42. Non c'è due senza tre

Sono pazza.

Probabilmente era qualcosa di veramente grave perché non era nemmeno la prima volta che decidevo di vedermi da sola con colui che mi voleva far uccidere.

Riuscii a riposare tutto il pomeriggio in modo da poter essere sveglia e attiva per mezzanotte.

Mia madre e mio padre non mi avevano mai disturbata, forse perché si sentivano comunque in colpa per avermi privato della mia stanza e costretta in quella degli ospiti.

Meglio che mi credessero offesa.

Non si sarebbero meravigliati o insospettiti del mio silenzio.

Ci volevano dieci minuti per arrivare al cantiere, ma ci voleva almeno un'ora per fuggire di casa senza che i miei se ne accorgessero.

Furtiva, aprii la porta per uscire.

Lanciai uno sguardo al corridoio e constatai che non c'era nessuno.

Passai davanti alla porta della camera dei miei genitori avvicinandomi con l'orecchio teso.

Non si sentiva alcun rumore.

Speravo solo che nessuno dei due si fosse svegliato per il giro al bagno notturno o per bere.

Ero felice che le scale di casa mia non scricchiolassero come nei film o nei libri. Era assurdo che ogni volta il protagonista venisse tradito da delle scale.

Riuscii ad arrivare al piano terra sana e salva e mi stavo già complimentando con me stessa quando sentii la porta della camera dei miei aprirsi.

Mi guardai attorno veloce e andai a nascondermi dietro al divano.

I passi leggeri di mia madre la condussero fuori dalla porta di casa.

Mi accigliai.

Dove andava mia madre a quest'ora?

Rimasi in attesa, ma non sentii l'auto della macchia partire.

Pensando che si fosse allontanata a piedi, tentai di uscire dal mio nascondiglio, ma la porta di casa si aprì di nuovo, obbligandomi a eclissarmi con il divano nuovamente.

Mia madre risalì le scale e come se niente fosse ritornò in camera.

Magari era sonnambula.

Controllando il telefono realizzai che era quasi mezzanotte e mi affrettai a uscire di casa.

I lampioni erano accesi, ma per evitare che dei vicini curiosi mi vedessero, cercai di passare nelle zone più esterne della luce, in modo da non essere nemmeno totalmente al buio.

Il quartiere era silenzioso.

Qualche volta, in estate, si organizzava qualche evento di quartiere che teneva i californiani svegli fino all'alba. Ma ovviamente c'erano anche giorni di gennaio come quelli, dove la gente aveva troppo freddo anche solo per pensare.

Mi diressi a passo spedito verso il cantiere abbandonato, che all'esterno sembrava ancora più spaventoso del solito.

Scavalcato il recinto rotto, mi diressi verso la parte interna.

Il capanno dove mi rifugiavo sempre era illuminato e senza alcun dubbio mi diressi lì.

Bussai alla porta e attesi che lui mi venisse ad aprire. Ma non era James che mi accolse. Il volto davanti a me era assai più gentile e femminile.

«Amber...» sussurrai.

Immediatamente mi venne il dubbio di essere stata ingannata e che Amber era la Vedova di Ghiaccio, di cui avevo sentito parlare a Boston, di cui era al servizio quell'imbecille di Kade o, peggio ancora, era Susan Blackwood in incognito.

Spaventata, mi voltai di scatto, pronta a fuggire.

«Sophie! Aspetta! Ti devo solo parlare!» esclamò lei inseguendomi.

Ero più veloce di lei e riuscii ad infilarmi in uno dei tubi d'acciaio per nascondermi senza che lei mi vedesse.

«Sophie! Ti puoi fidare! Non sono nemmeno un Imperium!» la sentii chiamarmi.

«Mi ha contattato James per permettermi di parlarti! Sono l'unica che ti può dare delle prove sulla verità.» insistette.

«Chi mi dice che non sei La Vedova di Ghiaccio o Susan Blackwood?» chiesi. La mia voce uscì come un eco dai tubi e fu impossibile per lei capire da dove provenisse.

«Perché Susan Blackwood avrà almeno il doppio della mia età e la Vedova di Ghiaccio non si sporcherebbe mai le mani. Come tutti i Luogotenenti, James escluso, lei comanda gli altri.» spiegò.

Potevo non crederle. Poteva benissimo mentire o essere agli ordini di qualcun altro.

Ma se avevo ascoltato James Sharp cosa mi impediva di dare retta anche a lei?

Uscii dal tubo e mi presentai davanti a lei che mi sorrise sollevata.

«Rientriamo? Fa ancora freddo.» mi incitò con un cenno verso il capanno.

Annuii e la seguii.

«Tu non hai recuperato la memoria» affermò chiudendosi la porta alle spalle.

«Cosa?» chiesi confusa mentre lei si accomodava sui miei vecchi cuscini.

«Appunto» borbottò lei ignorandomi.

Mi passò alcuni cuscini che io accettai, ma non mi sedetti. Ero troppo nervosa per sedermi.

«Sophie, la prima cosa che devi sapere è che non devi fidarti di tuo nonno, capito?» disse seria.

«Cosa?» ripetei sempre più disorientata.

«La B.L.C. non è quello che sembra» iniziò a spiegarmi.

«E lo dici come Ribelle o come membro effettivo?» chiesi scettica.

«Da nessuno dei due, se parliamo di cuori» disse lei decisa.

«Se parliamo dello status sono ancora un membro attivo della B.L.C.» affermò guardandomi negli occhi.

Si alzò per dirigersi verso di me, ma io indietreggiai.

Accettò la mia distanza di sicurezza e non avanzò oltre.

«Sophie, devi capire che il mondo non è diviso solo da B.L.C. e Ribelli. Non tutti vogliono essere parte di tutto ciò, non tutti si schierano. E nemmeno tu e tua madre lo volevate» mi disse.

Il mio cuore prese a battere velocemente. Sapevo di avere già la risposta ma la mia mente non l'aveva ancora elaborate.

«Ma che stai farneticando?» esclamai irritata dal fatto di non riuscire a collegare i fili. Avevo i pezzi del puzzle tutti lì.

«Volevamo tenerti fuori da tutto questo... Ma ormai ci sei dentro fino al collo... Anzi sei sempre stata dentro, tuo nonno non ti ha mai lasciato andare e... Sicuramente nemmeno Lei.» continuò Amber che si faceva sempre più agitata. Sembrava che stesse correndo contro il tempo e non riuscisse a mettere le informazioni in ordine.

«Lei chi? Susan Blackwood?» chiesi per invitarla a spiegarsi meglio.

La donna si morse il labbro.

«Non lo sai...» sussurrò abbattuta «Tuo nonno ti ha nascosto anche questo?»

«Senti un po', o parli chiaro o non lo fai!» sbottai irritata. «Non lo so? Dimmelo tu allora! Sei qui per questo, no?»

Incredibilmente sul volto di lei comparve un sorriso.

«Non sei cambiata per niente...» fece per accarezzarmi il volto ma si bloccò a mezz'aria cambiando idea.

«Dimmi, quando se ne sono accorti?» si riprese.

«Accorti di cosa? Non ti avevo detto di parlare chiaro?» esclamai sempre più furiosa.

La mia pazienza era limitata.

«Perdonami, Sophie. È che non so quanto sai e ci sono certe cose che preferirei non dirtele io. Ma ti prego di fidarti di me. Conoscevo tua madre, conoscevo la donna prima che venisse sottoposta al Flash; quella donna carismatica e coraggiosa; la donna che ha fatto tutto per proteggerti; quella che ha rinunciato alla propria memoria per te.» mi rivelò.

Mi accigliai.

Eravamo sicuri che stavamo intendendo la stessa donna?

Non avevo mai considerato Theresa Hunter una donna coraggiosa, dopotutto saltava sul tavolo ogni volta che vedeva un ragno chiamando a squarciagola papà.

«Intendi dire che mia madre ha scelto la vita normale per tenermi al sicuro?» chiesi confusa.

In effetti era più plausibile che fosse cresciuta sapendo della B.L.C.

Dopotutto, secondo mia madre, l'incidente stradale dove aveva perso i suoi genitori c'era stato quando aveva circa sedici anni.

«Tua madre voleva tenerti al sicuro dalla B.L.C.» continuò.

Scossi la testa, continuando a non capire. Mancava qualcosa in quel che diceva.

«Sai dell'Element, vero?» fece un passo indietro.

Annuii.

«Ti sei mai chiesta perché tu non abbia i poteri?»

Certo che me lo sono chiesta, che domande sono? Avrei voluto gridarle ma risposi: «Nonno non voleva»

«Eppure Arianne ce li ha» mi fece notare guardandomi come a incitarmi ragiona, so che ci puoi arrivare.

Me ne ero resa conto. Ma mi avevano detto che era perché Arianne non aveva nessuno e io una famiglia.

Nonno Chris era l'unico che si poteva occupare di lei e aveva bisogno di proteggersi da sola. Solo che i conti non mi tornavano ugualmente nonostante questa spiegazione.

«Sophie, Christopher Barker è un uomo orgoglioso, non desidera il meglio per i familiari, lui vuole che i suoi familiari siano il meglio, per poter dimostrare che si merita il potere» mi spiegò.

Mi diede fastidio che continuasse a insultare il nonno, ma non perché mi fidassi di lui. Semplicemente perché lui era mio nonno, una parte della mia famiglia e lei era una donna spuntata dal nulla.

«Perché dovrei crederti, non ti conosco» dissi guardandola con circospezione.

«Ma tu mi conoscevi.» disse con un dolce sorriso sincero. «Sono la tua madrina» lanciò la bomba.

Una nuova cugina, un nuovo zio morto, un nuovo nonno non più morto e ora una nuova madrina... Era troppo in due mesi. «Provamelo» la sfidai.

Prontamente, la donna tirò fuori una foto dalla tasca e me la porse.

«Lo sapevo che me l'avresti chiesto. Sei sempre stata restia a fidarti delle persone.»

Presi la foto tra le mani e inarcai il sopracciglio, guardandola con scetticismo. Ma poi abbassai lo sguardo.

Nella foto riconobbi immediatamente mia madre. Una versione più giovane, ma con uno sguardo diverso.

Aveva l'aria più vissuta che nel presente, non sembrava lei eppure era inconfondibile.

Teneva in braccio una bambina di tre anni con il broncio, i capelli neri erano raccolti in due treccine e gli occhi verdi fulminavano l'obbiettivo. Mi riconobbi immediatamente.

Mi aspettavo ci fosse anche Amber nella foto ma eravamo solo io e mia madre.

«Potr... Potresti averla rubata» balbettai mentre passavo il dito sulla fronte della bambina, come se il semplice gesto le avrebbe fatto distendere la fronte.

«Io ero la fotografa e non l'ho rubata. Da chi poi? Tu in casa non ne hai»

Sollevai le sopracciglia, stupita.

Era vero, non avevo foto d'infanzia. La foto più giovane che avevo era quella dell'ecografia e non credo che quella contasse. Poi passava subito ad un orribile foto di una ragazzina brufolosa di tredici anni seduta su un'altalena.

Mamma mi aveva raccontato che le aveva perse.

Inoltre, se le avesse rubate dalla B.L.C., avrebbe confermato ugualmente quel che mi stava cercando di dire tutto il tempo.

«Mi stai dicendo che mi hanno sottoposto al Flash a dodici anni?» chiesi cauta collegando i pezzi del puzzle.

Amber annuì.

«Ma io ricordo la mia infanzia...» iniziai a protestare «insomma ricordo Derry, Maria... I miei amici d'infanzia»

Però, in quel momento riflettei su quei ricordi. Erano diversi dagli altri. Erano più sfocati e meno precisi. Come se ricordassi delle immagini ma non gli avvenimenti in sé. E ciò valeva per gran parte della mia vita.

Avevo sempre attribuito questa cosa alla mia pessima memoria e al lungo tempo passato ma...

«Sono falsi vero?» realizzai con orrore.

L'ansia mi stava assalendo. L'idea di non avere un passato mi stava terrorizzando.

Amber era poco più alta di me con quei suoi tacchi a spillo e mi fissava con uno sguardo dispiaciuto.

I suoi occhi color ambra erano lucidi.

Era troppo, mi sentivo come un uovo senza un tuorlo, un uovo di un uccello sconosciuto, non sapevo più chi ero, avevo perso la mia identità.

Tutto quello in cui credevo era menzogna.

Ero cresciuta nella falsità, non sapevo niente di nessuno, niente delle persone a me più care, niente di me stessa.

Mi lasciai cadere a peso morto per terra e ignorando la fitta al fondoschiena mi accovacciai e mi coprii gli occhi con entrambi le mani, aspettando le lacrime di disperazione. Ma non arrivarono.

«Sophie...» Amber mi mise una mano sulla spalla.

«Devi ascoltarmi, perché non sono qui solo per dirti la verità, ma anche per avvertirti.» continuò. Ma la sua voce sembrava solo un ronzio in quel momento. Le mie orecchie erano piene di voci false, non riuscivo a prestare attenzione, troppo persa nella mia stessa autocommiserazione.

Ma Amber continuò a parlare, ignorando il mio stato emotivo completamente devastato dalla nuova consapevolezza di avere un buco pieno di cose d'altri nella testa. Era come se mi mancasse un pezzo e che l'avessero rattoppato con qualcosa di non mio.

«Non ho più molto tempo. La B.L.C. vuole usarti e sfruttarti e non abbiamo ancora scoperto cosa i Ribelli vogliono farsene di te. Non ucciderti, questo è certo. Susan non ti ucciderebbe mai. Ma sei comunque in grave pericolo. Per questo voglio che tu venga via con me.» disse avvicinandosi a me.

Sembrava parlasse un'altra lingua. Non la capivo. Che stava farneticando?

«Ascoltami. Ti ho detto che non esistono solo la B.L.C. e i Ribelli, perché io conosco qualcuno che potrebbe salvarti la vita. Ci sono queste persone di cui faccio parte anche io. È un gruppo formato ai tempi da tua madre. Aiutiamo tutte le vittime della B.L.C. e dei Ribelli e possiamo proteggerti e nasconderti da loro.» mi disse prendendomi le mani.

La guardai sconvolta ma lei continuò.

«Avrai sentito parlare di Nox, è reale. È il nostro punto di riferimento tra le due fazioni così che tutti possano trovarlo...»

Non la stavo più ascoltando. Non sapevo se era impazzita o troppo disperata. Sapevo solo che avevo bisogno di allontanarmi.

E così feci. Strappai le mie mani dalla sua presa e corsi via, sbattendo con violenza la porta per fuggire all'esterno.

Una parte di me sapeva che Amber diceva il vero, quella parte conosceva la verità e mi confermava che mi avevano rubato la memoria.

Era solo una sensazione.

Corsi più veloce che potevo per distanziarmi il più possibile da Amber, come se fosse lei la causa di tutti i miei problemi, quando in realtà non era così.

Avevo voluto sapere. La mia sete di conoscenza e curiosità mi aveva portata a scoprire qualcosa che mi stava logorando dall'interno.

Le lacrime mi colavano lungo il viso e da calde diventavano immediatamente fredde per via dell'aria fredda.

Uscii in fretta dal recinto e mi graffiai il volto e il braccio. Ma non ci badai. Continuai a correre.

Non vidi nemmeno dove stavo correndo. Non sapevo nemmeno dove stavo andando. I miei piedi agirono da soli e ad un tratto mi ritrovai ai cancelli della Marcey Academy.

Le fronde degli alberi nascondevano l'edificio e io mi sentivo tanto minuta ai piedi di quelle sbarre nere di ferro.

Il mio cuore sembrava scoppiarmi nel petto e il vento fischiarmi nelle orecchie.

Non riuscivo a calmare il mio corpo.

Le mie mani si avvolsero attorno a due spesse barre e le scossi violentemente, come se il solo gesto mi avrebbe permessa di entrare.

Il vento fischiava ancora, sempre più forte e mi sferzava il viso bagnato da lacrime gelate.

Ad un tratto il metallo sotto le mie mani cedette. Sembrava liquefarsi sotto le mie mani.

Indietreggiai spaventata.

La mia testa iniziò a girare violentemente ed un urlo soffocato cercò di uscire dalla mia gola, proprio mentre il vento si calmava e le la mia mente si spegneva.

Svenni.

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