III

La mia classe era una strana classe. Nessuno usciva mai dall'aula durante la ricreazione, sia che splendesse il sole, sia che un doppio arcobaleno facesse capolino dai tetti delle case, sia che un'astronave aliena atterrasse nel giardino della scuola. Intendiamoci, quando fuori veniva giù l'ira di Dio, come quel lunedì, la capivo pure, così come apprezzavo molto il fatto che non fosse la tipica classe da "guerra di palle di neve con sorpresa!", visto che a) la sorpresa, generalmente, consisteva in sassi più o meno grandi nascosti all'interno di esse, e b) trascorrere tre ore di lezione con la neve nelle mutande era un'esperienza che non avevo la smania di provare. Ma almeno dopo quarantacinque minuti di educazione fisica del professor Maglietti – uno di quei professori che se non ti vede vomitare l'anima alla fine della sua lezione non è contento – almeno quei due giorni a settimana il naso fuori dalla porta avrebbe dovuto mettercelo, santo cielo. E invece no. Il problema era che la maggior parte dei miei compagni non lo metteva nemmeno sotto le ascelle, il naso, e come inevitabile conseguenza l'aula finiva sempre per trasformarsi in una specie di camera a gas. Il che, per uno – per l'unico, a voler essere precisi – che ci rimetteva piede dopo esserne uscito (ed essersi messo il deodorante) era una bella botta.

Si definiva una classe unita. Io la definivo una classe malaticcia. Per non complicarmi la vita sostenevo anch'io, davanti ai miei compagni, la tesi della classe unita, ma il più delle volte non la sopportavo. Sentimento non ricambiato dalle ragazze, però di questo ho già parlato.

Quando suonò la campanella, quel lunedì, tutto accadde come al solito: il professore uscì, i libri si chiusero e i cellulari emersero dal mare di penne e matite colorate ficcate alla bell'e meglio negli astucci Eastpak. Io mi guardai attorno, mi alzai e uscii in corridoio. L'ora successiva, per me e per alcune mie compagne – tutte ragazze – che non facevamo religione sarebbe stata libera. Immaginavo le loro espressioni disperate, i loro commenti poco, ma davvero poco fini nei confronti della professoressa di matematica e le loro battute da quattro soldi, e sentivo i miei settimanali cinquanta minuti di vita scivolarmi via dalle mani. Spesso mi chiedevo a cosa servisse piangere sul latte versato, ossia sui pomeriggi trascorsi a spettegolare invece che a fare i compiti: era un atteggiamento a dir poco ipocrita. Io, almeno, avevo la decenza di non lamentarmi: la professoressa aveva fatto la parte della professoressa, e non della stronza, io non avevo studiato, la pioggia aveva stroncato definitivamente ogni mia speranza di sufficienza e la verifica era andata da schifo. Me l'ero semplicemente cercata. Eppure, chissà perché, quella era l'unica frase che non saltava mai fuori durante le loro amorevoli chiacchierate. Ti chiederai perché le stessi comunque ad ascoltare: beh, mi divertiva parecchio, a essere sincero. Mi divertiva sapere che quasi tutte le parole che uscivano dalle loro bocche lucidalabbrate fossero bugie, contraddizioni, autoinganni, falsità, aneddoti distorti dall'acidità di cervello o affermazioni campate per aria e ficcate a random nella bocca della povera professoressa di turno.

Mi divertiva la loro coerenza, ecco.

Mi appoggiai allo stipite della porta d'ingresso e lasciai che i miei pensieri corressero a Sam e ai possibili percorsi che avremmo potuto fare quel pomeriggio. Trascorsi così nove minuti. Poi, per evitare l'ingorgo che si sarebbe inevitabilmente formato al suono della campanella (suono che avrebbe infranto per l'ennesima volta l'illusione di tutti quei ragazzi che dall'alba dei tempi speravano nell'avvento del giorno in cui si sarebbe rotta e avrebbe concesso loro una ricreazione infinita), mi voltai e cominciai a camminare tra i ragazzi sopracitati, svogliatamente immobili.

La vidi attraverso le ampie vetrate che davano sul cortile. Era di spalle, seduta su una panchina. Era immobile, ma era un'immobilità diversa da quella degli illusi. Capii che era lei proprio per questo.

Spinsi la maniglia dell'ex porta antincendio, adibita ormai da tempo a porta d'ingresso secondaria, e uscii. La pioggia scendeva dritta e fitta e la temperatura sembrava esser scesa di un paio di gradi rispetto alla mattina, ma lei non sembrava infreddolita. Era semplicemente ferma, appoggiata allo schienale, le punte dei piedi che sbordavano leggermente dalla porzione di piastrellato asciutta.

Cominciò a sbalordirmi prim'ancora di rivolgerle la parola perché, non appena le fui abbastanza vicino, notai spuntarle un sorriso sulle labbra.

Oltre a tirare un sospiro di sollievo per non essere incappato nella solita ragazza tormentata che, incompresa dal mondo intero, va a cercare il suo angolino più infelice, isolato, triste e inospitale, e ci si rifugia per piangere lacrime amare, incurante del maltempo perché "tanto peggio di così non può andare", rimasi talmente colpito dalla sua espressione che finii per sorridere a mia volta, come un fesso.

Mi avvicinai alla panchina e, quando fui a non più di un metro di distanza, girai la testa dall'altra parte fingendo di osservare il cielo plumbeo davanti al mio naso. Aspettai qualche secondo, poi, sfoggiando il mio miglior sguardo, mi voltai di nuovo per osservarla, e per farmi osservare, cercando di trasudare charme da ogni poro.

Il tutto fu accolto da una panchina vuota. Aggrottai le sopracciglia e spostai lo sguardo davanti a me: lei era in piedi, a braccia spalancate, sotto la pioggia.

«Aspetti i confetti?»

Non so come mi venne in mente quella stupida battuta. Punto primo: non eravamo a Piombino. Punto secondo: per far colpo su una ragazza si cita Platone, Emily Bronte, Jane Austen o Virginia Woolf, non Gianni Rodari.

Non so nemmeno perché volessi far colpo su di lei. Non l'avevo mai vista in faccia e non l'avevo mai sentita parlare.

Rivolgendole la parola avevo accettato il rischio di finire impelagato in una conversazione con l'ennesima ragazza insipida, magari pure bruttina o, peggio ancora, con una voce più stridula di quella di una gallina cui è appena stato tirato il collo.

Lei si voltò lentamente. Lentamente, non al rallentatore. Per capirci: alla maniera del mostro brutto e cattivo del peggior film horror che abbiate mai visto, non alla maniera della dolce ragazza angelica di uno di quei prevedibili film romantici. Come se non bastasse, nel momento in cui il suo profilo cominciò a delinearsi esplose un fragoroso tuono. Furono istanti quantomeno inquietanti.

Ma poi, eccola lì. Si girò completamente verso di me e mi ritrovai a osservare due occhi color nocciola che mi lanciarono uno sguardo incuriosito. Era pallida, aveva un naso lungo e dritto e un paio di labbra rosse, screpolate dal freddo. Gli ultimi dettagli che notai furono il mento, abbastanza pronunciato, e i capelli. Gli stessi capelli che la prima volta – quella prima volta – avevo osservato ondeggiare, mossi dal vento.

«No. Però è divertente» disse. La sua voce era tutto il contrario di quella di una gallina strozzata. Era bassa e calda, poco femminile. Aveva un difetto nel dire la erre: non era proprio moscia, sembrava piuttosto che all'ultimo momento la sua lingua perdesse l'intenzione di fare quello che avrebbe dovuto per pronunciarla nel modo corretto e si concentrasse, invece, sulle lettere che sarebbero seguite a quell'inutile ostacolo.

«Infradiciarsi fino al midollo sarebbe divertente?» replicai.

«No, no. È divertente osservare quelli che si credono furbi perché si riparano sotto un ombrello. O sotto il portico» concluse, mangiandosi il "come te" che avrebbe voluto dire.

«Ripararsi dalla pioggia sarebbe stupido?»

La monotonia della costruzione delle mie domande mi lasciò perplesso. Dov'era finito tutto il mio estro elaborativo - discorsivo?

«È un'illusione. Si vive tutti sotto una pioggia incessante.»

Ponderai le sue parole per qualche secondo, cercandone il senso. Non lo trovai. Però, per non fare la figura del deficiente, diedi lo stesso aria alla bocca.

«E starsene sotto la vera pioggia è il tuo modo per dire che tu, a differenza di tutti gli altri, non devi preoccuparti che di quella? Che quella è la tua pioggia?»

«No, no» rise. «Direi che la mia pioggia è proprio quella di Piombino.»

Soppesai di nuovo la sua strana risposta, prendendomi qualche attimo in più rispetto a prima. Volevo capire che diavolo stesse dicendo. Ma niente. Non ne venni a capo.

«Senti, vuoi che avverta adesso l'ospedale o aspetto che le tue labbra raggiungano una tonalità di viola tendente al bianco cadavere?»

Lei sbuffò, ma alla fine mi raggiunse sotto il portico. Pensai che fosse il momento giusto per riprovare a fare colpo. Lo pensai, ma le mie intenzioni si paralizzarono nel fare il limbo necessario per diventare azioni, colpite da un improvviso e doloroso colpo della strega, ossia dalla desolante consapevolezza che non avevo la più pallida idea di come si facesse a tentare un approccio "da ragazzo" con una ragazza.

Non biasimarmi: mi era sempre successo il contrario.

Fu lei stessa a farsi avanti e a tendermi la mano.

«Silvia» disse. Gliela strinsi e aprii la bocca per dirle il mio nome. Ma, nonostante quella volta le mie intenzioni fossero praticamente già al di là del limbo, qualcuno mi anticipò.

«Joel!» strillarono Eleonora e Laura.

Fui pervaso da un'ira tanto cieca quanto quella degli eroi omerici, ma poiché non possedevo una forza sovrumana e poiché il mio tallone d'Achille non era un tallone, bensì una stupida immagine da preservare, mi limitai a dire, per la cinquecentesima volta: «Mi chiamo Gioele.» E, sebbene avessi volentieri aggiunto: "Piantatela con questi inglesismi del cazzo", mi trattenni. Sarebbe stato poco cortese. Poco da Joel, da quello che sosteneva la teoria della classe unita, da quello che le stava sempre a sentire quando cominciavano a raccontare dell'ultima serie televisiva che avevano visto. Avrebbe nuociuto a quel mio stupido tallone.

Le mie compagne di classe risero senza ritegno davanti a quella che consideravano un'espressione di finto rimprovero (in realtà, era vero eccome) e Silvia lasciò andare la mia mano, scostandosi appena da me.

«Come se non lo sapessimo! Ma Joel è molto più carino, dai...»

Anche Gioele non era male come nome. A sentirlo per la prima volta faceva storcere un po' il naso a chiunque, e anch'io avevo passato un bel periodo di tempo a odiarlo con tutto me stesso. Però, a diciotto anni, quella stupida discriminazione nominale mi era ormai passata. Mi chiamavo Gioele e mi sarei sempre chiamato Gioele. E allora? Mi chiamassero pure Joel, Bijoelux o altre cavolate simili: Gioele ero e Gioele sarei rimasto, punto.

«A me piace il nome Gioele. Non avevo mai conosciuto nessuno che si chiamasse così.»

L'intervento di Silvia mi spiazzò, ma l'effetto che ebbe su Eleonora e Laura fu di gran lunga più interessante della mia misera sorpresa. La squadrarono da capo a piedi e rimasero lì, a sopracciglia inarcate, per dieci secondi buoni. Sembrava che stessero cercando di appiccicare alla sua faccia un'etichetta adatta. Avrei scoperto qualche giorno dopo che, con un immane sforzo di fantasia, l'avrebbero soprannominata La sirenetta.

Ciò che successe dopo è poco importante. Le chiesero quale fosse il suo nome, lei glielo disse, dopodiché tornarono a ignorarla e mi trascinarono dentro, al "calduccio", e io la salutai con un cenno confuso, che non sapeva se essere un saluto o un gesto della serie: "Che ci posso fare?"

Silvia non fece altro che rimanere immobile per tutto il tempo. Prima che entrassi nell'aula riservata agli studenti atei/svogliati e la perdessi di vista, la vidi indicare con il mento e con lo sguardo un punto imprecisato sopra la mia testa.

Probabilmente quel gesto preciso e sicuro, così diverso da quello che le avevo rivolto io pochi attimi prima, fu la prima cosa che capii di lei. E l'ultima di me stesso.

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