. Non uscii nemmeno a correre, e dato che prima di quel giorno le uniche volte in cui non ero uscito a correre avevo la febbre a 40 o le placche in gola o l'appendicite, la sera mia madre ruppe senza troppe smancerie il mio muro di silenzio e venne a sedersi sul mio letto. Io ero infagottato nelle coperte con il cellulare a un palmo dal naso, troppo occupato a creare file e colonne di caramelle virtuali per pensare a qualsiasi altra cosa. Avevo odiato quel gioco dal momento in cui l'avevo cominciato, ciò nonostante ci ero rimasto incollato per quasi quattro ore di fila, come un automa rimbecillito.

Quando mia madre mi costrinse a guardarla, la fissai scocciato, ma dentro di me ringraziai tutti i santi del paradiso per averla fatta venire.

Parlammo poco, non ricordo di cosa. Prima di andarsene, però, disse: «Quando ti dirà che cos'ha, ti dirà anche perché ha aspettato a parlartene.»

«E quindi?»

«E quindi, aspetta. Lascia che affronti la sua paura con i suoi tempi, e magari aiutala.»

Quella notte dormii male. Sognai di baciarla mentre era di spalle, sul collo, con una delicatezza celestiale, tenendole i capelli da un lato: eravamo sul molo, proprio sul bordo, e quando si girava per offrirmi le labbra cadeva nell'acqua, e io mi tuffavo per cercarla... ma non la trovavo.

La mattina dopo, prima di colazione, corsi con Sam per quasi un'ora senza mai fermarmi.

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