VII
A dire la verità, tutta quella sicurezza in me stesso durò il tempo di una corsa con Sam, una lunga doccia, una cena a base di monosillabi e un'orrenda dormita. Quando mi svegliai, ero ridotto peggio di quei poveretti della NASA durante i famosi tre minuti di silenzio radio che stabiliscono se gli astronauti torneranno sulla Terra sani e salvi oppure arrostiti; l'unica differenza è che i miei tre minuti durarono tre ore, al termine delle quali mi ritrovai a dubitare persino che il bagno davanti ai miei occhi fosse quello giusto, nonostante fosse l'unico su quel piano, anche se non ero nemmeno sicuro fosse quello il piano giusto, perché Silvia andava davvero in 4°A Linguistico?
Sarei impazzito, credo, se lei non fosse venuta.
Invece arrivò. Sbucò dal corridoio al termine della ricreazione e quando la vidi, vestita allo stesso modo del giorno precedente, mi sembrò che quelle ventiquattro ore non fossero mai esistite.
Teneva stretto tra le mani il libretto scolastico e la domanda mi sorse spontanea: «Ti sto facendo infrangere la legge?»
«È il tuo modo per chiedermi se sono maggiorenne?» ribatté lei.
«Direi di sì. Sei proprio portata per il gioelese», ammiccai.
"Faccio il Linguistico mica per gioco. Comunque, no, non sto infrangendo nulla, e no, non sono mai stata bocciata, per cui no, non sono maggiorenne».
«Allora devo essermi perso la modifica legislativa che permette ai diciassettenni di firmarsi le uscite da scuola».
«Ti sei semplicemente perso nel tuo gioeluniverso», mi bacchettò senza troppa simpatia, «è molto più semplice».
Riflettei qualche secondo, poi scrollai le spalle: «Sono ancora perso».
«Ho fatto firmare a mia madre», affermò candidamente, e per l'ennesima volta mi sembrò di essere finito alla fiera del "chi è scemo".
«Beh, se le hai mentito stai comunque infrangendo la legge, in un certo senso».
«Non le ho mentito e sono una rispettabilissima cittadina che non infrange le leggi. Ora possiamo andare?»
Senza aspettare la mia risposta, cominciò a camminare a passo spedito verso le scale: andava davvero veloce e io faticavo a starle dietro. In tutti i sensi.
«Stai dicendo che hai detto a tua madre che avresti saltato tre ore di lezioni per uscire con un ragazzo?»
«Oh, bentornato sulla Terra!»
«E lei ti ha firmato l'autorizzazione?»
«Bingo! Scusa, ma devo proprio dirtelo: la perspicacia non è il tuo forte».
Da quella frase in poi, mi persi un sacco di altre volte nei suoi discorsi, nelle sue espressioni, nei suoi occhi, ma più di tutto, cominciai a perdermi in quello spazio che comunemente divide due persone. Inizialmente si trattò naturalmente di una questione fisica, concreta: per la prima volta potevo dire che se Silvia fosse cascata ai piedi del mio sorriso, mi sarebbe davvero piaciuto poterla "sorreggere" (se capisci cosa intendo); quando però capii che non sarebbe successo tanto facilmente, iniziai a percepire un altro tipo di distanza: la distanza per eccellenza, quella estremamente incolmabile per il semplice fatto che due corpi non sono, e non saranno mai, una singola persona; l'unico problema è che all'epoca ancora non lo sapevo.
Quel giorno, dunque, cercai di avvicinarmi al suo universo solamente con le parole, che in ogni caso erano la mia arma migliore in qualsiasi situazione. Fu così che scoprii, man mano che ci allontanavamo dalla scuola, i primi dettagli su di lei: rispondeva brillantemente alle domande che le ponevo, ma non ne faceva a sua volta, come se mi considerasse una specie di intervistatore; per indicarmi la direzione da prendere non mi faceva alcun cenno, semplicemente allungava il passo e svoltava a destra o a sinistra, controllando solo dopo qualche metro se l'avevo seguita; last but not least, non era per nulla agitata, o, se lo era, non lo dava per nulla a vedere.
Erano, in realtà, tutte e quante delle stupidaggini che non mi avevano avvicinato a lei di un'unghia, ma Silvia aveva già scoperto il punto debole del gioeluniverso – la perspicacia, esatto – e aveva pure mille ragioni per sfruttarlo a suo favore.
Mi portò in un bar parecchio lontano dalla scuola, in una parte della città frequentata dagli alti ranghi.
«Abiti qui?», le chiesi quando finalmente si fermò, mentre con la fantasia già mi immaginavo alla ricerca di una cravatta da indossare per incontrare i suoi genitori in una super villa con piscina.
«No, ma c'è un bar dove lavora un mio amico che imbottisce di crema al cioccolato le brioches avanzate dal giorno prima e le spaccia a dieci centesimi».
Dato che i miei pensieri stavano navigando a vista lungo una scia di ottimismo – ottimismo che, dopo la sua ultima affermazione, mi vedeva stringere la mano a un padre in polo e bermuda sullo sfondo di una modesta casetta a schiera – quando disse "amico" diedi per scontato che stesse parlando del tipico amico gay con cui ogni ragazza ama intrattenersi davanti a una tazza di thè alla vaniglia.
Non mi aspettavo certo di trovarmi davanti a un etero talmente etero che persino io, al confronto, rischiavo di destare qualche dubbio. Non era bello a dismisura, ma aveva quel fascino tomcruiseiano da far dimenticare ogni suo difetto e l'arroganza tipica di chi ne è perfettamente consapevole.
«Ciao, Anderson», le disse non appena il campanello della porta trillò. «Il solito? Cioccolata e brioche gourmet?»
«Due brioches, e anche... Tu cosa vuoi?», mi chiese con un tono di voce inaspettatamente frizzantino.
«Ehm... Un caffè».
«Possiamo sederci in veranda?»
«Certo. Tra un minuto vi porto tutto», rispose il barman guardandomi con un sorrisetto incerto.
Ci accomodammo a un tavolino che dava su un'isola pedonale mezza vuota. Insieme a noi c'erano un paio di coppie di anziani che sorseggiavano il loro caffè leggendo il giornale. Mi sembrava di essere finito dentro un film di Woody Allen.
«Allora, ti piace?», disse Silvia, prendendomi nuovamente in contropiede.
«Sì. Voglio dire, non è certo la bettola dietro la scuola».
«Mi avresti portata lì se ti avessi lasciato scegliere?»
Mi stupii della sua improvvisa loquacità. Pensai che avesse semplicemente voglia di farmi il contro interrogatorio e, anche se la trovavo una cosa del tutto legittima, mi metteva una strana ansia addosso. Soprattutto perché il suo "amico" di tanto in tanto mi lanciava delle occhiate poco "amichevoli".
«No. Certo che no», risposi con ostentata sicurezza. Ovviamente non l'avrei portata al "Dog Street", però i miei standard rimanevano senza dubbio più bassi di quelli del "Cafè Paris". I tavolini, lì, non traballavano nemmeno!
«Avrei scelto una via di mezzo, tipo quella caffetteria in centro, quella dove fanno i biscotti alla cannella più buoni di tutta la città e lo zucchero di canna delle bustine è veramente di canna».
Chiusi la bocca prima di sparare altre informazioni idiote, le uniche che mi fossero rimaste impresse dopo tutti gli appuntamenti che avevo concluso seduto su quelle poltroncine finte anni '50. Lei, di rimando, afferrò una bustina di zucchero di canna, la aprì, versò un po' di granelli sul tavolo e li esaminò fingendo un esagerato interesse per la questione: «Te l'hanno detto di loro spontanea volontà o hai dovuto domandarglielo?»
Anche se le avevo sentito dire cose più strane, quella era la prima che presupponeva un mio diretto intervento. Ci misi tutto il mio impegno: «Gliel'ho domandato, chiedendo scusa per la mia sfrontatezza. Poi, sempre supplicando perdono, ne ho diviso uno a metà con l'unghia e ho visto che...»
Il granello si polverizzò e mostrò il suo vero colore: «... Non è vero zucchero di canna».
«È finto», dichiarò con serietà.
Annuii: «Quant'è vero che il tuo amico mi guarda proprio male».
Per un attimo sembrò non avermi sentito e rimase delusa a fissare i cristalli bianchi quasi fosse in trance. Poi, come se niente fosse, rialzò lo sguardo: «Lui è un po' come questo zucchero».
«Finto?»
Sorrise e scosse la testa: «Confezionato in serie».
In quel momento lui si avvicinò con le nostre ordinazioni: «Ecco a voi. Oggi non c'era scuola?»
Silvia mi guardò in silenzio, e io, in silenzio, accettai di svolgere lo sporco compito di rispondere al giovane Pete Mitchell: «La scuola c'era, eccome. Ma hai ragione, anch'io mi chiedo come faccia a stare ancora in piedi quell'ammasso di cemento. Nella nostra classe cade un pezzo di intonaco ogni volta che la prof di inglese dà di matto».
Mentre parlavo, mi resi conto di una cosa: non avevo mai sentito una ragazza dire una cosa tanto brutta di un ragazzo. Le parolacce, al confronto, erano svilenti quanto una strizzatina della nonna sulle guance.
Il barman se ne andò con un sorrisetto di cortesia, senza cercare di ribattere al mio sarcasmo. Avrei dovuto ritenermi soddisfatto – più il sarcasmo non viene compreso, più il senso stesso di fare i sarcastici aumenta, in linea teorica. Invece, fu come sentirsi complice di un complotto segreto ai danni di una persona la cui unica colpa, per quanto ne sapessi, era la spudorata somiglianza con un divo del cinema.
«Puoi ricordarmi perché abbiamo fatto gli stronzi con lui?», mi venne da chiederle.
«Io ho i miei motivi», disse tranquilla.
«Io no», mormorai senza riuscire a trattenermi.
«Non eri obbligato a dire nulla. Non so come funziona nel tuo universo».
Addentai la brioche e la trovai deliziosa. Anche il caffè era buonissimo.
La verità era che non lo sapevo più nemmeno io.
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