V
«Per chi mi hai presa, per una libertina delle tante?» esclamò tutta impettita.
In un'altra situazione probabilmente mi sarei messo a ridere. In quel momento, invece, la confusione che il suo schiaffo aveva scatenato nel mio cervello mi sgombrò la mente da qualsiasi obiettivo a corto raggio che non prevedesse il tenerle testa ad ogni costo.
«Era solo una battuta!»
«Una pessima battuta» puntualizzò.
«E da quando alle pessime battute si risponde a schiaffi?»
«Da quando sottendono un giudizio non richiesto.»
Dopo avermi rivolto l'ennesima occhiata di fuoco, mi superò senza tante cerimonie e cominciò a camminare. Io, ovviamente, la affiancai per replicare alla sua risposta dal lessico ottocentesco. Era l'ennesima affermazione incomprensibile che faceva in mia presenza, eppure non ero ancora riuscito a capire chi fosse il deficiente tra noi due.
«Senti chi parla di giudizi non richiesti! Vogliamo tornare al mio tema?»
«Non ho espresso alcun giudizio a riguardo.»
«E invece sì, altrimenti non ti saresti firmata. Avanti, sputa il rospo.»
Silvia si fermò. Rimase di spalle per qualche attimo, poi si voltò: «Sono d'accordo con tutto quello che hai scritto.»
Per un istante il suo sguardo si fece distante, poi tornò a guardarmi e mi tirò un sassolino con la scarpa. Io lo fermai, la guardai, sorrisi con la stessa espressione pregna di charme con la quale avrei voluto far colpo su di lei quel lunedì di pioggia, e glielo rilanciai: «Potevi dirlo subito. Avrei evitato di sparare battute che sottendono giudizi immorali... Toglimi una curiosità: è tua abitudine andare in giro a schiaffeggiare la gente soltanto perché non ha la tua stessa rettitudine?»
Non chiedermi come mi venne in mente la parola "rettitudine": non ne ho la più pallida idea. Però sembrò colpirla, perché accennò un sorriso: «Come mai tutte queste domande? Non sembravi uno che avesse voglia di porsene così tante, dal tema che hai scritto.»
«Non sul senso dell'esistenza. Preferisco interrogarmi su cose più concrete, tipo le singole esistenze e le possibili modalità di interazione tra, ad esempio, due di esse.»
Silvia non colse l'allusione a noi due. O, se la colse, la ignorò. Rimase in silenzio, come se non volesse ancora concedermi la certezza che stessimo avendo un dialogo, così fui costretto a parlare di nuovo: «Comunque, i tuoi compagni di classe sono stati parecchio pignoli con i temi che hanno corretto, quindi, se stavolta me lo permetti, volevo ringraziarti. Sei stata... Simpatica.»
Sì, lo so, pessimo aggettivo. È che lei era rimasta seria e zitta a guardarmi, e alla fine mi aveva fatto perdere il filo del discorso. La sua risposta fu un'eloquente alzata di sopracciglia, ma poi, finalmente, disse qualcosa: «Te l'ho detto, ero semplicemente d'accordo. Comunque, se proprio vuoi ringraziarmi, non usare termini tanto generici come simpatica. È come dire alla propria ragazza che è bella. È banale.»
«Non è banale. È universale. Se vai in giro a chiedere a tutti quelli che incontri come definirebbero Angelina Jolie ed escludi i rozzi, che risponderebbero sicuramente gnocca, tutti gli altri direbbero bella. In qualsiasi parte del mondo.»
Silvia incrociò le braccia. Il piazzale ormai era completamente deserto. Le nostre parole sembravano essere l'unico suono nel raggio di un chilometro, a parte il rumore di qualche macchina.
«Sei tornato di nuovo a parlare delle esistenze in generale. Ti stai contraddicendo, Gioele.»
Quando pronunciò il mio nome, mi scattò un sorriso. L'aveva già detto in presenza di Laura ed Eleonora, ma sentirlo riecheggiare nel silenzio del primo pomeriggio fu quasi surreale. Talmente surreale che mi dimenticai di ribattere, e stavolta, leggermente sorpresa e forse imbarazzata dalla mia reazione, fu lei ad aggiungere: «Comunque, io risponderei pessima attrice.»
Sorrisi di più: «Beh, anch'io.»
«Davvero?»
Mi avvicinai a lei di un passo.
«Sì. Preferisco Nicolas Cage, il che è tutto dire.»
«Quell'attorucolo con la varietà espressiva di un sacco di patate?»
Ridacchiai, ma in realtà ci rimasi di sasso. Mi aveva appena rubato il commento che io avrei dovuto pronunciare per sembrare abbastanza ironico e disinvolto da prevenire qualsiasi altra eventuale ostilità.
Lei rimase mortalmente seria. Decisi di ripiegare sulla tecnica della strafottenza, quella che Francesco utilizzava spesso per ammaliare le ragazze: «Esatto, sì, proprio lui. Che attore del cazzo, saprei recitare meglio io!»
Stessa reazione di prima accompagnata dalla caduta libera delle spalle e un'occhiata traboccante delusione e profonda stizza nei miei confronti. Tecnica sbagliata.
«Non ce la fate proprio a parlare pulito per tre minuti di seguito, voi ragazzi vissuti, eh?» disse con tutta la calma di questo mondo prima di voltarsi e ricominciare a camminare.
«Aspetta! Almeno evita di parlare di me come se rappresentassi l'intera razza stronza degli adolescenti!»
Silvia rallentò, poi si fermò. Pensai che stesse valutando se rinfacciarmi o meno il fatto che avevo utilizzato un'altra parolaccia per difendermi dall'accusa di dire parolacce, invece, quando si voltò, stava sorridendo. Appena appena, quasi per sbaglio, però sorrideva.
«Lo vedi che dà fastidio essere definiti?»
E quattro.
«Beh, insomma... Era un po' diverso. Mica ti ho dato della stronza, prima.»
Rimase in silenzio per un po', le labbra strette a formare una linea sottile e increspata. Poi disse: «Comunque continui a parlare sporco.»
«Hai ragione, chiedo venia. Sarà l'età, oppure l'abitudine a sentirlo fare» affermai con una scrollata di spalle.
«Brutto vizio, l'abitudine.»
«Fatale. Ne morirò, un giorno o l'altro. Tu no, immagino.»
«E chi lo sa?»
«Uno che ti ha vista fare la doccia vestita con una temperatura da pinguini. Un tipo abitudinario certe cose le evita come la peste.»
Rimase di nuovo in silenzio. Poi, di nuovo, deviò il discorso: «Fossi in te eviterei soltanto di usare certi paragoni scontati. Persino la razza idiota degli adolescenti ne sarebbe capace.»
«... Un tipo abitudinario certe cose le evita come le ascelle di un muratore durante la pausa pranzo. Meglio?»
«Decisamente.»
«Niente schiaffo, allora» azzardai. Lei corrugò la fronte, come se non si ricordasse del gesto a cui alludevo. Dopo qualche attimo, però, scosse la testa e si lasciò sfuggire una risata soffocata: «No, niente schiaffo.»
E in quel momento, esattamente in quel momento, tra noi si creò qualcosa: lo definirei un fuoco, come quelli che in geometria definiscono le ellissi. Lo so che detto da uno che odia la matematica l'esempio fa un po' ridere, ma è l'unico che calza a pennello. Per un lungo periodo quel fuoco fu l'unica cosa che ci permise di trovarci senza mai toccarci. Anche in geometria avviene un po' la stessa cosa: l'ellisse non lo tocca mai, però quello rimane un punto fondamentale per determinare un sacco di cose. Cose inutili, a mio parere, ma sorvoliamo.
Soltanto in seguito, quando quel lungo periodo sarebbe finito, avrei compreso perché il fuoco si chiamasse proprio fuoco. Ma all'epoca ero ancora ben lontano da quella rivelazione, e guardandola allontanarsi, dopo esserci scambiati un "ciao" decisamente banale e scontato a confronto di tutte le parole che ci eravamo detti prima, mi accontentai semplicemente di saperlo lì, tra di noi.
Vivo.
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