VI

Silvia era diversa dalle altre ragazze. Non c'era verso di vederla in un altro modo, meno banale o sdolcinato. Era diversa, chiuso il discorso.

Il giorno dopo la nostra interessante conversazione la cercai con lo sguardo nell'ala dell'istituto riservata al Linguistico. Ero piuttosto certo che una ragazza come lei non potesse essere una talpa che se ne stava seduta dietro il suo banco durante le ricreazioni. Eppure, fu un buco nell'acqua.

Il giorno successivo, invece, la trovai all'istante. Era seduta sulla cattedra della bidella e stava parlando con altre tre ragazze. Una di loro a un certo punto si allontanò ed entrò nell'aula alle sue spalle: 4°A Linguistico. Ci rimasi di sasso: com'era possibile che non mi fossi mai accorto di lei se le nostre classi condividevano la palestra una volta a settimana durante l'ora di ginnastica?

Mentre ero lì, con un'espressione a metà tra il sorpreso e l'indeciso sul da farsi, lei mi vide. Pensavo che avrebbe potuto comportarsi in due soli modi: fingere di non avermi visto o salutarmi.

Scelse il terzo: smise di parlare e cominciò a fissarmi. Dopo qualche secondo, mi resi conto che non potevo starmene impalato come uno stoccafisso, così mi avvicinai.

«Ciao» esordii con sicurezza, sfoggiando un sorriso.

«Ciao!» mi risposero le sue amiche, porgendomi la mano nello stesso momento per presentarsi. Mi presi un secondo per incrociare i loro sguardi trasognanti, poi tornai a guardare Silvia: lei non fiatò, ma rispose al mio defunto sorriso sollevando gli angoli della bocca con aria divertita. Si stava palesemente prendendo gioco di me.

Le sue amiche si presentarono come Valentina e Francesca, poi una di loro (forse Valentina, forse Francesca, non lo so: già le confondevo) mi chiese: «Sei Gioele della 5°A Scientifico, giusto?»

«Esatto.» Il mio ultimo desiderio era iniziare una conversazione con Valentina, o Francesca, ma non potevo nemmeno essere scortese: in fondo, non mi era mai dispiaciuto ricevere qualche innocua attenzione – anche se erano proprio quelle la mia rovina.

«Le nostre classi si sono sfidate a pallavolo lo scorso martedì. Sei veramente bravo, complimenti» continuò una delle due bionde.

«Era quella partita in cui vi abbiamo stracciato e poi siete rimasti un quarto d'ora a insultarci perché la metà dei nostri punti, secondo voi, ce li aveva regalati l'arbitro?»

Le due risero, anche se era ovvio che non ci fosse proprio nulla di divertente nella mia domanda: «Ma sì, facevamo così, per scherzare.» Ripensai ai loro sguardi omicidi e a quell'ultima, vigorosa schiacciata che aveva casualmente beccato in piena faccia Francesco facendogli uscire il sangue dal naso: «Beh, ricordatemi di non scherzare mai con voi.» E giù a ridere, di nuovo. Cominciai a credere che pur di mostrarmi la loro perfetta dentatura si sarebbero sorbite persino uno sproloquio sull'ultima lezione di fisica quantistica, e la tentazione di verificare la mia congettura diventò talmente forte che nella mia testa avevo già schierate in posizione di attacco un paio di curiosità su Einstein e la definizione di relatività, quando la campanella suonò.

Silvia disse: «Vado in bagno» e le gemelle, dispiaciutissime di dover tornare in classe, si congedarono con un ultimo, sfavillante sorriso. Dopo che mi ebbero tolto gli occhi di dosso, mi voltai e raggiunsi l'unica ragazza con la quale avessi mai voluto intraprendere un dialogo.

«Ottima tecnica» esordii. Sorridevo come un ebete, anzi, probabilmente sorridevo proprio come Valentina e Francesca messe insieme.

«Che cosa?

«Andare in bagno al suono della campanella. Così eviti la coda.»

«Ma la speranza di trovare ancora della carta igienica si riduce ai minimi termini.»

«Ma a che cosa è meglio rinunciare? Al tempo o a un pezzo di carta facilmente sostituibile?»

Con quell'ultima domanda Silvia s'impuntò di colpo a pochi metri dalla toilette e finalmente mi disse qualcosa guardandomi negli occhi: «Tu parli strano.»

«Da che pulpito!» ribattei, e una parte di me credette vivamente di aver fatto centro esattamente in quel momento, davanti ai cessi della scuola, come in quei film americani dove per far tanto "vita vera" piazzano una location scadente dietro due attori che sfiorano la perfezione.

«No, seriamente. Spero che almeno al bagno mi lascerai andare da sola.»

Mi sentii un po' come quella candelina che non si spegne mai nel momento in cui il festeggiato si stufa e la lancia sotto il getto d'acqua del lavandino. Incassai il colpo con mestizia, però non me ne andai. Era come se all'improvviso non esistesse altro luogo al mondo dove volessi stare.

Aspettai finché non la vidi riflessa nello specchio mentre si lavava le mani, e a quel punto dissi: «In realtà volevo chiederti di uscire.»

Lei, per nulla infastidita che fossi rimasto – non sembrava nemmeno sorpresa, come se avesse dato per scontata la mia presenza – replicò: «Dal bagno?»

«Perché non dalla scuola, già che ci siamo?»

«Perché è contro le regole» rispose candidamente, e non si mosse dal lavandino.

«Andiamo, non ti sto chiedendo di andare a comprare marijuana da quelli del professionale. Solo di uscire di qui.»

«Non ho il giubbino con me.»

«Andiamo in un bar.»

«Non ho nemmeno il portafoglio.»

Quella fu l'obiezione che mi illuminò riguardo il probabile insuccesso della mia proposta, perché anch'io avevo lasciato il portafoglio – con dentro all'incirca l'equivalente di un caffè liscio – in classe. Prima di scadere nel ridicolo, alzai le mani in segno di resa: «Ho capito. Facciamo domani?»

«Non rischia di perdere tutto il suo fascino di azione impulsiva se la rimandiamo a domani?»

La sua domanda fu per me un traguardo a dir poco ammirevole, considerando il fatto che ero riuscito a raggiungerlo portando avanti la conversazione in tutta dignità nonostante la porzione di specchio in cui si stava consumando il nostro ininterrotto scambio di sguardi fosse coperta dalla scritta "brutta troia".

«Forse. Ma ormai è chiaro che oggi non se ne fa nulla. Quindi direi di correre questo rischio.»

Silvia indietreggiò e per alcuni attimi la persi di vista. Poi, finalmente, uscì dal bagno dicendo: «Va bene soltanto se lasci scegliere a me il bar.»

«Puoi considerarmi un essere privo di volontà di scelta esattamente da questo momento» esagerai, come al solito, ma fu la prima risposta che le strappò un sorriso.

«Allora domani saprò dove trovarti» mormorò, e senza aggiungere altro ricominciò a camminare.

«Oppure puoi lasciarmi il tuo numero, così, nel caso i bidelli riescano a schiodarmi da qui, potrò dirti dove avrò non – scelto di farmi trovare.»

«Oppure ci vediamo qui alla prima ricreazione» ribatté mentre continuava ad allontanarsi da me, che per stare al gioco avevo deciso che mi sarei mosso soltanto quando lei non avrebbe più potuto vedermi.

Allargai le braccia, anche se ormai si era voltata, e sospirai: «Aggiudicato.» Per tutta risposta alzò il pollice destro, poi svoltò nel corridoio e tutto quanto finì.

Quando tornai in classe mi beccai una super sgridata dal professore di chimica, che alla fine del suo discorsone mi mandò al posto dicendo: «Per oggi passa, ma hai rischiato grosso.»

In quel momento la voce gloriosa del mio ego si levò dalle profondità del mio stomaco ed esplose nella mia testa con una risposta bomba: "Se non si rischia non si vive, bello mio"; per la prima volta, però, tenni quella risposta per me e, sempre per la prima volta, la classe non si fece quattro risate grazie alla mia affascinante irriverenza, ma dovette accontentarsi di un umilissimo sorriso, sfoggiato sia con la piena consapevolezza che il giorno dopo sarei uscito con Silvia Andersen (e che quindi delle esigenze di intrattenimento dei miei compagni me ne importava improvvisamente meno di zero), sia con la totale inconsapevolezza che questo avrebbe determinato un rischio ben maggiore di essere buttato fuori dall'aula da un tizio con il doppio mento.

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