XI
La sera della festa, prima di uscire, rimasi davanti allo specchio per un tempo che nei libri varia dagli inimitabili Lunghissimi Secondi ai famosi Interminabili Minuti. Detta alla gioelese, ci rimasi per più tempo di quello che avevo dedicato al controllo dei miei capelli sommando tutte le mattine dei tre mesi precedenti.
Fissai il cappotto nero che avevo comprato per il Capodanno precedente, praticamente nuovo (separarmi dalla mia sgargiante giacca arancione era come strapparmi via un pezzo di pelle e di identità: la metà della gente a scuola mi riconosceva soltanto grazie a quella) e le scarpe, un ibrido tra le pezze mezze rotte che mi trascinavo in giro in attesa della loro definitiva capitolazione e quelle odiose limousine lucide che avrebbero fatto sembrare i miei piedi ancora più lunghi. La mia camera aveva un aspetto incomprensibilmente invitante. L'armadio Mondo Convenienza con un'anta bianca e una blu appartenente a chissà quale altro povero sfigato, che speravo fosse stato fortunato come me in quanto a coordinazione cromatica, mi fissava, nascondendo dentro di sé un vero e proprio soqquadro (hai mai notato che questa è probabilmente la prima parola che impressiona i bambini, ma al di fuori del libro delle elementari non viene quasi mai utilizzata?). Il letto era pronto a essere disfatto, la scrivania ingombra di libri impilati e relegati in un angolo senza alcun criterio logico e una bistecca di plastica ricoperta di saliva giaceva sul pavimento.
Sam si era stufata di rosicchiarla e la fissava annoiata. Quando si accorse del mio sguardo su di lei, raschiò sul tappeto un paio di volte e si raggomitolò accanto a me, chiudendo gli occhi. La corsa del pomeriggio l'aveva sfiancata, io invece non me la ricordavo già più. Ero la sintesi vivente del travagliato percorso che mi aveva condotto fin lì: leggere occhiaie, barba perfettamente rasata – non ci era voluto poi molto – un portafoglio mezzo vuoto in tasca e un esercito di fuochi d'artificio in testa che non avevano aspettato la mezzanotte per cominciare a scoppiare.
«È arrivato Marco, ha detto che ti aspetta in macchina» disse mia madre sbirciando nella stanza. «Sai che ti sta bene quel cappotto? Dovresti metterlo più spesso» continuò, poi, dopo le solite raccomandazioni, si girò per andarsene. La bloccai: «Mamma?»
«Sì?»
«Una che dice sempre la verità, la capisce lo stesso una bugia a fin di bene?»
Mia madre sorrise: «Se le fa del bene, non vedo perché no.»
E questo è il motivo per cui a diciotto anni chiedevo ancora il parere dei miei genitori.
Marco mi fece posto sul sedile del passeggero scaraventando dietro la sua giacca. Faceva un caldo tremendo e mi venne da chiedergli se per caso si fosse rotto il riscaldamento.
«No, è che le ragazze hanno sempre freddo. Qual è l'indirizzo?»
Lo guidai fino alla casa di Silvia, alternando lo sguardo dalla strada alla nostra ultima conversazione virtuale. Non era stata delle più incoraggianti: era una che non metteva emoji strane, il che mi piaceva benché rendesse praticamente impossibile capire quale fosse il suo umore, o perlomeno quale fosse l'umore che voleva mostrare in chat. Nei pochi messaggi che ci eravamo scambiati mi ero adattato al suo stile: più facevo scorrere il pollice in su, più si faceva largo in me la scoraggiante impressione di avere sotto gli occhi un telegramma e che l'unico calore che avrebbe provato nel rivedermi sarebbe stato quello del riscaldamento.
Quando raggiungemmo la sua casa, stavo sudando. Non era né una villa né una casetta a schiera, come mi ero immaginato, ma una semplice casa indipendente a due piani con un piccolo giardino. Con immenso piacere, scesi dall'auto per suonare il campanello
Mi venne incontro sua madre, una donna non troppo magra con un caschetto di capelli che una volta erano stati neri e due occhi dello stesso colore.
«Ciao! Sei Gioele?» mi chiese.
«In persona. Molto piacere.»
Mi strinse la mano, poi si voltò verso la casa, ma Silvia non compariva ancora e così tornò su di me.
«Non hai freddo?»
«Veramente no, in macchina fa caldissimo. Si è rotto il riscaldamento.»
Lei annuì: «Gioele... È un nome originale.» Non mi stupii che avesse voglia di fare conversazione: facevo quasi sempre una buona impressione alle mamme, perché sembravo in tutto e per tutto un ragazzo normale. E lo ero, beninteso, anche se poi finivo sempre per presentarmi a una madre diversa.
«L'ha scelto mia mamma. Vorrei che si fosse semplicemente ispirata al profeta, ma la vera storia ha a che fare con dei biscotti ed è molto meno seria.»
Rise, e per un attimo mi sembrò il ritratto di Silvia da grande.
«Ora capisco» commentò. Alle sue spalle, una figura avvolta in un cappottino scuro si materializzò sulla porta di casa. Stava parlando con suo padre e aveva il viso corrucciato, ma sua madre mi distrasse da un'analisi più approfondita della scena: «Gioele, posso chiederti un favore?»
Rabbrividii: temevo fosse già arrivato il momento della raccomandazione in stile "non toccare la mia bambina". Per una volta, però, mi sbagliavo.
«Puoi assicurarti che non faccia qualche... follia di troppo?»
La sua domanda venne spazzata via dall'arrivo del soggetto sottinteso. Si scusò per il ritardo e salutò la madre con un rapido bacio sulla guancia, poi mi superò e si avvicinò alla portiera. Mi allontanai anch'io per aprirgliela, anche se lei non mi aveva ancora rivolto un solo sguardo.
Un attimo prima di entrare in macchina, voltai il viso verso la signora Anderson e sussurrai un "ricevuto" accompagnandolo al sorriso più affidabile che riuscii a sfoggiare. Dietro di lei, sulla soglia della casa, suo padre mi osservò sparire dentro la macchina e continuò a guardarci fino a quando non svoltammo.
Dopo qualche secondo di silenzio, Silvia si voltò verso di me: «Devo essermi persa qualcosa... È tuo fratello?»
Marco scoppiò a ridere: «Non le hai detto niente?»
Era giunta l'ora di vuotare il sacco. Dopo aver precisato che avevo preso la patente da ben tre mesi e un giorno e che ero figlio unico, le spiegai ogni cosa, dal perché Jessica avesse chiesto proprio a me di convincere Elisa ad aprire le porte della sua villa a un'orda di adolescenti, alla stupida balla che mi ero inventato per sfuggire il più in fretta possibile al suo interrogatorio, glissando ovviamente sul "patto dei diciotto".
Rimase in silenzio. Tentai di salvare il salvabile balbettando: «Non so fino a che punto avrà voglia di indagare su quello che le ho raccontato... Credo ci basterà mimetizzarci con la folla e dopo un po' mollerà l'osso, e-»
Marco mi interruppe: «Stai tranquilla, visto che ci sono anche le tue amiche sarà più facile per voi due sparire dai radar.»
Silvia mi lanciò uno sguardo di ghiaccio: «La tua pioggia è proprio tremenda» disse, e allora capii che aveva travisato ogni cosa.
«No, aspetta, non era quello il mio intento» esclamai, ma lei chiese a Marco di accostare. Eravamo sulla strada che conduceva fuori città, ma c'era ancora uno stretto marciapiede che costeggiava la corsia. Un attimo dopo che fu scesa e un attimo prima che io cominciassi a insultare il nostro autista, lui disse: «Cosa aspetti? Vai a parlarle, vecchio! E dille la verità, porca miseria.»
Decisi di rimandare le imprecazioni all'anno nuovo, poi volai fuori dall'auto e la raggiunsi in due falcate.
«Silvia!» la chiamai, invano; allora tentai un diverso approccio linguistico: «Sì, la mia pioggia è tremenda. Ma stavolta non c'entra, lo giuro.»
Quelle parole sembrarono convincerla a darmi una chance. Si fermò e mi permise di mettermi di fronte a lei.
Presi un gran respiro: «Io volevo uscire con te. Quando Jessica mi ha chiesto quel favore, ho pensato che fosse l'occasione giusta. Poi Elisa mi ha messo spalle al muro e ho dovuto inventarmi qualcosa, ma non volevo che pensassi che ti avevo invitato per farci da tappabuchi, e così non ti ho detto nulla. Sono un idiota. Non era davvero mia intenzione arrivare a questo.»
Avrei preferito un altro schiaffo piuttosto di vederle quell'espressione dura, ma terribilmente sincera sul viso.
«È la verità» mi arrischiai ad aggiungere. Il suo sguardo mutò all'improvviso. All'inizio mi sembrò seccata, poi però incrociò le braccia al petto e rilasciò in un sospiro quello che interpretai come "il peso della rabbia".
«Perché non mi hai semplicemente chiesto di uscire?» mi chiese. Risposi nella maniera più disarmante al mondo: «Me lo sto chiedendo anch'io.» E, incredibilmente, funzionò.
«Sei proprio terribile, Giò» disse trattenendo a stento un sorriso.
«Non così tanto! E comunque tu stessa hai detto che avresti voluto fare qualcosa di diverso.»
«Mi andava bene anche una passeggiata al parco!» ribatté, firmando definitivamente la condanna al macero della mia dignità. In compenso, però, la convinsi a tornare in macchina, perciò quella piccola perdita non mi seccò troppo.
Eravamo a due passi dall'auto quando tornò a parlare: «Non volevo complicarti la vita.»
«Me la sono complicata da solo. Comunque, per chiudere la questione, direi di passare ai complimenti sui vestiti. Stai benissimo stasera.»
Indossava un maglioncino rosso oversize, di quelli che piacciono tanto alle ragazze, un paio di pantaloncini neri di velluto, calzamaglie dello stesso colore e degli stivaletti in pelle. Non era molto truccata, ma dato che l'avevo sempre vista in versione acqua e sapone, l'effetto era piacevole. Davvero piacevole.
Si appoggiò alla portiera. Sembrò sul punto di riaprire il discorso serio, ma poi cambiò idea: «Anche tu. Ma se il tuo amico non spegne il riscaldamento mi faccio sul serio tutta la strada a piedi.»
Proponemmo la questione a Marco e lui, a malincuore, pigiò il tasto off.
Il nostro viaggio riprese in un silenzio precario che durò circa cinque secondi. Poi Marco se ne uscì con una domanda: «Cosa c'entra la pioggia?» e la risposta ci tenne impegnati per tutto il resto del tragitto.
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