Elìo
Giovedì
Le strade della mia città sono sommerse dalla neve, in questo giorno di gennaio; le parole della direttrice riecheggiano ossessive nella mia testa, mentre percorro la via di casa, intenta a tornare alla solita routine di sempre – per distrarmi, per far sì che il lavoro non mi tormenti più.
Non preoccuparti, penserò io a fare giustizia.
In ufficio quella stronza di Camilla è andata in giro a dire che mi prendo i meriti dei lavori degli altri, e questo sembra farmi fisicamente male. Le mani tremano, ho solamente voglia di spaccare qualcosa, possibilmente facendo un gran rumore. In un ufficio per il processo l'attività è frenetica, caotica, e succede di essere ingiustamente accusati di non voler fare il proprio lavoro, come è successo a me questa settimana. Le sentenze da catalogare erano troppe per essere gestite; lo stress mi aveva aggredita ancora prima di vederle tutte, quando si erano presentate davanti i miei occhi, in una processione fatta di lettere. Un uomo licenziato per giusta causa – anche se la giusta causa era inesistente – un ragazzo che aveva molestato una collega, una donna aveva perso il lavoro perché ritenuta incapace di intendere e di volere. Le ho affrontate tutte, una per una, facendole sfilare come modelle fatte di inchiostro davanti ai miei occhi attenti, e questo è stato il risultato. Alma si prende i meriti degli altri.
In realtà, Alma ha catalogato anche le sentenze di Camilla e lo ha fatto meglio di lei, ma questo, ovviamente, non lo dirà nessuno.
Le strade sono un intrico di labirinti che si sovrappongono, le persone mi sciamano intorno e le guardo, provando ad immaginare le loro vite. C'è una famiglia con due bambini piccoli che giocano a palle di neve, un signore con gli occhiali con un cane al guinzaglio, una coppia che cammina mano nella mano; si sorridono, gli occhi di lui guardano il viso di lei con un misto di amore e ammirazione.
Ricordo quando anche io ed Erik eravamo così, i primi tempi, quando eravamo dei ragazzini, tutto sembrava più semplice e potevamo stare nelle nostre bolle magiche che nessuno avrebbe infranto. La neve ha ripreso a cadere leggera, e si posa sui miei capelli scuri, fredda, ma delicata. Non vedo l'ora di tornare a casa da Erik, che avrà fatto un tentativo maldestro di cucinare qualcosa – ma l'avrà fatto solo per me, e tanto basta. Provo ad immaginare che cosa sarà: una frittata, uno sformato, tortine di pesce. Mi stringo nel cappotto color avorio e continuo il mio tragitto, ignorando le notifiche che si susseguono sul mio telefono abbandonato sul fondo della borsa, un inerte divoratore di attenzione che richiede che io lo guardi: quando arrivo alla casa gialla che condivido con Erik, un sorriso mi appare sulle labbra, mentre prendo le chiavi dalla tasca del cappotto.
«Ciao, tesoro» mi accoglie Erik. «Mi sono messo all'opera, come mi avevi consigliato tu. Ho fatto venire anche Axel, a pranzo, oggi aveva il giorno libero.»
«Ciao», la voce ruvida di Axel si eleva dalla cucina; sistemo il cappotto sull'attaccapanni, cercando di limitare le grinze, e raggiungo Erik, che sta armeggiando con i fornelli – ha buttato in una padella qualcosa di non definito.
«Come va?» l'amico del mio fidanzato mi fa una domanda di cortesia, cercando di instaurare un dialogo. In realtà, non sono molto contenta del fatto che sia qui, ma non voglio dare problemi ad Erik; Axel ci ha fatto passare un brutto periodo, anni fa, quando aveva problemi con la droga. Dopo aver trascorso un periodo di riabilitazione in un centro, è tornato a vivere nella sua abitazione, che io ed Erik mettevamo periodicamente in ordine quando non c'era; nonostante abbia provato a lavarla via, l'immagine degli oggetti di Axel – scontrini, vasi, libri, soprammobili, tutti sparpagliati per terra in un disordinato tappeto di carta, plastica e vetro – rimane scolpita nella mia testa. Quella casa rifletteva appieno il suo disordine mentale. Disordine che era durato a lungo, prima di arrivare ad un momento relativamente tranquillo.
Soprattutto ricordo molto bene la striscia di cocaina onnipresente sul tavolo basso – un bel tavolo di vetro, un rettangolo in mezzo alla cornice dei divani in pelle scura.
«Insomma», do una risposta sincera a metà, di quelle su cui nessuno può dirti niente. «Il lavoro procede frenetico, non ho mai un attimo di pausa. Ma, in generale, va tutto bene» vado a prendere un bicchiere d'acqua e lo riempio fino all'orlo. «Tu, invece?» sposto l'attenzione su di lui mentre do un sorso al bicchiere, per rinfrescarmi il cervello. Il sole è coperto da alcune nuvole bianche e gonfie, che come ovatta oscurano leggermente il cielo; la luce che ricopre la cucina è opaca, come fossimo in un'altra dimensione dove tutto sfuma via.
Axel sembra perdersi in pensieri che non riesco ad afferrare, poi riporta l'attenzione su di me: «Tutto bene. Sono riuscito a trovare un lavoro, e ho pensato di venire qui per festeggiare.»
Sorrido. «Ma dai!» il mio entusiasmo è evidente, poso il bicchiere sul bancone. «Di che si tratta?»
«Ho trovato l'annuncio praticamente per caso» inizia, alzandosi per prendere i piatti – Axel è talmente abituato a venire da noi che ormai si comporta come se ci abitasse anche lui, in questa casa. «Stavo passando davanti ad un discount, quando ho visto il volantino. Cercavano un tatuatore in centro, sai, nello studio vicino al centro commerciale. Quello che c'era prima è partito per la Germania.»
Mi ricordo della sua esperienza come tatuatore, in uno studio in periferia, prima che scoprissero fino a che punto Axel fosse invischiato con la droga. Ricordo bene le sue occhiaie, quando ce lo disse.
«Sei tornato alle origini, quindi.»
«Era quello che mi ci voleva» è la sua risposta, mentre mi guarda con occhi che ora sembrano scavati, quasi simili a quelli del passato. Ed è come se rivedessi il fantasma che era una volta, quando io ed Erik andavamo a ordinare quella casa sempre troppo in disordine.
«La frittata è pronta» Erik sembra soddisfatto mentre lo pronuncia, prendendo un grande piatto dal mobile della cucina e avvicinandolo al fornello. «Raccontaci meglio di questo lavoro» si siede, poggia il piatto al centro del tavolo, taglia la sua porzione e si porta un primo boccone alle labbra. Gesti di routine, che sanno di famiglia.
«Sono in prova, ma sta andando bene» Axel si schermisce. «La mia esperienza precedente gioca a mio favore. Comunque è positivo che Lars – il capo – non mi giudichi male per i miei precedenti.»
«Dicci di più» Erik esprime curiosità, mentre lo guarda con gli occhi azzurri che luccicano.
«A dire il vero, Lars ha una strana caratteristica. Ma non voglio rivelare nulla» dice, serafico. «A proposito, che ne dite se domani facciamo una cena tutti insieme? Così ve lo faccio conoscere» sembra un bambino il giorno di Natale.
«Beh, domani siamo liberi» Erik mi guarda come per cercare approvazione. «Quindi, non so...»
«Per me va bene» dico, eliminando ogni possibile dubbio.
«Perfetto» sul viso di Axel è spuntato un grande sorriso. «Allora facciamo domani da me, alle otto e mezza.»
Non ho mai avuto problemi a conoscere persone nuove, ma è come se una strana scarica elettrica mi percorresse sottopelle, ramificandosi lungo le vene e prendendo possesso di tutto il mio corpo.
Venerdì
La strada che ho percorso stamattina per andare in Tribunale mi è sembrata più lunga del solito. La neve continuava a cadere e il cappuccio della mia giacca sembrava non bastare a coprirmi dal freddo, lasciandomi in balìa delle labbra screpolate, del naso gelido, del fastidio delle piccole particelle di neve che mi finivano nelle lenti a contatto.
La signorina Kelsen mi ha subito informata che la giudice Ildvar era di pessimo umore: in un'udienza aveva avuto a che fare con un uomo che aveva provato ad aggredirla. Un uomo con un occhio strano, giallognolo, affetto da non si sa quale malattia, che borbottava frasi sconnesse. Un ex militare ritirato, che aveva iniziato a fare il commesso in un negozio di alimentari, trovato a spargere in gesti convulsi della carne sul muro dietro alla cassa.
Sono dovuta andare in udienza con il giudice Kellar, che avrebbe preso in mano la situazione, aveva detto.
L'uomo, comunque, continuava a guardarlo come se lo volesse sfidare. Un'immagine che non scorderò mai.
Le mani erano ancora sporche di carne congelata, e il mio sguardo minuzioso poteva intravedere i pezzi di grasso sotto le unghie anche quando ormai l'udienza si era conclusa e l'uomo se ne stava andando, a passi lenti, come uno spaventapasseri umano. Aveva un'andatura dondolante, sconnessa.
Scuoto la testa, concentrandomi sulla cena di stasera.
Non ho idea di come sarà, né ho particolarmente voglia di conoscere Lars, in realtà – in questo momento, avrei solo voglia di dormire e di dimenticare quell'uomo che ho visto in udienza con Kellar. Mi faccio una doccia, lasciando che l'acqua calda mi accarezzi la pelle in un abbraccio umido e confortante. Erik non c'è ancora, ma non faccio in tempo a pensarlo che sento scattare la serratura della porta di casa, e la sua voce che mi chiama.
«Sono già pronta!» rispondo dal bagno, mentre mi infilo i pantaloni neri a zampa di elefante e una camicia viola. Ripasso il trucco, metto le zeppe, indosso gli orecchini; sono rimessa a nuovo, e voglio credere di esserlo anche dentro.
La casa di Axel è diversa da come me la ricordavo, quando arriviamo; la marea di oggetti che vedevamo prima si è ritirata con una risacca, quella confusione che gli infestava il cervello non si riversa più nell'ambiente circostante – forse resta tutta intrappolata nei meandri della sua testa, forse non c'è più ed è stata sepolta nel passato. Ha già apparecchiato ad arte: una tovaglia verde bosco che non ho mai visto ricopre il lungo tavolo donandogli un aspetto più elegante, i mobili grigi intorno appaiono sorprendentemente lucidi, come se fossero nuovi, comprati per l'occasione, mentre nell'ambiente sono diffusi bastoncini alla cannella che rendono l'aria densa e profumata. È un ritratto in cui tutto è simmetrico, racchiuso dalle angolazioni perfette della sua cornice.
«Lars dovrebbe arrivare a momenti» Axel ci accoglie con questa frase raggiungendoci nel suo ingresso colorato e pieno di stampe – e di nuovo quell'insolito entusiasmo che ho notato ieri, come se il suo datore di lavoro fosse una sorta di divinità. «Vi piace la casa?» dice poi, con un sorriso.
«Molto» rispondo, guardandolo. «Sono contenta che tu ora stia bene.»
Erik inizia a dare una mano ad Axel, mentre io sistemo le nostre cose nell'ingresso. I cappotti sono troppo ingombranti e rischiano di coprire altri oggetti della stanza – come una stampa con una sua foto in cima all'Everest. Il suonare del campanello mi fa sobbalzare. «Vado io» dico, lasciando perdere i cappotti e aprendo la porta.
Davanti a me c'è un uomo alto – talmente alto che sembra torreggiare sulla mia figura minuta. Gli occhi mi fissano con un'espressione che non so interpretare, e per un attimo sento che il sorriso che avevo già indossato si indebolisce – un vestito luccicante che viene stracciato di colpo da una mano invisibile.
«Buonasera», dice poi. «Sono Lars.» Si presenta senza dire il suo cognome, come se la sua identità si limitasse solo al nome che porta; tra le mani tiene una scatola di pasticcini, incartati con cura. La giacca nera che indossa ne definisce ancora di più le spalle, grandi, squadrate, e sembrano enormi, mentre mi fissa serio. Mi ricorda quell'uomo in udienza oggi, perché non posso fare a meno di focalizzarmi su un particolare che sta catturando il mio sguardo.
Gli occhi.
Non sono giallognoli, però.
Gli occhi di Lars hanno la sclera blu, sono un oceano elettrico sotto il fumo grigio dell'iride.
«Lars» Axel arriva con un sorriso smagliante, facendo togliere la giacca all'ospite. «La giacca la metto qui» e la poggia sul posto libero dell'attaccapanni. «Vieni. Ti faccio vedere la casa.»
La voce di Axel risuona in tutti gli ambienti, mentre mostra a Lars ogni stanza, illustrando centimetro per centimetro della sua casa. Sono indecisa se seguirli o meno; alla fine, raggiungo Erik in sala da pranzo, che mi sta guardando in maniera complice. So già cosa sta pensando, anche lui non ha potuto fare a meno di notare quel segno particolare che dà a Lars un aspetto bizzarro. Forse è tutto finto, forse è un trucco, ma non mi viene in mente nessun modo in cui si può fare una cosa del genere solo con il make-up.
Quando tornano in sala da pranzo, Axel porta in tavola i piatti: ha preparato una torta salata che sparge nella cucina il suo profumo invitante. La poggia al centro del tavolo, circondata dagli stuzzichini precedentemente disposti, e la taglia, mettendo con cura ogni fetta nei piatti; c'è un'attenzione maniacale, in quei gesti, una sorta di lenta meditazione, come se dovesse entrare in sintonia con quelle azioni a livello quasi mistico. Lars prende la sua nel più totale silenzio, appoggiandola delicatamente sul piatto; ne taglia un pezzo, con la stessa precisione che ha utilizzato Axel nel disporre tutto quanto, se la porta alla bocca e mastica. Nessuno di noi ha detto una parola, finora.
«Vi ringrazio per l'ospitalità» Lars prende parola, nell'assenza totale di argomenti di conversazione. «La casa è bellissima. Voi che lavoro fate?» Ha una voce profonda e vellutata, graffiante e calma allo stesso tempo. Contraddizioni bizzarre, caotiche, che mi rendono difficile inquadrarlo – incasellarlo da qualche parte nella mia testa. Non riesco in nessun modo a farmi un'idea, anche vaga, di che tipo di persona sia.
«Sono un'addetta all'ufficio per il processo del tribunale della città» prendo parola io, spezzando la tensione.
«Io lavoro per una ditta di informatica. Sono un programmatore» Erik parla con un filo di voce, senza smettere di osservarlo. Vorrei dirgli di evitare di guardarlo insistentemente.
«Lars ha un eyeball tattoo, un'esperienza che hanno fatto pochi tatuatori» Axel punta l'attenzione sul suo datore di lavoro. «È inchiostro, quello che vedete nei suoi occhi.»
«È molto doloroso, in realtà» il tono di Lars trasuda momenti vividi nella sua testa. «Sono l'unico della città ad averlo fatto.»
«Posso sapere come mai?» chiedo, poggiando il mento sul palmo della mano. «Insomma, ogni tatuaggio ha un significato, giusto? Quindi, perché questa scelta?»
Lars mi guarda, i suoi occhi assumono un'espressione vuota, come se si fosse congelato. Le iridi restano immobili, specchi fumosi sopra un oceano innaturale. Poi si alza senza dire niente, e se ne va, in mezzo allo stupore generale.
Nella cucina cala il silenzio – un silenzio che fa male, che si può tagliare. Lo sguardo di Axel adesso è puntato torvo su di noi, come se non ci riconoscesse più. «Perché l'avete fatto?» la voce è una lama ghiacciata che si abbatte sulle nostre teste tagliandole di netto.
«Fatto cosa?» Erik mi tiene un braccio mentre pronuncio quella frase, come a dirmi tacitamente che non avrei mai dovuto dire quelle parole.
«Non avreste dovuto dirlo» ci gela, prima di darci i nostri cappotti. «Andatevene subito.»
Giorno zero
Nei giorni seguenti non passiamo da Axel, né lui si fa sentire, come se un buco nero l'avesse inghiottito per sempre.
Continua a postare sui social foto di lui al lavoro, in trasferta con Lars, e con persone che non abbiamo mai visto, la felicità dipinta sul volto. Sorrisi che con noi sembrava non avere mai.
Erik continua a dirmi che dovrei lasciare perdere, ma più mi dice così, più il pensiero di quell'uomo si fa martellante; il suo atteggiamento – la sua stessa presenza – il suo modo di parlare, di porsi, tutto mi fa pensare che ci sia molto di più rispetto a ciò che abbiamo visto.
La tensione che Axel sprigiona quando parla di Lars è tangibile, il timore reverenziale nei confronti della sua figura, il modo in cui ci tiene che tutto sia perfetto – un atteggiamento che non gli ho mai visto addosso, che stride con il suo modo di essere.
«Vedrai che tornerà da solo, come del resto ha sempre fatto» mi dice Erik. Sono seduta al tavolo con una bistecca al sangue davanti, e finora non l'ho ancora toccata.
«Come fai ad essere così tranquillo?» la mia voce è monocorde, ma dentro sto esplodendo – non posso credere che Erik non stia facendo niente.
Mi alzo dal tavolo. «Io vado da Axel. So che è un tuo amico e che ci ha buttati, a suo tempo, in un mare di merda. Ma non ho voglia di starmene qui a guardare, mentre...» e la frase mi muore in gola, perché la verità è che non lo so nemmeno io cosa vorrei dire.
Mentre... cosa?
«Cosa?» quella parola, pronunciata in quel modo, mi fa solo innervosire di più.
«Senti, vado da lui» taglio corto, mentre prendo la giacca e le chiavi di casa. Le infilo nella tasca destra in un gesto brusco, e nel farlo sento quei pezzi di metallo graffiarmi il palmo della mano.
«Torna presto, però, e non fare cazzate» mi avverte Erik, il tono della voce a metà tra il premuroso e il perentorio. Mi chiudo dietro la porta chiudendomi dietro anche quella frase, mentre percorro il vialetto fatto di sassi bianchi, mi avvicino alla macchina e salgo in uno sbattere di portiere.
Guido troppo veloce, assecondando la rabbia che mi vibra sottopelle – un po' per l'improvviso allontanamento di Axel, un po' per l'atteggiamento passivo di Erik, che ora si mescolano confusamente nella mia testa.
Non è giusto lasciare andare tutto così; è vero che Axel ha sempre voluto che si rispettassero i suoi spazi, ma è anche vero che non possiamo sparire in questo modo dalla sua vita lasciandolo andare come se nulla fosse. La sensazione che si sia perso in qualcosa di più grande di lui aumenta di secondo in secondo come un'onda anomala mentre parcheggio vicino a casa sua, esco dalla macchina e mi reco al citofono a passo deciso.
Ci sono dei movimenti, al di là della porta – un trafficare di oggetti. Sembra che qualcosa venga trascinato sul pavimento – sento dei colpi, come se qualcuno stesse spostando delle scatole.
Sta traslocando? Ha deciso di cambiare quartiere?
Suono al campanello, decisa. «Axel, sono io» aggiungo, ad alta voce.
Dall'altra parte, d'improvviso, cala il silenzio.
Poi uno zampettare frenetico, un rumore viscido.
Mi congelo, chiedendomi cosa stia succedendo, e per un momento sto in silenzio. Adesso c'è un pulsare di cui non riesco a capire l'origine, che non posso fare a meno di ascoltare con morbosa curiosità, come un cuore lontano che batte distratto.
La porta fa uno scatto, ma nessuno la apre per accogliermi.
Non so se aprirla, perché d'improvviso non so se voglio vedere cosa stia facendo Axel – è diventato uno sconosciuto, ormai, ha perso le vesti di amico del mio ragazzo che tutte le sere o quasi viene a mangiare a casa mia. Le mani hanno iniziato a tremarmi, e l'orribile sensazione che non riuscirò nemmeno a tenere ben salda la maniglia si fa spazio dentro di me. Vorrei andarmene, ma è come se fossi piantata nel terreno.
Il rumore viscido si ripete. Dei passi si avvicinano alla porta. Chiudo gli occhi.
«Ciao, Alma» è la voce di Lars a colpirmi come un proiettile, e apro gli occhi di colpo. Tutto sembra succedere al rallentatore: mi tira con violenza nella casa di Axel, chiudendo la porta in un gesto deciso, e mi trovo catapultata nel soggiorno del ragazzo che per anni ho frequentato senza conoscere affatto.
È seduto sul divano, mi guarda con occhi vuoti. Occhi che adesso hanno le sclere blu, esattamente come quelle di Lars; un colore alieno, che mi dà la sensazione di essere in un mondo onirico in cui il tempo non esiste e sono circondata da creature fatte della stessa sostanza degli incubi.
«Il tuo arrivo è stato provvidenziale, in realtà» aggiunge poi – Axel sta ancora in silenzio, è immerso in quello che appare uno stato meditativo. «La tua presenza sarà fondamentale.» Le scatole accumulate in giro sembrano scheletri di qualcosa che deve essere riportato in vita. Non riesco a dire una parola.
Solo quando guardo al di là delle spalle di Axel mi rendo conto della creatura che gli sta vicino: ha un colore livido, insalubre. Appollaiata vicino a lui, sta in posizione rattrappita, le braccia scheletriche che pendono come rami secchi. Si arrampica sul suo corpo, mentre il ragazzo non si muove, solo i muscoli del viso vibrano in modo impercettibile.
Le mani della creatura sono grandi, lucide, violacee – sembrano ustionate. Arrivano alle guance voltando il viso di Axel, che inizia a piangere; un pianto senza singhiozzi in cui le lacrime scivolano in un tacito cammino, come se ogni rimasuglio di emozione fosse stata completamente spazzata via. Il blu elettrico della sclera non si arrossa, resta lo stralcio immobile di un oceano geneticamente modificato.
Non riesco a distogliere lo sguardo, anche se vorrei tanto farlo.
La creatura ha un volto; un volto deforme che ricorda un essere umano – ma non può esserlo, non può esistere una persona con quegli occhi vacui. Sono scuri, vuoti, animaleschi, come se si rendessero a malapena conto di quello che sta succedendo. Guardano Axel ipnotizzati, ciechi, inconsapevoli, mentre l'essere si avvicina alla sua faccia e la sua bocca sottile e screpolata succhia via le lacrime, tirando la pelle del volto in uno scivolare di labbra.
È un atto studiato, sentito. Axel è impassibile, Lars mi guarda.
«Questo è Elìo» dice, avvicinandosi. Parla sottovoce, non vuole infrangere quel rituale. «Non posso farlo vedere a chiunque.»
Non riesco a parlare. Il corpo di Elìo non ha neanche sembianze umane, è fatto di peli ed epidermide rossastra; non porta abiti, la sua nudità fa di lui un blocco a metà fra l'essere umano e qualcosa che esiste solo nei libri dell'orrore. Non riesco a fare niente, se non guardare questa scena morbosa e ascoltare la voce di Lars che mi parla con suadente calma.
«Elìo, come vedi, è gravemente deforme. Quando io e mia moglie lo abbiamo trovato, durante uno dei nostri viaggi, lo abbiamo preso subito sotto la nostra ala protettrice. Non parla, fatta eccezione per qualche suono.»
Pausa.
«Elìo beve lacrime umane per vivere. Le lacrime lo fanno parlare, per un po'.»
Elìo continua, impassibile, a prendersi le lacrime di Axel, che ora ha gli occhi secchi e gonfi. Non l'ho mai visto così, la pelle dello stesso colore malsano di quella dei cadaveri. Non smette di offrirsi al suo parassita, come se esistesse unicamente in sua funzione.
Dopo una manciata di secondi che sembrano eterni l'essere alza la sua testa rotonda come una palla da biliardo e mi fissa. Mi studia, reclina il collo, lascia ricadere le braccia lungo il suo corpo ruvido come la corteccia di un albero.
«Da quando ho capito di cosa avesse bisogno ho cercato il più possibile di circondarmi di persone che potessero darmi una mano. Che non avessero pregiudizi di sorta. So che non ha un bell'aspetto: penserai che avrei dovuto ucciderlo, per alleviare le sue sofferenze. Ma la verità è che ha bisogni molto semplici, che possono essere assecondati con facilità.»
La suoneria del mio cellulare, inopportuna in quello scenario, spezza il silenzio che si era venuto a creare. Sarà sicuramente Erik, che si vuole assicurare che sia tutto a posto; il mio cervello realizza che, probabilmente, è passata un'infinità di tempo, e che forse non uscirò viva da qui. La mia routine con lui e il mondo là fuori sembra improvvisamente finito nella gola di Elìo, inghiottito insieme alle lacrime di Axel. Il cellulare suona a vuoto, poi si spegne, restando muto.
«Se questi bisogni non vengono assecondati, Elìo può fare cose orribili. Davvero orribili» la sua voce è fumo che si disperde nell'aria e che racconta immagini lugubri. Si volta, percorre la sala da pranzo di Axel come se fosse quella di casa sua. Sul mobile vicino al camino ci sono delle fotografie messe a faccia in giù – tre, per la precisione. Le prende, poi me le mostra. Io non voglio vederle.
Nella prima c'è Elìo con la bocca affondata nel collo di un ragazzo. Il modo in cui la sua espressione racchiude tutto il terrore di quell'istante mi fa sentire come se mi stessi sciogliendo. Gli occhi fuori dalle orbite, la faccia livida e rigata dalle lacrime. Il collo è ormai un pezzo di carne maciullata da un pazzo furioso. I muscoli si vedono nitidamente, striati e pulsanti.
Non voglio continuare a guardare.
La seconda foto ritrae una bambina con le trecce. Sdraiata tra le braccia di Lars, che le tiene il collo reclinato all'indietro. Quel collo esile e roseo è un ciocco di legno aperto in due, solo che è fatto di pelle e sangue. Un ciocco grondante resina di un rosso intenso.
Elìo si sta arrampicando sulle gambe della bambina e sembra un ragno carbonizzato.
La terza foto non la dimenticherò mai. L'urlo che scalpita per poter uscire dalla mia bocca resta confinato lì, perché non ce la faccio a farlo uscire, vibra sulle corde vocali sapendo che non avrà mai l'occasione di essere reale.
C'è una ragazza, nella foto.
È appesa a testa in giù dal soffitto di una casa che dev'essere quella di Lars, come fosse un animale da macello. È seria, a differenza degli altri il suo viso non è una maschera di terrore.
Non ha l'espressione della morte impressa tra i lineamenti, il suo corpo però è stracciato da una ferita troppo larga perché chi l'ha subìta rimanga in vita. Una dicotomia che mi frammenta il cervello e mi mangia gli organi interni. Elìo, in quel macabro quadro, è rannicchiato a terra, vicino alla nuvola di inchiostro che sono i capelli della ragazza.
«Queste sono state delle volte che ho potuto immortalarlo. La ragazza che vedi nell'ultima foto è rimasta in vita a lungo, prima di lasciarci. Le sue lacrime avevano un potere speciale» cosa intende? «Quando ho preso quello studio di tatuaggi in centro, ho spiegato ad ogni dipendente che Elìo doveva essere tenuto a bada. Ognuno di quelli che sono stati marchiati ha il compito di evitare che questi episodi avvengano, esattamente come me. Ecco il significato dell'inchiostro azzurro negli occhi. Ecco la risposta alla domanda che mi hai fatto.»
Un gorgoglio riempie la stanza; le corde vocali di Elìo stanno vibrando, emettono suoni gutturali – i suoni prodotti dallo sforzo di una laringe non allenata. Mi guarda con i suoi occhi vuoti, la bocca tremolante.
Inizio a piangere, lacrime di paura abbandonano le mie ciglia allungate dal mascara. Non riesco più a prestare attenzione ad Axel, che ora è abbandonato sulla sedia come un manichino di plastica.
«Ha sentito le tue lacrime» dice Lars. «Ha ancora fame.»
Quando si avvicina riesco solo a guardarlo, consapevole del fatto che quell'immagine grottesca non se ne andrà più da me. Arriva lentamente, guardandomi curioso; le sue mani sfiorano la mia pelle in un modo attento, come a voler saggiare la consistenza di un corpo estraneo.
Poi la sua bocca si posa vicino ai miei occhi.
Sentirlo succhiare su di me è ancora più disgustoso che vederlo attaccato alle guance di Axel, le sue labbra sono una lumaca violacea che lascia scie sulla mia pelle. Resta a lungo, per un tempo che sembra dilatato, perso nell'etere. Il mondo si sta frammentando, il confine tra cosa è reale e cosa non lo è si fa sempre più sottile, tutto vortica nella mia testa in un caleidoscopio di luci.
«Non era previsto che saresti stata dentro anche tu» la voce di Lars è una frusta. «Ma è successo. Dovrai tornare, essere qui ogni volta che te lo dirò. Dobbiamo occuparci di lui, per far sì che se ne stia buono.»
Ho gli occhi secchi anche io, adesso. Elìo mi guarda con quelle biglie cieche, quasi prive di palpebre.
«Adesso puoi andare» dice Lars. «Tornerai quando ce ne sarà bisogno.»
Dopo
Erik ha notato qualcosa di diverso, in me. Mi guarda con occhi apprensivi, così normali a confronto con quelli che ho visto quella notte. Così stonati in quello che, adesso, è diventato l'unico mondo in cui so esistere, dove i colori non ci sono più – solo il blu elettrico e la trasparenza delle lacrime. Mi chiede più volte quale sia il problema, se va tutto bene, ma mi rendo conto che riesco solo a tirare fuori parole vuote riferite al lavoro e giustificazioni deboli.
La mia vita sembra scorrermi davanti come tante diapositive in successione che percepisco lontane, come se non avessero nulla a che fare con quello che, fino a poco tempo fa, sentivo mio. Il mio mondo sta crollando, si sta frammentando. Me ne rendo conto solo quando passo davanti allo specchio e vedo lo spettro di quella che ero prima. L'aspetto non è più così curato, l'abbigliamento è sempre lo stesso ma c'è qualcosa, nel mio volto, che mi fa apparire diversa – rovinata. Deforme, esattamente come Elìo.
Il telefono squilla, come ha fatto quella notte in cui tutto è cambiato; me ne accorgo con un sobbalzo, iniziando a rovistare nella borsa per afferrarlo il prima possibile. «Sì?» rispondo, e la mia voce è un filo sottile su cui cammino sapendo che cadrò.
«Devi venire a nutrirlo» è la voce di Lars a schiaffeggiarmi i timpani, anche se sta parlando quasi sottovoce. «Ha bisogno delle tue lacrime.»
So che, da adesso in poi, esisterò solo in funzione di questo. Non ho la forza di trovare una via di fuga, un modo per spezzare la catena che si sta stringendo sempre di più, perché non ci sarà una fine a quello che è appena iniziato.
Non c'è niente di ragionevole, in tutto questo, solo gli incubi.
*
Erik saluta Alma mentre porta via le sue cose, lo sguardo vacuo. Alma gli ha detto che lo ha tradito, le lacrime che le inumidivano gli occhi dalle ciglia lunghe. Quelle parole sono un ritornello angosciante nelle sue orecchie, sono spilli che gli trafiggono il petto e rilasciano veleno.
Una frase che ha cambiato tutto, che ha fatto di ciò che avevano un mucchietto di polvere.
Non credeva che le avrebbe mai detto di andarsene, di sparire dalla sua vita e non tornare più. Eppure, non era riuscito a fare altrimenti. È un deserto, adesso, una foresta carbonizzata.
Erik sente che ha un buco al posto del petto, che inghiotte qualunque cosa. Si sente svanire nel nulla. La casa che condividevano appare il guscio vuoto di un animale morto.
Alma si allontana, infrangendo la loro vita insieme, quello che è stato e quello che poteva ancora essere. Non lo saluta nemmeno, sembra un'altra persona – forse, realizza adesso, non l'ha mai conosciuta davvero. Forse si è tenuto accanto qualcuno che nascondeva desideri completamente diversi da quelli che mostrava di avere.
Forse era sempre stato tutto quanto un'illusione.
Non le ha chiesto il perché di quei lividi che aveva sulla faccia, quando gli ha detto che si era innamorata di Axel e che la loro relazione le stava stretta.
Adesso spera solo che, da ora in avanti, stia bene, anche senza di lui.
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