46. Fuoco e fiamme
Sapevo che mio padre voleva fare altre domande, ma qualcosa nello sguardo di Amber lo convinse.
Senza emettere fiato, papà gliele consegnò.
Amber mise in moto, ingranando la retromarcia. Pigiò sull'acceleratore e il mio corpo fu spinto in avanti.
Poi ingranò la prima bruscamente e partì a razzo, strattonando il mio corpo all'indietro.
Avevo già i principi di vomito alla partenza.
Amber urtò parecchie auto prima di uscire dal parcheggio e ogni incidente era un colpo di frusta al mio povero collo.
«Attenta a quelli!» gridai agitata indicando un gruppo di persone davanti a noi.
Ma Amber non rallentò, anzi, accelerò ancora di più.
Strinsi gli occhi, pronta a sentire il tonfo dei loro corpi sul parabrezza ma ciò non accadde.
Guardandomi indietro vidi che erano a terra, presi dalla fretta di buttarsi di lato.
In men che non si dica lì vidi rialzarsi e correre verso di noi, anche se le loro speranze erano vane.
Realizzai che probabilmente erano gli "inseguitori" di cui parlava Amber.
Una volta seminati mi azzardai ad informarmi.
«Chi sono? Cosa vogliono?»
Io e mia madre parlammo all'unisono. Ci guardammo entrambe, come se nessuno delle due si fosse aspettata la stessa domanda dall'altra.
Mio padre, nel frattempo, teneva semplicemente gli occhi serrati e la mano che stringeva il sedile e la maniglia.
«Ribelli, più precisamente gli Ignis dello Yeti.»
sibilò Amber incavolata nera.
«Tutto perché Susan è tornata.» aggiunse con gli occhi ambrati spalancati dalla rabbia, mista alla onnipresente paura.
Rimasi scioccata a quella rivelazione, ma mai quanto mia madre.
«Ma... Che... Che diavolo significa tutto ciò?!» esclamò sconvolta.
Avrei voluto spiegarle tutto, in modo da aiutarla, ma non c'era tempo.
Amber guidava come una pazza, attraversava con il rosso e negli incroci obbligava le altre auto a fermarsi tagliando loro la strada.
Io e i miei genitori venivamo strattonati come bambole di pezza, nonostante la cintura di sicurezza.
Dato che la mia madrina non aveva intenzione di rallentare nemmeno alle curve, avrei potuto vomitare in quell'istante se lo stomaco non l'avessi perso all'ospedale. Altro che spiegazioni da dare alla mamma.
«Ci ucciderai così!» si lamentò mio padre riuscendo a non mordersi la lingua.
«Come sei riuscita a scappare?!» gridai cercando di farmi sentire.
Non era né il luogo né il momento adatto a quella domanda, eppure, era la prima che era uscita dalle mie labbra. Però mi serviva a non pensare ad un incidente stradale imminente.
«Gli amici di cui ti parlavo. Mi hanno salvato loro prima che arrivassi a Philadelphia» mi disse.
«Fermati! Lascia che prendano me! Così rischiamo di farci ammazzare!» gridò mia madre ignorante della nostra conversazione.
«Non dire idiozie! Non ti abbandonerei mai, Theresa!» le urlò contro Amber.
Fu in quel momento che avvenne.
Non la vedemmo arrivare.
Il camioncino nero era spuntato dal nulla e c'era venuto addosso, colpendo con violenza la parte del guidatore.
L'auto si ribaltò e rotolò più volte e i vetri si infransero.
Probabilmente svenni nel mentre, perché quando riaprii gli occhi mi ritrovai con la guancia schiacciata contro il soffitto dell'auto e quella che avrebbe dovuto essere la mia gamba stranamente vicina alla faccia.
Cercai di muovermi e fu un gravissimo errore, perché un dolore acuto mi fece quasi svenire di nuovo.
Riuscii comunque a voltare la testa e avrei urlato se non fossi stata mezza morta.
Gli occhi ambrati di Amber erano fissi su di me, ma erano vitrei, senza più vita.
NO!
Urlai nella mia mente, poiché le mie corde vocali erano decisamente fuori uso.
Mamma, papà pensai immediatamente dopo.
Dovevo riuscire a uscire di lì e salvarli. Ma ogni mio movimento mi causava agonie atroci.
La portiera dell'auto si spalancò e vidi due scarponi con la pianta del piede verso l'alto. Anche l'asfalto su cui erano poggiati era in alto. Non aveva senso, la terra era in cielo.
Il proprietario degli scarponi mi trascinò fuori dall'auto facendo urlare tutto il mio corpo dolorante. Ma dalla mia gola non uscì ancora niente.
Non sapevo nemmeno se fossi cosciente o meno.
L'individuo poggiò due dita fredde sul mio collo per sentire le pulsazioni.
«È viva! Grazie al cielo! O Susan ci avrebbe ammazzato!» esclamò quello che mi teneva ancora.
Il mio corpo era molle e non rispondeva ai miei comandi.
Qualcun altro stava trascinando fuori mia madre. Lei aveva il braccio piegato in una strana angolatura e il volto totalmente insanguinato.
Anche a lei sentirono le pulsazioni.
«È viva anche questa!» esclamò l'altro.
Oh! Grazie al cielo!
Quell'uomo la stava portando sul furgoncino nero.
Una consapevolezza lontana sapeva che se fosse salita, non l'avrei più rivista. Dovevo impedirglielo.
Il dolore tempra la volontà. E a te basterà volere.
Sentii una voce sussurrarmi. Ma non era la mia.
La frase venne ripetuta più volte nella mia testa e la riconobbi come quella di Nonno Chris. Eppure, non mi sembrava di ricordare che mi avesse mai detto una cosa del genere.
Un dolore più acuto di quello fisico mi colpì alla testa. Ma era un dolore che veniva dall'interno. Era come se il mio cervello avesse deciso di esplodere, ribollendo nel mio cranio.
Improvvisamente il terreno iniziò a tremare. Delle grosse crepe si stavano formando sull'asfalto; il vento prese a tirare strappando il tizio che mi aveva tirato fuori da me.
Niente fuoco, pensai.
Il fuoco farebbe esplodere l'auto e dentro c'è ancora papà.
Quei pensieri non sembravano nemmeno i miei, talmente erano freddi e razionali.
Inoltre, non pensavo di avere ancora la forza di pensare.
In qualche modo, riuscii a mettermi seduta e a vedere cosa stesse accadendo.
Mi trovavo nell'occhio di un ciclone. Tutto intorno a me infuriava un vento potentissimo che strattonava e provocava vari tagli a tre uomini che tentavano invano di accendere delle fiamme.
Mia madre era adagiata poco lontano, immune alla furia del tornado.
Il terreno si aprì e inghiottì due uomini.
Il ciclone cessò e il terremoto finì.
L'uomo rimasto si rialzò a fatica, tremante e per un momento i nostri sguardi si incrociarono. Nei suoi occhi si leggeva la paura, la paura di me.
Nonostante ciò, riuscì a prendere mia madre in braccio e a portarla nel furgone.
Partì, e io non potevo farci niente perché crollai a terra, consapevole che mia madre era stata portata via.
E poi l'oscurità mi prese a sé.
***
«Non si sveglia. Perché non si sveglia?!»
«Non capisco Miss Sharp, fisicamente è guarita...»
«È così da troppo tempo...»
«Le dia tempo, Miss Sharp.»
Qualcuno mi prese la mano.
«Ti prego, ti prego, svegliati. Non abbandonarmi. Tuo padre è vivo, ha bisogno di te. Tutti hanno bisogno di te ora. Non mi spaventare così, Sof» sentii dire.
«Mi stai uccidendo la mano» sussurrai con la voce roca.
La sentii tirare un sospiro di sollievo mentre la presa stringeva ancora di più.
«Vado ad avvertire la Dottoressa.» disse la voce di un uomo.
«Ti saresti dovuta svegliare cinque giorni fa! Ti hanno iniettato... Dannazione! Questi macchinari non hanno mai sbagliato! Non capisco perché tu non ti svegliassi nemmeno con la stimolazione olfattiva e mi stavo...»
«Ora sono sveglia» tagliai corto.
Sono svenuta da cinque giorni?
Aprii gli occhi ritrovandomi in una stanza vagamente familiare.
Quando misi a fuoco gli elementi attorno a me, ci arrivai: l'infermeria della B.L.C.
Piano piano ricordai cosa accadde l'ultima volta che avevo gli occhi aperti e l'ansia mi prese il petto.
«Dove sono i miei genitori?» chiesi immediatamente non appena mi misi seduta.
«Sof, ti sei appena ripresa, non dovresti fare sforzi...»
«Dove sono i miei genitori?!» ripetei più forte.
Jo distolse lo sguardo da me, un gesto che mi spaventò.
Le afferrai di scatto le spalle. Il gesto improvviso mi provocò un capogiro.
«Tuo padre è vivo.» mi disse prima di mordersi nervosamente il labbro inferiore.
«Che gli è successo? Dov'è ora? E mia madre?» ... e Amber? Aggiunsi nella mia testa.
«Mi spiace Sof...» Jo scosse la testa.
«No....» sussurrai confusa e affranta.
«Non scusati. Per cosa poi? No....» dissi incapace di concepire qualcosa di sensato da dire.
«Tuo padre è ancora incosciente, ma sembra aver subito danni abbastanza gravi... È stato portato dai Popolani all'ospedale di San Francisco. Si prenderanno cura di lui.» disse Jo facendomi sgranare gli occhi.
Mi coprii la bocca con le mani, soffocando i terribili singhiozzi che mi stavano per assalire.
Non avevo nemmeno il coraggio di chiedere di mia madre, tanto ormai avevo capito.
Lo sapevo.
Jo comunque me lo disse: «Tua madre è stata presa dai Ribelli... E quella donna, Amber Keller è morta...».
Le mie lacrime furono silenziose, ma il mio sconvolgimento interiore faceva gridare di dolore il mio cuore. Mi bruciava il petto e il respiro era affannoso.
I lamenti che emettevo erano flebili e deboli.
«Sof...» Jo mi appoggiò una mano sulla spalla e prese ad accarezzarmi. Poi mi abbracciò.
Non riuscivo a trovare conforto in quell'atto di gentilezza, poiché troppo depressa dal mio dolore.
«Sei patetica.» disse una voce.
«Skyler!» esclamò Jo indignata.
Io alzai lo sguardo verso la rossa che era appena entrata nella stanza.
«Puoi sentire dolore, ma non puoi crogiolarti in questo modo. I tuoi genitori sono vivi no? Gioisci per questo.» continuò imperterrita ignorando Jo.
«Ha il diritto di soffrire. Tutti possono essere deboli in queste situazioni. Non è sola, mi occuperò io di essere forte per lei.» sibilò Jo.
Guardai la mia amica stupita. Non mi aspettavo quelle parole.
«No che non ne ha il diritto. Perché quando ci si lascia prendere dal dolore non si riesce più ad emergere. E lei ha bisogno di emergere, in modo da esserci per i suoi genitori. Quando accettiamo la spalla di qualcuno che si carica delle nostre sofferenze ci fidiamo a tal punto che quando questa persona ci tradisce, ci distrugge.» disse Skyler guardando me.
«Sono la sua migliore amica, ci fidiamo l'una dell'altra, non le farei mai del male.» dichiarò Jo.
«Ah sì?» commentò Skyler.
Mi aspettai che Jo replicasse per le rime, ma invece non lo fece.
«Non le farei mai del male.» ripeté a bassa voce.
Strinse la mano alla mia e mi guardò.
Non piangevo più, stranamente, quello che aveva detto Skyler, mi aveva tranquillizzata.
«Io devo esserci per loro.» dissi.
«Cos'è successo realmente?» cercai di controllare il mio tono di voce, ma la voce tremante dal pianto c'era ancora.
«A questo riceverai risposta più tardi. Ora che sei finalmente sveglia, è ora di incontrare tuo nonno.» disse Skyler che evidentemente era venuta per quel motivo.
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