27. Sbaglio
«Signorina, lei non può incontrarlo» mi disse la guardia frapponendosi tra me e la porta.
Era lo stesso pel di carota della squadra prescelta. Con quel naso pieno di lentiggini e gli occhietti piccoli sembrava un uomo totalmente innocuo.
Secondo me avrebbero dovuto scegliere qualcuno dall'aspetto più minaccioso come guardia.
«Io posso, sono la nipote di Christopher Barker e voglio vederlo» dissi risoluta con il tono più autoritario di cui ero capace.
La guardia sembrava in difficoltà, si passò una mano inguantata tra i capelli carota.
«Il punto è che lei è una Popolana...»
«Fammi passare.» lo interruppi autoritaria.
«E potrai evitare di fare il turno notturno. Nessuno ama fare il turno notturno Signor...» controllai il nome sulla targhetta che portava sul petto «Carson».
Non sapevo se la corruzione avrebbe funzionato. Nei film sembrava facile.
«Signorina non dovrebbe minacciarmi» commentò Carson tornado ad essere rigido come un soldato inglese alle porte reali.
Persi la pazienza e tornai sui miei passi pestando i piedi come una bambina arrabbiata.
Ma che mi è saltato in mente?
Davvero credevo di poter superare le guardie come se niente fosse?
Avevo sopravvalutato la mia posizione.
Ero la nipote del capo. Non ero di certo una principessa o qualcuno con un titolo nobiliare.
Però volevo vedere il prigioniero.
Era chiaro che nessuno mi voleva dire la verità e dovevo trovare una soluzione alle mie domande.
Inoltre, un Ribelle in gabbia non poteva sviare e sparire come quello strano James Sharp.
Ci eravamo messi in viaggio per la Base di Philadelphia, dopo che Seth si era rimesso in sesto.
Però, a me dissero che la squadra d'Élite sarebbe rientrata con me alla Base di San Francisco. Avremmo viaggiato assieme fino a giungere l'aeroporto più vicino.
Quindi avevo poco tempo per comunicare col prigioniero.
Finché eravamo in viaggio utilizzando mezzi diversi era impossibile per me.
Trovavo sempre la scusa più idiota per far fermare le tre auto, cercando di cogliere il momento giusto.
«Io... Devo andare in bagno.» dissi.
«Di nuovo?» esclamò Jo.
«Problemi alla vescica, Hunter?» sorrise Skyler.
«Non sono affari tuoi. Vi fermate sì o no?» sbottai.
Aiden mi guardò attraverso lo specchio retrovisore e raggiungemmo la stazione di benzina più vicina, seguiti dalle altre due macchine.
Raggiunsi le latrine sul retro e inspirai nel tanfo cadaverico che mi fece salire un conato di vomito.
«Santo cielo, chiedo troppo? Solo un bagno pulito!» sibilai.
«Vuoi andare da un'altra parte?» chiese Aiden sbucato al mio fianco.
«Ehm...» mormorai.
Con la coda dell'occhio scorsi le guardie intente a scortare Bit verso una delle latrine.
«Un po' di privacy, signori!» esclamò lui.
«Zitto ed entra.» sibilò la guardia.
«Ma con queste manette è difficile togliermi i pantaloni.»
«Ti arrangerai.»
Gli occhi di Bit scorsero il mio sguardo e si passò la lingua sulle labbra.
Venni scossa da un brivido.
Avrei preferito affrontare James.
«Io... Ehm... Cerco un posto per lavarmi le mani.» dissi ad Aiden.
«Potete non seguirmi? Vorrei stare sola.» affermai abbassando lo sguardo, cercando di sembrare fragile e abbattuta.
Aiden abboccò all'amo.
«Certo.» disse indietreggiando.
Aveva anche l'aria un po' imbarazzata.
Attesi che si allontanasse e mi guardai attorno. Trovai un masso di dimensioni abbastanza grosse e dall'aria pesante e lo raccolsi con entrambe le mani. Sorprendentemente era più leggero di quanto pensassi.
Mi avvicinai di soppiatto da dietro la guardia, facendo il giro delle latrine.
Dai che ce la fai, Sophie.
È sbagliato, ma ce la puoi fare.
Le risposte valgono più di un'aggressione ad un uomo... Devo proprio rivedere le mie priorità.
Sbucai all'improvviso proprio mentre la guardia si stava girando, ma le mie braccia erano ormai calate.
«Oddio, l'ho ucciso!» squittii lasciando cadere il masso.
Mi chinai per sentire se respirasse ancora e, una volta avuta la conferma, sospirai di sollievo.
Cercai sul corpo della guardia un qualche tipo di arma e trovai diverse lame.
«Sono divise ninja?» borbottai tirando fuori altre due lame da improbabili taschini sulle maniche.
Le rigirai tra le mani, ammirandone la fattura e pensai che sarebbe stato figo saperle utilizzare. Poi mi diedi della stupida perché era un pensiero stupido e fuori luogo.
Bussai alla porta della toilette, guardandomi indietro per accertarmi che non ci fosse nessuno.
«Arrivo! Arrivo!» brontolò Bit.
Decisi che fosse meglio tenere la porta chiusa, così, utilizzai le manette della guardia per bloccala, sperando fosse abbastanza per non farlo scappare, perché non volevo utilizzare il coltello che avevo in mano.
«Sono qui per parlarti, Bit.» dissi.
Dall'altra parte rispose solamente il silenzio.
«Bambola» proferì.
Sussultai d'istinto, nonostante ci fosse una porta che ci separasse.
«Era ora» commentò con tono languido.
«Sai già cosa voglio?» Cercai di chiederlo con autorità, ma sembrava più un piagnucolio.
«Lo so bambola, ma io non ho motivo di darti le risposte che vuoi. Cosa ottengo io in cambio?» lo sentii chiedere.
Non aveva ancora provato ad aprire la porta.
Il braccio con la lama alzata iniziava a pesarmi così cambiai mano.
«Il permesso di vivere» risposi freddamente.
«Molto allettante, ma io voglio la libertà» contrattò spudoratamente senza mezzi termini.
«Non te la posso concedere» replicai.
Sbatté violentemente i pugni sulla porta facendo tremare tutta la cabina e sobbalzare me.
«E io non ti dico nulla» cantilenò.
Ero al punto di partenza.
Inoltre, presto sarebbero arrivate le guardie, quindi dovevo scoprire tutto prima del loro arrivo.
«Anche se volessi non riuscirei a farti scappare. Se ti libero ora ti prenderanno ed è questione di poco che questa guardia si svegli o che gli altri mi vengano a cercare.» affermai.
«Oh, per quello non c'è problema, volere è potere» scoppiò a ridere.
«Ci penso io» disse.
Iniziai a torturarmi le mani, combattuta tra fare ciò che era giusto e ciò che volevo.
Una lancetta ticchettava nella mia testa facendo tremare i timpani. Poi scoccò l'ora. E l'egoismo prevalse.
«D'accordo.» promisi. «Sarà fatto. Io mantengo sempre le mie promesse»
«Bene, allora fammi le domande. Poi mi liberi e io ti farò avere le risposte in una lettera. Anche io mantengo sempre le promesse.» dichiarò con tono più serio.
«Cosa?! Non se ne parla!» gridai, sentendomi una stupida che era appena stata ingannata.
«O questo o niente»
«Come posso fidarmi delle parole di un Ribelle?» sibilai. «Cosa mi garantisce che una volta fuggito mi darai le riposte?» continuai.
«Essere un Ribelle non significa non essere onorevoli. Ti giuro sulla mia vita che avrai le tue risposte.»
La sua voce si era fatta spaventata. Sembrava terrorizzato all'idea di venire rinchiuso, nulla a che vedere con il prigioniero arrogante di prima.
«Hai paura.» affermai.
«Anche tu ne avresti se venissi mandata a Philadelphia.» lo sentii dire.
«È una Base come un'altra.» dichiarai.
Rise.
«Magari se lo fosse. Il tempo scorre, non hai molto tempo per decidere. Sbrigati!» Scosse nuovamente la porta.
Avevo già tramortito una guardia ed ero già nei guai. Tanto valeva andare fino in fondo.
«Cosa ha fatto di così terribile la B.L.C.? Chi è veramente Susan Blackwood? Perché si è ribellata? Cosa cerca esattamente? Qual è il suo piano...?» iniziai a chiedere a raffica, sapendo che il tempo a mia disposizione stava giungendo al termine.
«Ehi! Che succede lì?!» sentii gridare dietro di me.
Tempo scaduto.
«Ultima, a questa rispondimi ora. Cosa vuole da me?!» dissi disperata.
«Vuole la tua fiducia e la tua forza» disse.
Tutto il mio corpo e la mia mente mi urlava che stavo commettendo un grave errore, ma un centro sconosciuto dentro di me prese il sopravvento.
Con le guardie che ormai avanzavano aprii la porta di scatto e lasciai che Bit sbucasse fuori con un balzo e corresse via.
Anche le guardie due guardie presero a correre verso lui, ma io, presa dall'istinto, lanciai le sue lame che avevo in mano.
Con i riflessi pronti, i due schivarono i miei lanci, ma ormai avevano già perso di vista il loro prigioniero. E io ero in guai grossi.
***
Ciò che accadde dopo fu più una lotta tra i miei sensi di colpa e il mio rimuginare su quel nuovo enigma che iniziò a surclassare tutte le altre migliaia di domande, piuttosto che un'esecuzione.
Nessuno mi disse niente.
Aiden si prese la responsabilità di portarmi a San Francisco da solo, mentre il resto della squadra avrebbe preso un'altra auto.
Supponevo che fosse per evitare che Skyler mi uccidesse.
Gli altri erano andati a cercare Bit.
Era un bene per me, considerando che avrei visto meno facce deluse.
Mi costringevo a guardarmi i piedi e le ginocchia quando fui sull'auto, senza scorgere nemmeno per sbaglio gli occhi oceano di Aiden.
Lui, d'altronde, non cercò nemmeno di parlarmi.
Si limitò a guidare in silenzio, senza nemmeno accendere la radio.
Quella situazione mi fece vergognare un sacco.
Quando Aiden parcheggiò sul vialetto di casa mia, mi fiondai giù dall'auto e corsi in casa senza salutarlo e senza mai voltarmi.
La porta sbatté alle mie spalle e il rombo dell'auto annunciò la sua uscita di scena.
Io scivolai sul pavimento e affondai il viso tra le ginocchia.
***
Nessuno mi cercò nei giorni successivi.
Controllavo ripetutamente il telefono, sperando in un messaggio da parte di Jo o Aiden.
Era un'azione tanto frequente che mio padre me lo ritirò. Così rimasi solo io in compagnia dei miei pericolosi pensieri.
Ancora una volta, trovai rifugio tra le pagine dei miei libri che urlavano più forte di qualsiasi problema mi si parasse di fronte.
***
Dovetti ritornare a scuola il lunedì mattina.
Corsi a scuola, decisa a incontrarli e dare loro una spiegazione valida.
Sperando di trovarli.
Non fui delusa, ma appena li vidi che parlavano davanti agli armadietti mi bloccai.
Non ne avevo il coraggio.
Mi vergognavo ancora troppo e affrontarli mi sembrò l'idea più stupida al mondo.
Avevo rovinato tutto e non volevo che me lo confermassero.
Ignorare i problemi sembrava la soluzione migliore.
Preferivo rimanere nel dubbio e fingere che andasse tutto bene.
Così decisi di voltarmi per scappare.
«Sof» mi chiamò la voce di Jo.
Mi girai lentamente, sicura di affrontare la sua espressione delusa, accusatoria o arrabbiata, ma invece trovai il suo solito sorriso, il sorriso che dedicava solo a me.
«Tu sei una schifosa Erudita» disse «la tua curiosità finirà per ucciderci tutti» affermò stupendomi.
Percepii diverse rotelle girare nella mia testa, nel vano tentativo di capire la situazione, ma fallirono.
La parte fangirl prese il sopravvento e rispose automaticamente: «O peggio, espellere!»
Se Jo era in vena di ripetere le citazioni dei nostri libri preferiti, voleva dire che era tutto a posto.
Sbriciai dietro Jo e salutai timidamente Aiden che era appoggiato agli armadietti.
«Voi... Non siete arrabbiati?» ebbi il coraggio di chiedere torturando i bordi del mio maglioncino largo.
«In realtà siamo furiosi.» rispose Jo.
Mi morsi il labbro inferiore.
«Ma con noi stessi. È colpa nostra.» continuò Aiden stupendomi.
«Cosa dici? Non è colpa vostra, ma mia!» esclamai.
«Certo, è colpa anche tua. Soprattutto tua. Ma non possiamo prendercela con te... Ora scordati di tutta questa situazione e aggiornami sulle lezioni che ho perso in questi giorni.» mi ordinò Jo con tono autoritario.
Decisi di non insistere.
Stavo iniziando ad elencare le materie che Jo avrebbe dovuto recuperare quando mi ricordai di un fatto importante.
«Accidenti! Come ho potuto scordarlo!» esclamai battendo un pugno sul palmo della mano.
«Che succede?» chiese Jo sollevando le sopracciglia.
«James. James è a San Francisco e si è iscritto in questa scuola sotto falso nome! Noah Jackson, credo.» affermai.
«Cosa?! Perché non c'è l'hai detto prima!» esclamò Jo finalmente furiosa.
Indietreggiai di un passo.
«Dopo tutto quello che è successo... Me ne sono scordata...» mormorai.
«Come puoi scordarti di una cosa così?!» sbottò Jo.
«Annie, calmati. Vai dalla preside e fatti spiegare la situazione.» le ordinò Aiden appoggiandole una mano su una spalla.
Jo chiuse gli occhi e prese un profondo respiro. Poi si scrollò il ragazzo di dosso e si avviò verso la presidenza.
«Io posso spiegare tu...» attaccai, ma lui mi interruppe tirandomi verso di lui, con una mano sulla nuca, per poi baciarmi di slancio.
Rimasi totalmente senza fiato e perfettamente stupita.
«Ti ha fatto del male?» mi chiese semplicemente dopo essersi staccato.
Scossi la testa, ancora sotto shock.
Aiden sorrise e mi accarezzò la guancia.
«Sai, io e te non abbiamo avuto ancora nessun appuntamento. Ti passo a prendere domani pomeriggio alle quattro» affermò come se fosse normale.
Si mise lo zaino in spalla e andò in classe, lasciandomi imbambolata in mezzo al corridoio.
***
Quel giorno, James non c'era e Jo era stata nervosa per tutto il tempo.
Non riuscii a parlarle di nulla, si era chiusa nel suo solito mutismo interrotto da risposte sotto forma di fastidiosi monosillabi.
Così rinunciai semplicemente a provarci.
Tornai a casa ancora incredula che mi avessero perdonata per un'aggressione verso un loro collega e aver lasciato fuggire un criminale per delle risposte che non sapevo con certezza avrei ricevuto.
Riflettendoci con la mente lucida e senza ansia e agitazione, realizzai di aver commesso un'idiozia di proporzioni epiche.
Dovevo decisamente smettere di agire per istinto. Siccome faceva piuttosto schifo il mio.
Mi stavo per addormentare quando sentii la porta di camera mia aprirsi e comparire mia madre. Mi chiese qualcosa, ma ero troppo stanca per rispondere.
***
Il ragazzino stava entrando dalla finestra.
Non mi mossi dal bordo del letto e attesi che si sedesse accanto a me.
«Tutto bene?» gli chiesi ben sapendo che non lo fosse.
«Sarà domani» disse preoccupato.
«Dimenticherò tutto...» mormorò rompendo la sua voce.
Era strano vederlo tanto insicuro, non era assolutamente da lui.
«Non accadrà.» gli promisi, anche se non sarei stata al suo fianco per proteggerlo. Avrebbe dovuto cavarsela da solo.
Prese a camminare avanti e indietro, agitando anche me.
Così mi alzai e lo abbracciai per tranquillizzarlo.
«Ho paura» sussurrò stringendosi fragilmente a me.
Anche io ne avevo.
Per lui e per me.
«Se farai tutto quello che ti dico non ti succederà nulla» dissi.
Le pareti iniziarono a sbriciolarsi, mentre il ragazzo mi continuava a dire qualcosa che non compresi.
Poi si riformarono, trasportandomi in un luogo stranamente familiare.
C'ero sempre io assieme al ragazzino di prima. Però il mio stato d'animo era cambiato.
Non provavo più paura, ma ero piena di disperazione.
«Perché con me non ha funzionato?» chiesi piagnucolosa.
Serrai le labbra cercando di non gridare troppo, di non esplodere del tutto.
«Non saprei, forse sei più speciale» suggerì il ragazzino seduto davanti a me sorridendo appena.
«Più speciale? Ma che dici! Semmai c'è qualcosa che non va in me!» protestai infuriandomi.
«Smettila di piangere Fi!» pregò il ragazzino dagli occhi color...
Aprii gli occhi, il sogno cominciava già a farsi più sfocato davanti a me e scivolava dalla mia mente, piano piano più sveglia, come acqua tra le mani.
Mentre mi alzavo e stropicciavo gli occhi, rimasi diversi minuti a fissare le ante dell'armadio cercando di afferrare i rimasugli di quel sogno. Ma inutilmente.
Il tempo di lavarmi e prepararmi che già l'avevo scordato del tutto.
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