XII
La festa, come previsto, fu un fiasco totale. Dopo due ore dal nostro arrivo era chiaro a tutti che il novanta percento dei ragazzi stava aspettando trepidante la mezzanotte non tanto per farsi gli auguri, quanto per darsela a gambe. Nessuno se l'era ancora filata soltanto perché erano previsti i fuochi d'artificio e, diciamolo ora e per sempre: chiunque ama i fuochi d'artificio, anche gli ecologisti più ferrati.
La cosa più eccitante che ci fosse successa in quelle tre ore era stata assistere alla pietosa uscita di scena di quattro ragazzini di terza media che avevano ricevuto il ben servito dai due gorilla piazzati all'ingresso del giardino – pardon, del parco. Elisa, evidentemente, soffriva davvero di una leggera mania di controllo e non erano bastati né un cancello alto cinque metri, né le aquile avvinghiate alle sue colonne di sostegno a soddisfarla.
Gli ingenui imbucati dovevano aver pensato che, una volta varcata la soglia proibita insieme a qualche avente invito, avrebbero avuto libero accesso a fiumi di alcool, tornei di beer pong, musica spazzatura e gloria eterna.
Sulla gloria eterna non potevo sbilanciarmi – se non altro perché ognuno valuta il concetto secondo i propri parametri sociali – ma per tutto il resto, quei pivelli non si erano persi un granché.
L'alcool era evaporato nel giro di un'ora e uno sputo, a eccezione dello champagne (riservato però allo scoccare della mezzanotte) e di una dozzina di casse di birra di qualità, come previsto, scadente; una buona metà era stata effettivamente utilizzata per il beer pong, che si era però concluso in tragedia al settimo lancio, e cioè quando la pallina aveva centrato un vaso lasciato stranamente incustodito che era caduto a terra rompendosi in mille pezzi. A quel punto Elisa e un paio di sue "assistenti" avevano confinato tutti nel grande salone al piano terra dov'era stato allestito un palco per la musica dal vivo. Ecco la ciliegina sulla torta: i musicisti della band ingaggiata per la serata non steccarono nemmeno una volta, dal momento in cui l'erede di Buddy Rich toccò la batteria fino a quando il figlio segreto di Jim Morrison staccò le labbra dal microfono.
Erano bravi: una cosa veramente inammissibile a una festa.
Se solo il nostro piano fosse fallito, avrei almeno potuto sperare in una scenata di gelosia da parte di Elisa con conseguente esilio a immediata attuazione insieme a Silvia.
E invece il piano funzionò alla grande.
Silvia cedette più che volentieri il posto come specchietto per le allodole alle sue care amiche, ignare di tutto (la mia dignità si rifiutò di ripetere la storia anche a loro: lasciai il compito a Marco, ma non ho mai saputo se si prese la briga di farlo), e Marco si calò talmente bene nella parte che a un certo punto sparì dai radar insieme a Valentina, o Francesca, e con lui se ne andò anche la sua macchina. Non ci lasciò lì, sia chiaro, alla fine riuscimmo a ritrovarci... Ma scommetto che a te non interessa sapere come tornammo a casa. Preferiresti piuttosto scoprire quale fu il momento in cui ruppi la promessa fatta alla madre di Silvia per seguire sua figlia in una delle sue famose follie e, soprattutto, quale fu questa follia... Un bagno fuori programma nella piscina al coperto della villa di Rivombrosa? O una fuga alla Indiana Jones verso un poetico pezzo di città bagnato dalla luce della luna? O, meglio ancora, una bravata illegale con conseguente notte in cella?
Forse rimarrai deluso dalla verità, ma, in fondo, che altro posso scrivere?
Io e Silvia rimanemmo a lungo a debita distanza per dissipare gli ultimi sospetti di Elisa. Soltanto quando la padrona di casa si decise a cedere alle lusinghe di un tizio che a forza di starle vicino aveva cominciato a profumare quanto lei, soltanto allora, circa dieci minuti prima della mezzanotte, smisi di vagabondare da una stanza all'altra e mi piazzai contro la colonna d'ingresso per individuare quei capelli mossi e quel maglioncino rosso. Fu una ricerca velocissima: in mezzo a un oceano di paillettes ondeggianti e a un paio di metri dalle casse che sparavano dei bassi da far tremare il pavimento, se ne stava tranquilla ad ascoltare una ragazza che le gridava chissà cosa. Da come sorrideva, credetti si trattasse di qualche divertentissima battuta. E non era nemmeno il primo sorriso che le vedevo sfoggiare.
L'avevo osservata di sottecchi almeno una ventina di volte durante il mio colloquiare stereotipato con ragazzi mezzi brilli, e non l'avevo mai vista dondolarsi sui talloni o ridere per finta, né tantomeno ricambiare uno e uno solo dei miei sguardi. All'inizio ero felice che si stesse divertendo, ma dopo un po' avevo cominciato a percepire una strana sensazione. Ogni volta che la guardavo era come se una persona si aggrappasse alle mie spalle prima di lasciarsi cadere per terra a peso morto, e se hai provato almeno una volta il gravoso compito di sorreggere un peso morto (leggasi: un ubriaco marcio), allora puoi capire come mi sentissi.
Mentre ero lì appoggiato al muro a rimuginare, finalmente mi guardò.
Le andai incontro per primo, prevedendo che lei non l'avrebbe fatto, e cercai di, come dire, raddrizzare la schiena. Una volta dentro il raggio sfracella-timpani della cassa, salutai la ragazza che aveva accanto, una tipa piuttosto bassa (anche se il suo ridicolo chignon le regalava quasi dieci centimetri di altezza) che travisò completamente il mio gesto di elementare cortesia e indirizzò le sue grida verso di me.
Fu così che mi resi conto di non capire un accidente di quello che diceva. Nello stesso momento, quel peso morto di cui sopra si abbarbicò completamente a me e cominciai a domandarmi perché Silvia non le avesse detto che non capiva un accidente invece di farle credere che si stava gustando di tutto cuore le sue incontenibili frasi di chissà quale spessore, e perché fosse così felice, e perché io non lo ero per nulla.
Con una smorfia di scusa gesticolai un "non sento un cazzo" verso la tipa e mi allontanai dirigendomi di nuovo verso l'ingresso, senza badare che Silvia mi seguisse.
Il nervosismo accumulato in due ore di attesa e chiacchiere futili era scoppiato, e quando mi accorsi che Silvia mi stava raggiungendo guardando dappertutto eccetto che verso di me, al nervosismo si aggiunse una generosa dose di frustrazione.
In quel momento sarei stato più che pronto a compiere io stesso una follia. Sarei uscito da quella villa, avrei rubato una macchina, guidato fino al porto, scambiato la macchina con una barca e levato l'ancora verso rotte ignote, anche se soffrivo da matti il mal di mare. Avrei fatto di tutto pur di non sentire un minuto di più quella musica perfetta, quel peso morto sullo stomaco e quella strana, viscida lingua di paura solleticarmi la nuca.
Mi chiesi perché diavolo non avessi detto di sì a Fra e Andre. A quell'ora sarei stato in mezzo a una marea di ragazze con un ridicolo accessorio lampeggiante in testa e il London Eye sullo sfondo. E invece ero lì a fissare un soffitto a cassettoni mentre l'unica ragazza che mi interessasse guardare finalmente mi sorrideva dicendo: «Direi che è ora di cambiare vista.»
Non le risposi. Un fatto insolito per uno come me, così insolito che lei rimase a fissarmi per qualche secondo nello stesso modo in cui si guarda un boomerang dopo averlo lanciato, in attesa di riacciuffarlo.
Quando però si rese conto che il boomerang in questione non sarebbe tornato indietro, la sua espressione vacillò, spaesata.
Poi, come se l'universo avesse captato la mia tentazione di cedere al suo sguardo e dimenticarmi del nervosismo, della paura e di tutto il resto, qualcuno gridò che mancavano tre minuti alla mezzanotte: la marea di ragazzi venne dritta verso di noi e ci schiacciò contro la colonna di marmo, cercando di sfidare la legge dell'imbuto per uscire tutta insieme dalla casa e potersi assicurare la miglior zolla d'erba da cui ammirare i fuochi – magari quella accanto ai funghi riscaldanti che il catering aveva preventivamente acceso.
Nella confusione venni trascinato fuori: ci rimasi giusto il tempo di un profondo respiro e di una scarica di brividi, poi rientrai.
Silvia era sparita. Mi guardai attorno, ma incrociai soltanto gli sguardi di qualche timido gruppetto di pulcini imberbi o in lacrime, allora circumnavigai il palco e chiesi al pronipote di Jimi Hendrix se l'avesse vista, invano, quindi mi spinsi nella zona del mangia e bevi rischiando di interrompere un limone appassionato, infine agguantai il mio cappotto e uscii di nuovo. In quel momento il cielo esplose nel primo cerchio dorato e il botto a seguire fu accompagnato dallo scoppio di auguri, grida, pianti e risate. Mentre vagavo nel giardino m'imbattei in un cameriere che mi offrì un calice di champagne, in una mia ex che mi abbracciò con un entusiasmo che non aveva dimostrato nemmeno quando le avevo regalato quel cavolo di charm a forma di pesce di cui blaterava in continuazione, in qualche mio compagno di classe e in una sconosciuta che mi scoccò due baci sulla stessa guancia. Ma lei non c'era.
A mezzanotte e dieci, quando metà della gente aveva ormai cominciato a puntare il cancello con le aquile, una delle due amiche di Silvia mi toccò il braccio.
«Ehi, auguri! Ma che ci fai qui?»
«Ehm... Auguri. Che intendi?»
La bionda sorrise e mi toccò di nuovo il braccio: «Dai, tu e Vì... La conosco da tre anni e mezzo, certe cose le capisco.»
«Sai dov'è?»
«L'ho vista salire al primo piano mentre scendevo con...» lasciò la frase in sospeso e arricciò le labbra. Subito dopo spostò lo sguardo oltre le mie spalle e si schiarì la voce: «Scusami» balbettò in una risatina agitata.
Con la coda dell'occhio vidi Marco che la aspettava lungo il vialetto d'ingresso. Mi fece l'occhiolino.
«Aspetta!» la chiamai d'impulso prima che si mettesse a correre. «Puoi ricordarmi... il tuo nome?»
S'imbronciò per qualche istante, poi ridacchiando disse: «Valentina. Non bere troppo champagne!» concluse indicando la flûte ancora piena che avevo in mano. Le lasciai credere che la mia amnesia fosse dovuta all'alcool e alzai il bicchiere verso di lei: un brindisi se l'era meritato. Mi ripromisi che non l'avrei più confusa con Francesca, poi tracannai le bollicine in un sorso solo e finalmente, scacciati il nervosismo, la paura e tutto il resto, rientrai nella villa e imboccai le scale.
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